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Al Capone è figura leggendaria: il gangster di origini italiane è uno dei simboli della criminalità statunitense, il suo nome evoca il periodo del proibizionismo e le mitragliatrici, le stragi e gli assassini vestiti di tutto punto.
La figura di Capone è già apparsa al cinema, e tra le più famose interpretazioni c'è indubbiamente quella di Robert De Niro ne Gli Intoccabili - The Untouchables di Brian De Palma, film del 1987 dove i protagonisti sono gli uomini della task force che riuscirono a mandarlo in galera.
Ma Capone sul grande schermo apparve la prima volta nel 1959, interpretato da Rod Steiger nel film diretto da Richard Wilson dal titolo, appunto, di Al Capone.
In questi 61 anni Capone è poi apparso in un'altra quindicina di opere, compresi film come Una Notte al Museo 2 e serie televisive come Boardwalk Empire.
["Sei solo chiacchiere e distintivo!"]
Spesso Al Capone, pur non comparendo come personaggio a sé, è servito agli sceneggiatori come base per personaggi cinematografici che ne traevano evidente ispirazione, tra i più noti senza dubbio Tony Camonte (Paul Muni), protagonista dello Scarface di Howard Hawks, e il gangster che per poco non uccide Tony Curtis e Jack Lemmon all'inizio di A qualcuno piace caldo, chiamato nel film Ghette e interpretato da George Raft.
La strage di San Valentino - avvenuta realmente per mano degli uomini di Capone il 14 febbraio 1929 - è il motivo della fuga dei due musicisti.
Tutti questi film hanno una cosa in comune: la rappresentazione di Al Capone come esecrabile, ma a suo modo mirabile, esempio di gangster senza scrupoli che ottiene ciò che vuole.
La figura del criminale viene presentata in ascesa o all'apice e solo raramente, e per poco, lo si vede cadere.
Quella sporca ultima notte è un film del 1975 - con un giovane Sylvester Stallone co-protagonista, all'epoca ancora misconosciuto e sull'orlo di spiccare il volo con Rocky l'anno successivo - dove nel finale si vede anche il periodo meno edificante della vita di Al Capone, quello in cui il gangster viene colpito dalla sifilide e viene scarcerato pochi anni prima del fine pena per dargli modo di essere curato a casa, mentre la demenza dovuta alla malattia lo consuma.
Capone di Josh Trank sceglie di raccontare solo quella parte.
Nel film non vediamo Al Capone all'apice, non lo vediamo mentre "fa cose da gangster" [cit.], non ci viene mostrato nei panni di un duro criminale integerrimo.
Anzi.
Il titolo originale del film a mio avviso avrebbe descritto meglio l'opera: prima del cambio in Capone infatti il film si intitolava Fonzo, che è l'appellativo affettuoso con il quale Alphonse Gabriel Capone viene chiamato dai familiari e dagli amici più intimi.
Perché è esattamente quello che vediamo: vediamo Alphonse, non vediamo Capone.
Il film sceglie di esagerare mostrandoci un ex gangster che non è più l'uomo che era.
Il Capone di Tom Hardy è un uomo patetico, incontinente, malato.
Trank non risparmia nulla e anzi cerca a tutti i costi di distruggere il mito creatosi attorno al nome dell'italoamericano, prendendosi gioco di lui in tutti i modi possibili.
Destruttura il personaggio e mette a nudo l'uomo, che ha smesso ormai di essere ciò che era su molteplici livelli: non ha più autorità su nulla, non ha credibilità, non mette paura, non è in grado di dare ordini né di farsi rispettare.
È costretto a imbottirsi di medicinali, a indossare un pannolone e ad affrontare i suoi incubi che si manifestano mediante forme allucinatorie per perseguitarlo e rendergli la già triste esistenza pressoché impossibile, per lui e per chi gli sta intorno.
Tom Hardy ce la mette tutta nell'interpretare un uomo sull'orlo della cinquantina in preda alle allucinazioni e alla paranoia, incapace ormai di distinguere il vero dal visionario e gli amici dai nemici.
L'attore britannico ci ha abituati a performance con registri del tutto particolari, basti pensare all'esplosivo e folle Bronson di Nicolas Winding Refn o al triste ingegnere intrappolato nella vita - e in una macchina - di Locke, oppure ancora al feroce Fitzgerald di Revenant - Redivivo.
Tom Hardy è uno di quegli attori che nei suoi personaggi mette se stesso e la vita da mezzo criminale che viveva prima di arrivare a Hollywood: la cosa si vede, si percepisce sempre, ma nel caso di Capone si spinge secondo me troppo in là, e non lo aiuta certo il trucco che appare troppo posticcio per i soli 6 anni che separano la sua età anagrafica da quella del personaggio che interpreta.
Costruisce una voce che suona spesso forzata e ridicola, con un italiano parlato a stento e che spesso - da italiano quale sono - palesa il fatto che i fonemi bofonchiati abbiano solo un'assonanza con la nostra lingua, ma in realtà non sono nemmeno parole di senso compiuto.
Fonzo Capone diventa allora una sorta di parodia di se stesso, che ha il risultato di rendere molte scene imbarazzanti al posto di essere empatiche.
Ma se è davvero l'imbarazzo il sentimento che il regista voleva farci provare, l'obiettivo a mio avviso viene comunque raggiunto a metà, perché si tratta di un imbarazzo che non riguarda semplicemente il personaggio protagonista del film, ma il film stesso.
In generale su tutto il film di Josh Trank aleggia quest'aria confusa, a metà tra il serio e il faceto, come se l'autore non avesse ben chiara la direzione da dare all'opera.
Credo che Capone sia un ottimo esempio di come l'arte di fare del Cinema sia un lavoro collettivo; un film è il risultato di tante menti al lavoro sullo stesso progetto, tante professionalità diverse che danno il meglio per dare al pubblico la visione di un regista, demiurgo dell'opera generale a cui tutti devono far capo.
Ma quei tutti ci sono, e spesso dicono la propria, danno il loro apporto.
Capone invece si porta dietro a mio avviso il difetto di essere stato scritto, diretto e montato dalla stessa persona.
Chiariamoci: gli autori esistono ed esistono anche quei registi factotum in grado di lavorare su più reparti.
John Carpenter, Robert Rodriguez, i fratelli Coen - gli esempi potrebbero essere ancora tanti ma mi limito a questi, tra i più recenti e più noti - hanno dimostrato di essere in grado di scrivere, produrre, dirigere, montare, spesso anche occuparsi della fotografia e delle musiche di un film, con ottimi risultati.
Josh Trank probabilmente non fa parte di quel novero.
In Capone ho percepito molte volte la decisione di un uomo solo al comando, senza nessuno che gli dicesse che forse era troppo, o troppo poco.
La bella ed elegante fotografia di Peter Deming - uno che a curriculum ha un film come Mulholland Drive - non salva un film confuso e confusionario, che sembra formato da tante piccole scene messe una accanto all'altra senza che però venga raccontato alcunché.
Anche i personaggi secondari interpretati da Matt Dillon e Kyle MacLachlan sembrano comparire nel film senza uno scopo preciso, come se le loro parti fossero state rimaneggiate in montaggio e mancassero scene fondamentali che facciano comprendere meglio il loro ruolo all'interno della storia; Linda Cardellini nei panni della moglie di Capone ha invece un ruolo più rotondo, anche se sempre e comunque all'ombra dell'ingombrante e ormai ingestibile marito.
E a un certo punto tutta questa confusione ha avuto su di me anche il risultato di farmi innervosire, perché si intravede che sulla carta e sul set c'erano delle ottime possibilità per tratteggiare il ritratto di un uomo finito, per raccontare la caduta inesorabile nello schifo di un criminale che aveva in mano tutto ciò che voleva, ma che viene debilitato e abbattuto da una malattia.
Ma poi quelle premesse sono state disattese, e il risultato finale è irritante.
Ci sono secondo me delle scene ottime, in Capone, soprattutto per merito di Tom Hardy e di quella sua figura così debordante ed esagerata, quasi fumettistica, che ha scelto di portare sullo schermo.
Vederlo vagare in giardino in vestaglia e pannolone, mentre spara all'impazzata verso la sua splendida villa con un mitragliatore placcato oro e con in bocca una carota al posto di un sigaro, è un colpo d'occhio niente male.
Partecipare alle sue visioni, messe in scena spesso in maniera inquietante, è un bello spettacolo.
Il coccodrillo.
Le mosche.
Ma trovo che siano solo dei pezzetti di film che non vanno poi a creare un'opera che sia qualcosa di integro e di lineare, e il MacGuffin dei 10 milioni di dollari nascosti chissà dove funziona solo fino a un certo punto.
L'espediente di sceneggiatura, chiamato con il termine che coniò Alfred Hitchcock, serve in teoria a portare avanti una storia facendo finta che sia esso il motore centrale della narrazione quando in realtà è un mero specchietto per le allodole.
La valigetta di Pulp Fiction, il tappeto de Il grande Lebowski, la busta con i dollari - appunto - di Psyco: tutti ottimi esempi di MacGuffin.
Nel caso di Capone, invece, il mistero sui milioni di dollari la cui ubicazione il protagonista non ricorda più quale sia, non porta da nessuna parte.
Il lavoro di distruzione di un mito dovrebbe poggiarsi su una figura forte, per poi colpirla ai fianchi e farla inabissare: se la figura non è un mito ma una macchietta, e se la messa in scena ha anche la pretesa di essere presa sul serio, allora tutta l'operazione è fallimentare, sconclusionata e vanifica quanto di buono c'è all'interno del film.
Josh Trank ha fortemente voluto questo film: la sua carriera partita a razzo grazie a Chronicle - film del 2012 che lo fece diventare uno dei più giovani registi di sempre ad avere un proprio film in testa ai botteghini, record condiviso con gente del calibro di Steven Spielberg e James Cameron - vide una grossa battuta d'arresto con Fantastic 4 - I Fantastici Quattro, il reboot delle avventure degli eroi Marvel che ricevette recensioni disastrose da critica e pubblico.
Poi sparì.
Si parlò di lui come uno dei registi e sceneggiatori di uno dei nuovi film della saga di Star Wars (era il 2014), ma non se ne fece nulla.
Quattro anni fa venne annunciato Fonzo, divenuto poi Capone.
Un film definibile come passion project per Trank, che a ormai 36 anni e con appena 3 film alle spalle deve però evidentemente ancora capire cosa vorrebbe fare da grande.
Purtroppo credo che non sarà Capone a chiarirgli le idee.
Quante volte sei caduto in trappola per colpa di un titolo clickbait che poi ti ha portato a un articolo in cui non si diceva nulla? Da noi non succederà mai.
2 commenti
Teo Youssoufian
4 anni fa
scrivimi un messaggio a info@cinefacts.it: c'è una sorpresa per te 😉
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Simone Miglio
4 anni fa
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