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Quando un regista che fa film cosiddetti d’autore - definizione che odio, ma che qui userò per amore di sintesi - fa un film di genere, ho sempre quel vago presentimento che uscirò dalla sala come se mi avessero rapinato.
Ultimamente mi era successo con il remake di Suspiria, un bel film che però ha messo troppo in secondo piano il genere.
La sensazione che invece ho provato uscendo dalla sala dopo aver visto Il traditore di Marco Bellocchio, candidato al 72° Festival del Cinema di Cannes, è stata di assoluto appagamento.
Un appagamento che non provavo da tanto. Il che ha spinto chiedermi da cosa questo potesse dipendere.
La risposta credo sia questo: Il traditore mi ha ricordato, per asciuttezza, ritmo e incisività, il grandissimo Fernando Di Leo.
[Il mitico Fernandone Di Leo]
La storia è quella del celebre mafioso di Cosa Nostra, poi pentito, Tommaso Buscetta, interpretato in modo (in)credibile da Pierfrancesco Favino.
In particolare Il traditore affronta le ragioni e i ragionamenti che hanno portato Buscetta a collaborare con la giustizia in un periodo, ricordiamolo, in cui della mafia non se ne sapeva pressoché nulla.
Nonostante, però, sia un film incentrato sui personaggi, il regista e gli sceneggiatori non si dimenticano affatto del genere, inserendo scene di sesso e violenza, anche brevi, con un tempismo chirurgico all’interno della narrazione.
In questo modo l’attenzione non cala mai, e le due ore e mezza di film scorrono veloci tanto da volerne ancora una volta finito.
Il traditore fluisce anche grazie a una regia che si mette a totale servizio della storia.
Bellocchio non eccede mai, gira in modo asciutto, essenziale.
Ogni sequenza viene girata con il suo genere di riferimento: quando si spara, il film diventa un action; in tribunale diventa un legal drama; quando Buscetta è con la famiglia diventa un dramma familiare.
E tutto questo avviene senza che lo spettatore se ne accorga, perché la regia di Bellocchio è la più difficile: è una regia invisibile.
Tutto il comparto tecnico, poi, è straordinario.
I costumi, le scenografie e soprattutto la fotografia - che, seppur digitale, cerca di emulare la pellicola - ci fanno immergere totalmente in quegli anni.
Non si ha mai l’impressione di avere davanti delle immagini patinate, tipica del digitale, ma di vedere lo scorrere delle azioni così come ci si presenterebbero ai nostri occhi.
E questo effetto di realismo non è frutto di scorciatoie tecniche, come ad esempio l’abusata macchina a mano, ma di una costruzione della narrazione fluida, una regia spogliata di ogni orpello inutile e un Favino che, finalmente nelle mani di un grande regista, riesce a tirare fuori tutto il suo mostruoso talento.
Tutto questo complesso sistema messo a punto da Bellocchio insieme al suo cast tecnico e artistico ha come fine ultimo quello di non cadere nella pericolosa trappola dei film e delle serie di questo tipo: quella di mitizzare la mafia.
Dimenticatevi le serie tipo Gomorra, Suburra, Narcos e simili, dove la criminalità è glamour, dove si ricerca continuamente l’epica e dove i dialoghi sono pieni di frasi a effetto.
Il traditore è l’opposto di tutto ciò.
Il regista ha ben chiaro questo rischio, il fatto che mettendo in scena l’umanità di un mafioso, si rischi di fare immedesimare troppo lo spettatore nel personaggio.
Tuttavia, non dargli neanche un po’ di fascino avrebbe reso il film senza carattere.
Marco Bellocchio, insieme ai suoi abili sceneggiatori, però, riesce a uscire da questa impasse piazzando nel film due scene inequivocabili.
La prima dopo una mezz’ora dall’inizio, durante il primo interrogatorio con il magistrato Giovanni Falcone, in cui Buscetta comincia con la solita storia che la Cosa Nostra degli albori era diversa, gli uomini avevano una morale e si aiutava la povera gente.
Il giudice interrompe bruscamente il pentito dicendogli che con lui questa retorica non funziona, e che la mafia fa schifo.
Punto.
La seconda scena invece è nel finale del film, in cui lo spettatore, dopo essersi metaforicamente abbandonato tra le braccia del protagonista, viene bruscamente riportato alla dura realtà: una realtà in cui un mafioso è un mafioso, con tutto ciò che questo comporta in termini criminali.
Sullo sfondo di tutto ciò, dal punto di vista tematico, Bellocchio non dimentica di inserire una serie di conflitti enormi.
Uno di questi è il rapporto tra l’uomo e il potere.
Fino a dove vale la pena spingersi per amore del potere?
Buscetta a un certo punto confessa:
“Riina dice che è meglio comandare che fottere. Io penso il contrario”.
Buscetta non ci appare un mostro come Totò Riina per questo, nonostante sia soprannominato il boss dei due mondi, si è sempre definito un soldato semplice. Buscetta è uno a cui piace di più godersi la vita che avere le beghe di amministrare il potere.
Insomma, non è un avido.
Proprio grazie a questo suo dualismo con Riina, il regista inserisce anche un altro grande tema classico: eros e thanatos.
Buscetta, amante del sesso e della bella vita contrapposto al boss di Corleone, autoreclusosi nella sua casa dalla quale dispensa ordini di morte, non facendosi scrupolo di ammazzare innocenti, donne e bambini.
Un tema che, però, contraddistingue anche un conflitto interno a Buscetta, le cui azioni sono sempre dettate dalla consapevlezza di essere un morto che cammina.
In uno dei colloqui con Falcone dice che il punto non era se loro due sarebbero morti o no, ma chi dei due sarebbe morto prima.
Anche altre due scene ci descrivono bene questa logica.
La prima è una in cui Buscetta sogna di essere chiuso in una bara da vivo, e la seconda dove, recluso da giovane in carcere, si fa portare dentro la cella una prostituta, con cui farà sesso a pochi metri dal cadavere ancora caldo di un carcerato.
Il suo potere, quindi, non viene usato per dare la morte, ma metaforicamente per dare la vita.
Il convitato di pietra del film è indubbiamente la presenza dello Stato, che aleggia costantemente, ma non oscura la vicenda umana di Buscetta.
In particolare il suo dualismo: c’è lo Stato come istituzione, con il suo garantismo e la sua protezione, e c’è lo Stato politico, i cui rappresentanti collusi e corrotti usano il loro potere in modo autoreferenziale, riassunto molto bene nel film, seppur brevemente, nella persona di Giulio Andreotti.
La civiltà della nostra costituzione si evince, in modo assolutamente non didascalico, dal fatto che Buscetta, trattenuto nelle carceri brasiliane, veniva torturato.
Invece quando diventa collaboratore di giustizia in Italia viene trattato come un essere umano.
Rimangono impresse soprattutto le scene in cui, nella stanza dove risiedeva durante il periodo dell’istruttoria del maxi processo, gli veniva servita la cena dai poliziotti come fosse in hotel. Scene che in questo nostro presente, fatto di tagliagole e giustizialisti, rimangono scolpite nella mente per la loro potenza.
Tutta questa carne al fuoco sarebbe stata inevitabilmente bruciata da un qualsiasi regista che non abbia l’esperienza e l’intelligenza di Marco Bellocchio.
Solitamente chi vuole inserire tutti questi temi fallisce, non facendo prendere una direzione chiara al film.
Ne Il traditore il regista riesce a bilanciare saggiamente tutto, rendendo comunque centrale la vicenda umana di Buscetta, inserendola anzi in un contesto complesso e mai didascalico.
Il mezzo attraverso cui raggiunge questo risultato è una regia anti epica, oltre che una grande sceneggiatura.
Ogni fase della vita di Tommaso Buscetta è un film a sé che avrebbe meritato di essere girato da parte.
Avrebbero potuto scegliere la via della serie, con tutti i problemi di annacquamento che ne sarebbero derivati. Fortunatamente ne è stato fatto un film.
Fortunatamente lo ha girato Marco Bellocchio.
Fortunatamente ce lo possiamo godere in tutto il suo splendore sul grande schermo.