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Midsommar è la seconda opera del regista di Hereditary: Ari Aster scrive e dirige i propri film dedicandosi al genere horror, ma interpretandolo in una chiave personale già evidente dopo solo due film, scegliendo l'inquietudine al posto dello spavento e preferendo lavorare sulla testa dello spettatore piuttosto che sul suo stomaco.
Il periodo stantìo del genere - che perdura ormai da troppo tempo con film luna park dove il terrore non esiste e viene sacrificato in nome del salto sulla poltroncina, provocato dallo stesso identico schema che prevede uno stacco improvviso accompagnato da un effetto audio a volume indecente - sembra forse essere finito.
In questi ultimi anni soprattutto tre autori hanno dimostrato di voler riprendere in mano le redini dell'horror cinematografico, genere che alla Storia del Cinema ha regalato capolavori memorabili e che è nato contemporaneamente al Cinema stesso: Jordan Peele, Robert Eggers e Ari Aster.
Il primo, classe '79, ha scritto e diretto Scappa - Get Out e Us, il secondo, classe '83, ha stupito il mondo con il suo The Vvitch e sta per farlo ancora con The Lighthouse, apprezzatissimo al Festival del Cinema di Cannes, e il terzo, classe '86, arriva adesso nelle sale con Midsommar dopo la sorpresa Hereditary.
Tre autori, che scrivono e dirigono i propri film, cresciuti tutti artisticamente a New York - Aster e Peele ci sono anche nati - e che propongono tre diverse declinazioni dell'horror, tutte molto personali e definite, tutte con un forte messaggio sociale e politico alla base che va ben al di là di quello che semplicemente mostrano sullo schermo.
Tra le cose che ho apprezzato di Midsommar c'è la volontà precisa e percepibile di Aster di volersi distanziare dalla sua opera prima: se Hereditary ci catapultava da subito all'interno della storia e costruiva la tensione giocando tanto sui luoghi chiusi, sul buio, sulle ombre, Midsommar fa l'esatto contrario e fa in modo che lo spettatore scivoli lentamente nell'incubo, lo avvolge, lo coccola con una promessa sinistra suggerita dai particolari e dai dettagli disseminati fin dall'inizio e lascia che si invischi come farebbe una mosca nel miele, fino al punto di non farlo muovere, immobilizzarlo sulla poltroncina con gli occhi spalancati senza dargli la possibilità di reagire se non stando inerte ad elaborare quello a cui sta assistendo.
E tutto ciò accade nella situazione visivamente meno thrilling in assoluto: in mezzo alla campagna svedese, con prati verdi a perdita d'occhio e un sole sempre alto nel cielo che nemmeno a mezzanotte fa calare la notte, in quella tipica atmosfera estiva nordeuropea dove le giornate sembrano infinite e il buio non arriva mai.
La storia di Midsommar - lasciate perdere il sottotiolo italiano: fuorviante e ridicolo, probabilmente messo da qualcuno che non ha nemmeno visto il film - racconta la crisi di una giovane coppia: Dani (una bravissima Florence Pugh) affronta una terribile tragedia familiare proprio nel periodo in cui Christian (Jack Reynor) sta meditando di chiudere la loro relazione, nella quale si sente imprigionato e non soddisfatto.
Ovviamente il momento è quello sbagliato e il rapporto tra Dani e Christian prosegue reggendosi su delle finte sicurezze, fino al momento in cui degli amici di Christian decidono di organizzare un viaggio in Svezia per assistere al Midsommar, una festa di metà estate tenuta nella comunità autosufficiente dove è nato Pelle (Vilhelm Blomgren), uno della loro compagnia, anche per dare modo a Josh (William Jackson Harper) di scrivere la sua tesi; assieme a loro c'è Mark (Will Poulter), più attratto dalla promessa copulatoria insita in un viaggio simile che dal lato sociologico o meramente turistico.
Nonostante i programmi fossero inizialmente diversi, e dediti al più becero dei pensieri stile "vado in vacanza in Svezia da single", Dani viene invitata a far parte della compagine pur sapendo di non andare a genio agli amici di Christian.
La comune di Pelle è isolata dal resto del mondo e il villaggio di Hårga si presenta come un posto idilliaco dove tutto viene condiviso, il rapporto tra uomo e natura è antico, indissolubile e pervaso da un profondo rispetto, dove i riti pagani e le tradizioni si perdono nei secoli addietro e dove si comunica attraverso le rune e un alfabeto proprio.
Ma ovviamente quello che in Midsommar appare splendido agli occhi nasconde qualcosa di terribile, qualcosa che gli statunitensi in vacanza non si aspetterebbero mai e che sconvolgerà la loro concezione di normalità e le loro stesse esistenze.
Se si parla di comunità dedite a riti pagani è inevitabile pensare a The Wicker Man, il film horror britannico del 1973 con Christopher Lee diretto da Robin Hardy, unica gemma della sua anomala carriera.
Midsommar è in minima parte debitore nei confronti del film di Hardy: ne condivide il tema di fondo ma, oltre a mancare del tutto l'aspetto investigativo con l'agente di polizia che tenta di risolvere un caso, manca il discorso sul confronto tra religioni e la cattiveria della comunità rurale, la loro consapevolezza di fare qualcosa di socialmente non accettabile.
Ciò che colpisce, e che fa di sfondo al discorso sociopolitico di Aster, è che la comune di Hårga vive i propri rituali come corretti e validi, senza porsi il problema di come questi possano essere visti da un occhio esterno.
Certo, conoscono il mondo esterno e anzi l'esplorazione del mondo fa parte del percorso di vita di ogni appartenente alla comunità, che prevede la divisione della vita in quattro fasce d'età, collegate alle stagioni dell'anno, dove una è dedicata proprio a uscire da Hårga per vedere cosa c'è fuori.
Ma questo non li fa dubitare di ciò che sono, anzi.
La messa in scena di Midsommar si presenta fin dalle prime inquadrature come potente e visionaria: gli squilli del telefono in apertura del film ritmano gli stacchi di montaggio, la macchina da presa sta appiccicata addosso a Florence Pugh in ogni momento possibile e la cosa permette allo spettatore di empatizzare con lei nonostante la sua condizione sia estrema, sia per quello che vive che per come sceglie di viverlo - e come si trova costretta a farlo.
Il terrore di Midsommar è lento, insinuoso, mellifluo, Ari Aster non vuole spaventarci bensì farci del male.
Non vuole tagliarci in due con un colpo deciso di accetta, ma aprire una piccola ferita dentro di noi per poi infilarci un dito e continuare ad allargarla con una flemma insostenibile, guardandoci negli occhi mentre soffriamo per vedere che effetto fa.
Se uno dei meriti maggiori per un autore è la capacità di raccontare delle storie, se davvero nel Cinema lo storytelling è ancora oggi l'aspetto fondamentale, allora secondo me siamo davanti ad un autore eccezionale.
La storia che Aster ci racconta in Midsommar è stratificata, densa, carica, è un albero solido con dei rami lunghi e robusti, sui quali nascono le tante foglie che sono poi i suoi personaggi e i rapporti che si instaurano tra di loro e con lo spettatore.
Il regista e sceneggiatore crea dal nulla una comunità intera con il proprio alfabeto e la propria lingua, con i propri rituali, le proprie credenze e le proprie tradizioni che solo tangenzialmente toccano la vera festa di metà estate che avviene in Svezia e si trasforma in qualcosa di oscuro e terribile, tutto alla luce del sole.
L'inesorabile, spietata, infinita luce del sole.
Ari Aster cesella Midsommar come farebbe un artigiano del legno alle prese con un grande tavolo pieno di intarsi, come farebbe un pittore emulo di Hieronymus Bosch alle prese con un affresco.
Ho personalmente amato molto anche la confezione di Midsommar: la fotografia di Pawel Pogorzelski - già collaboratore del regista su Hereditary - mette al centro i personaggi e sceglie di farci provare l'orrore soprattutto attraverso i loro occhi, di mostrarci il sogno e l'idillio prima di scaraventarci all'inferno, con una pulizia compositiva invidiabile e una rappresentazione del trip da psilocibina che sinceramente non ricordo di aver visto altrove reso così alla perfezione.
E il lavoro dello scenografo Henrik Svensson - all'esordio in un lungometraggio! - costruisce da zero un credibilissimo villaggio della Hälsingland, fatto di legno e di paglia, di dipinti all'interno delle case dormitorio che ricoprono ogni centimetro quadrato e di artefatti e oggetti sacri originali eppure plausibilissimi: un'iconografia intera, credibile, precisa, nata dal nulla.
La protagonista di Midsommar deve ritrovare se stessa, e farlo dove non cala mai il sole e dove si seguono tradizioni agghiaccianti e lontane anni luce da quelle della società occidentale non fa che aumentare il suo stato di paranoia, facendola traballare e passare dall'entusiasmo all'angoscia nel giro di un attimo.
I suoi incubi e i suoi sensi di colpa le scavano solchi nell'anima, il dubbio su cosa sia vero e cosa no si impadronisce di lei e tutto il percorso che compie nei 140 minuti di film culmina finalmente con una catarsi definitiva.
Terribile, atroce, ma risolutiva.
Florence Pugh interpreta la sua complicatissima Dani in maniera superba, diretta molto bene da Aster che riesce nell'impresa di non renderla mai ridicolmente disperata né inspiegabilmente instabile: tutto è giustificato, spiegato, lampante.
Midsommar inoltre cela in sé un discorso più grande, oltre all'orrore di ciò che mostra.
La comune di Hårga è pienamente cosciente di sé e del suo rapporto con Madre Natura.
I riti che vengono minuziosamente seguiti e messi in pratica hanno lo scopo di migliorare la vita della comunità: tutti li accettano e sono entusiasti di farne parte.
Nonostante ai nostri occhi siano qualcosa di irragionevole e indifendibile, per loro le cose funzionano in quel modo.
Da sempre, per sempre.
E come loro scelgono di isolarsi dal mondo esterno, rispettandone la cultura, gli usi e i costumi così lontani dai loro, chiedono a noi di fare lo stesso.
Ci accolgono sorridendo, convinti di essere nel giusto e di seguire delle leggi oneste e pure, e vogliono da parte nostra il rispetto nei loro confronti.
Per ciò che sono, per ciò che fanno, per ciò che dicono e come lo dicono; ci chiedono di assistere senza interferire né soprattutto giudicare, senza provare a convincerli che è sbagliato, che è male, che non si fa.
In Midsommar chi non rispetta le tradizioni pagane di Hårga smette immediatamente di essere una persona gradita.
E pagherà per non aver ottemperato alla richiesta di rispetto, per aver voluto travalicare lo status di testimone silenzioso e aver cercato quindi di indagare.
Per aver provato a interferire, a opinare, a rifiutare, a disubbidire, a violare.
Gli Hårga di Midsommar basano la propria esistenza su antiche scritture rivisitate da un oracolo - risultato di una conscia endogamia - e interpretate dagli anziani, scelgono di accoppiarsi con un rito ancestrale che pone le donne al centro di tutto, decidono di piegare la vita al loro volere e di non far sì che sia il Tempo ad avere la meglio su di loro.
Per quanto possa sembrarci assurdo, ci chiedono di rispettarli.
Di accettare la differenza senza pensare di essere noi quelli giusti, quelli retti. Noi con i nostri difetti e le nostre invidie, i nostri tradimenti nei confronti del prossimo e dei nostri stessi valori, noi con la nostra rincorsa all'effimero e al materiale che ci fa perdere di vista lo spirito e l'anima.
Ari Aster porta nelle sale un film che all'inizio può apparire a tratti misogino ma che lentamente si trasforma nel trionfo del matriarcato; un'opera in cui viene messa al centro l'importanza della condivisione come strada verso la purificazione e come soluzione al male di vivere.
Solo nel gruppo si sopravvive all'afflizione che ognuno di noi si porta dentro, solo esternando e urlando a pieni polmoni il proprio malessere assieme alla nostra comunità si potrà esorcizzare il dolore e andare oltre.
Abbandonandosi all'abbraccio collettivo piuttosto che dipendere da una persona sola.
Midsommar Midsommar Midsommar Midsommar Midsommar Midsommar
Ci sarebbe anche il discorso sulla (s)cultura a stelle e strisce dei ventenni contemporanei: la scusa della tesi di antropologia maschera una critica forte e il fatto che il protagonista maschile si chiami Christian... non penso sia casuale.
Se cercate un horror che fa del gore e dello splatter la sua impronta principale, cercate altrove.
Midsommar vive di altro e, seppur ci siano delle inquadrature esplicite su corpi e volti lacerati e a pezzi, non è quella la sua caratteristica precipua.
Una molle e inesorabile discesa verso la pazzia, resa ancora più folle dalla normalità con la quale ci viene presentata.
Aster spinge al limite le possibilità del mezzo cinematografico e a mio avviso riesce nell'intento di proporci una storia originale, mai banale, affascinante e angosciante: una fiaba folk con tutto quello che di orrifico vi possa venire in mente e che avviene senza mai nascondere nulla nell'oscurità, ma al contrario esponendoci tutto davanti agli occhi, fin dai primissimi minuti.
Se queste sono le premesse, abbiamo oggi un altro Grande Autore in grado di donare al Cinema delle Grandi Storie, senza scendere a compromessi da major e senza mostrarsi accondiscendente nei confronti del pubblico mainstream odierno.
Jordan Peele, Robert Eggers, Ari Aster.
Era ora.
Quante volte sei caduto in trappola per colpa di un titolo clickbait che poi ti ha portato a un articolo che non diceva nulla? Da noi non succederà mai.
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