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''Il Cinema ha la missione, non tanto di inventare, ma di scoprire, di catturare la bellezza come una preda''.
Quando si parla di Nouvelle Vague, i primi nomi che saltano alla mente sono giustamente quelli di François Truffaut e Jean-Luc Godard, i veri iniziatori di quella corrente artistica rivoluzionaria.
Ci sono stati ovviamente anche i vari Claude Chabrol, Jacques Rivette e Alain Resnais a essersi riconosciuti nel movimento fin dai suoi albori, ma oggi vorrei concentrarmi su un altro artista, di cui si parla sempre poco nei siti specializzati di cinema ma che è stato ugualmente fondamentale per il cinema francese (ed europeo), alla pari dei nomi sopracitati, e che merita di essere accostato al lavoro dei più noti Truffaut e Godard.
Uno dei miei registi preferiti in assoluto: Maurice Schérer, in arte Éric Rohmer.
Con alle spalle una formazione umanistica (è laureato in lettere) e alcuni anni da insegnante liceale, Rohmer muove i primi passi nel mondo del Cinema nel 1950, anno in cui fonda il giornale La Gazette du Cinéma insieme agli amici Godard e Rivette.
L’anno successivo entra a far parte dell’appena fondata Cahiers du Cinéma, una delle riviste cinematografiche più famose di tutti i tempi, responsabile del recupero e della rivalutazione di innumerevoli registi del Cinema hollywoodiano classico e dell’analisi di capolavori del Neorealismo italiano (Roberto Rossellini in primis), che costituiranno le basi artistiche della futura Nouvelle Vague, da inizio anni '60 in poi.
La sua carriera all’interno della Settima Arte inizia dunque nelle vesti di critico, nel giornale dei Cahiers di cui sarà caporedattore dal 1957 al 1963; a lui, in particolare, si deve la redazione di un dettagliato saggio su Alfred Hitchcock, che può essere a buon diritto considerato come un'anticipazione di quello stesso lavoro che farà François Truffaut una decina di anni dopo e in modo ancora più approfondito, realizzando la celebre intervista al Maestro.
È in questo ambiente che decide di adottare lo pseudonimo di Éric Rohmer, in omaggio al grande regista muto Erich von Stroheim, con cui sarà ricordato d’ora in poi.
Esordisce dietro la macchina da presa ad inizio degli anni '50, realizzando sei corti.
Il primo lungometraggio risale al 1959, con Il segno del leone, film che lo impone fin da subito all’attenzione generale; sono qui ravvisabili molti dei marchi di fabbrica che caratterizzeranno la stagione della Nouvelle Vague, in quel momento ancora agli inizi.
I titoli di questo suo primo periodo, che è corretto far iniziare nel 1959 e far finire al termine della decade successiva, posseggono infatti diversi requisiti in linea con la suddetta corrente artistica, già riscontrabili nell’altro gigante del periodo coevo, quale Jean-Luc Godard: bianco e nero; ambientazione parigina; riflessioni sulla società borghese; l'importanza del caso, palese e unico dominatore della vita degli uomini.
Tre anni dopo, è già tempo per uno dei suoi capolavori: La fornaia di Monceau (1962), che può essere a buon diritto considerato come un atipico trattato amoroso, nel quale trova una prima esplicitazione uno degli aspetti fondamentali di tutto il suo lavoro, vale a dire il gioco del corteggiamento, che sarà ravvisabile in molte altre pellicole a venire.
Ma è verso la fine del decennio che vedrà la luce la vera punta di diamante di una vita intera, una delle più grandi opere del cinema d'oltralpe, nonché uno dei miei film preferiti in assoluto: La mia notte con Maud (1969).
Fate un favore a voi stessi: segnatevi questo film e non ve ne pentirete.
Avete presente quella sensazione di assoluta perfezione e sublimità, che si prova durante (e dopo) la visione di titoli quali 8 1/2, Fino all'ultimo respiro e Il posto delle fragole?
Bene, La mia notte con Maud non solo non fa eccezione, ma merita a buon diritto di essere equiparata alle grandi opere di Fellini, Godard, Bergman e di tutti gli altri importanti rappresentanti del cinema d'autore europeo esplosi verso la metà del secolo scorso.
Disquisizioni sul caso, su Dio, sui rapporti uomo-donna: conversazioni che vorresti non finissero mai.
Un autentico orgasmo per le orecchie, lungo 110 minuti.
È uno di quei film che a mio parere andrebbero fatti vedere e studiare nelle scuole di sceneggiatura di tutto il mondo.
Segnalo che il protagonista è interpretato da Jean-Louis Trintignant, grande attore francese celebre per aver recitato, tra gli altri, ne Il sorpasso di Dino Risi, ne Il conformista di Bernardo Bertolucci e nel più recente Amour di Michael Haneke.
Gli anni '70 costituiscono per Rohmer un periodo di transizione, durante il quale la sua intensa produzione cinematografica subisce un lieve arresto.
Nonostante ciò, risale a questo decennio un altro dei pezzi grossi della sua filmografia, La marchesa von... (1976), una sorta di dramma in costume ambientato in una non precisata città dell’Italia settentrionale, verso la fine del XVIII secolo.
È senz'altro dominante qui il rapporto tra realtà e finzione, che conferisce alla pellicola le sembianze di un giallo sui generis, con tanto di colpo di scena finale.
La terza e ultima parte della sua carriera è caratterizzata dal cosiddetto "Ciclo delle Stagioni": quattro titoli, girati dal 1989 al 1998, ciascuno dei quali fa riferimento a uno specifico lasso temporale.
Racconto di primavera, Racconto d'estate (conosciuto anche con il titolo Un ragazzo, tre ragazze), Racconto d'autunno e Racconto d'inverno.
Com'è intuibile qui lo scenario di ambientazione, ai fini della narrazione, diventa più significativo rispetto al passato; si passa dalle colorate campagne autunnali dell’Ardèche, nella regione meridionale Alvernia-Rodano-Alpi, fino alle vaste spiagge bretoni, nell'estremo nord del paese.
Fa riflettere che per le ambientazioni estive (per il film Racconto d'estate, appunto), Rohmer prediliga la costa settentrionale del paese, piuttosto che quella Azzurra del sud a confine con l’Italia ed evidentemente più famosa.
Anche questa, se vogliamo, può essere un'ulteriore prova della volontà di Rohmer di immergere le proprie storie in contesti più quotidiani e rurali possibili, lontani dalla ricchezza, dalle luci, dai rumori e dai palazzi sfarzosi, che tradizionalmente caratterizzano invece la costa meridionale, da sempre meta turistica per milioni di persone in tutto il mondo - basti pensare alle bellissime e movimentate località di Cannes, Saint-Tropez e Nizza
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Un tipo di scelta, dunque, che si concilia con la messa in scena sempre sobria e misurata, da sempre prerogativa del regista.
Tra l'altro, proprio in Racconto d'estate è presente quella che considero, per mio gusto personale, una delle più sensuali scene di bacio che abbia mai visto su uno schermo, nonostante la semplicità del contesto: un divano, un ragazzo e una ragazza.
É un esempio perfetto che fa capire come Rohmer avesse il tocco unico di rendere magico un momento talmente usuale da risultare quasi banale.
Aveva proprio la capacità di trasfigurare il triviale in lirismo e di rendere sublime un momento ordinario, con le giuste parole e le precise indicazioni agli attori, su come muoversi e interagire tra loro.
Rohmer è la dimostrazione (e come lui, altri registi) di come la più importante costituente di un film non sia la trama - se fosse così, cosa distinguerebbe principalmente film e libri, o film e fumetti? - bensì tutto quello che ci ruota attorno.
Ma su questo punto particolare tornerò più avanti.
L’ultima fatica risale al 2007, con Gli amori di Astrea e Celadon, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Si spegnerà due anni dopo a Parigi, all’età di 89 anni.
La principale caratteristica del Cinema di Éric Rohmer è quella di stare pedissequamente addosso ai suoi personaggi, captandone riflessioni, tormenti, paure, desideri; le sue opere sono lezioni di sceneggiatura, con cui si spazia su ogni aspetto della vita: l'amore, la morte, il caso, la leggerezza, l'esistenzialismo, la politica, la religione.
Dialoghi brillanti che vorresti ascoltare per ore.
C'è di tutto in Rohmer.
Oserei dire che è uno di quei registi che non ha mai avuto bisogno di adattarsi all'ineluttabile variazione dei tempi, né di mutare il proprio stile.
Quando sei un grande regista, la tua estetica resta invariata; cambia la società intorno, ma non la tua mano.
È ciò che distingue gli artisti immortali da tutti gli altri.
Nei film di Rohmer non succede niente, ma quel niente è tutto; la bellezza delle sue opere risiede in questo splendido ossimoro.
Si tratta proprio del principale filo rosso che attraversa l'intera filmografia del regista francese: semplici conversazioni, che generano complicate interazioni; una tipica frase a effetto, ma che rende l'idea e che vedrei bene scritta su ogni singola locandina dei suoi film.
“Per me c'è più messa in scena cinematografica quando faccio parlare i personaggi che se mostrassi qualcuno che spara o che recita da James Bond”.
Eccola qui, la parola, l'assoluta protagonista dello schermo.
Pochi, pochissimi registi hanno saputo filmare al meglio le parole, registrare il loro significato, attribuire loro il massimo peso, con la stessa maestria ed eleganza di Éric Rohmer.
E partendo da questo punto mi collego a un'altra, importante peculiarità che viene in rilievo nella sua carriera, strettamente connessa con il ruolo della parola: la presenza del personaggio intellettuale, figura onnipresente nella maggior parte delle storie.
Il protagonista de La mia notte con Maud, ad esempio, in una lunghissima scena all'interno di un bar chiacchiera con uno suo vecchio compagno di scuola, ora professore di filosofia, a proposito di cattolicesimo e di Pascal, con riferimento al suo conservatorismo in materia d’amore.
In un altro film, La collezionista (1967), tre amici - una donna e due uomini: il triangolo non poteva mancare - decidono di passare una vacanza in una villa fuori città, trascorrendo le loro giornate a divorare libri e a confrontarsi sui temi più svariati.
O ancora, in Racconto di primavera (1989), la protagonista, anche lei insegnante di professione, discute con una giovane ragazza del ruolo del sistema scolastico
“In classe, davanti ai tuoi alunni, sei il re incontrastato”, dell’importanza della materia filosofica all’interno di esso
“Gli studenti si vantano di andare male in matematica, ma mai in filosofia” e di quella che ritengo essere una metafora velata del rapporto tra cinema d'autore, di cui Rohmer è naturalmente rappresentante, e cinema commerciale
“Non ti piacerebbe fare qualcosa di più attivo, come lavorare in televisione, ad esempio?”
“No, perché in questo modo saresti dipendente da qualcuno".
Insomma, autentico nettare per il nostro udito.
Sono film che sono certo piacerebbero molto agli appassionati e/o studiosi di materie letterarie.
Rohmer, tra l’altro, si è sempre dichiarato un allievo di Immanuel Kant, quindi il materiale per una rubrica filosofica non mancherebbe di certo.
Lo stesso Kant viene citato proprio nella medesima conversazione dell'ultimo film sopracitato, quando le due interlocutrici affrontano il tema del giudizio sintetico e delle leggi causali.
Come avrete capito, in questi momenti esce fuori tutto il lato umanistico del regista, il quale, come già specificato ad inizio post, era nato artisticamente proprio come scrittore.
C’è un po' di tutti noi nei personaggi dei film di Rohmer, così semplici e così complicati allo stesso tempo, che realizzano quindi una perfetta sintesi dell'eterogeneità umana.
Volete un esempio di regista contemporaneo, che ha preso spunto e che si è ispirato al suo cinema, e che può essere ritenuto per diversi aspetti il suo più naturale erede?
Un insospettabile: Richard Linklater.
Prendete la trilogia dell'amore con protagonisti Ethan Hawke e July Delpy e vi renderete conto di come le ispirazioni siano cristalline: le camminate nelle strade parigine (o di altra città); il confronto tra sessi, maturo e mai banale; il gioco del corteggiamento; le pene sentimentali; la paura di non essere ricambiati e della solitudine; i dialoghi infiniti, accompagnati da lunghi piani sequenza che stanno addosso ai volti e ai corpi dei protagonisti.
Rohmer non ci racconta nulla di nuovo, ed è proprio su questa frase che si inserisce una riflessione chiave, uno dei punti cruciali di ogni discorso sui film che prescinde dal regista in questione e di cui sono un fermo sostenitore: nel cinema autentico, il "come" conta più del "cosa".
La storia?
Sì, è importante, ci mancherebbe, ma nella maggior parte dei casi funge solo da contorno.
Il genio, così come l'arte esiste anche nella semplicità, non solo in una trama necessariamente super elaborata; tutto sta nella bravura del regista (e di tutti i suoi collaboratori) nello sviluppare quel determinato intreccio nel modo migliore possibile.
Perché sostengo tale posizione, in un articolo dedicato a Éric Rohmer?
Perché il regista francese ci racconta cose già sapute e vissute, ma le racconta in un modo talmente eccelso, da non renderle stucchevoli o ripetitive; non ci si stanca mai delle storie d'amore di Rohmer, perché le racconta in quel modo (cioè il "come" e non il "cosa", appunto) che l'ha reso una figura unica e originale nel suo genere, nel panorama continentale. Quando finisci un film di Rohmer, vorresti averne di più, perché le sue opere ci parlano della vita, parlano di noi, del nostro quotidiano, del nostro vissuto, delle nostre relazioni; e come per Linklater, vorresti proseguire il cammino dei loro personaggi, perché come ho scritto anche altrove, è la pellicola che a un certo punto si ferma, ma non la vita.
Lo stile di Rohmer è asciutto, essenziale, pragmatico, lontano anni luce dalle virtuosità di Godard o di Resnais.
La tecnica è ridotta al minimo: assenza totale di jump-cut, montaggio lineare, inquadratura fissa; l'obiettivo della telecamera è quasi invisibile, come se fosse stata posizionata su un mobile a far da spia, a riprendere gli individui vivere semplicemente la propria vita.
Quei sporadici movimenti di macchina di cui fa uso il regista, in alcune necessarie circostanze, sono lenti e precisi, quasi impercettibili. Fa tutto parte dell’armonia di cui si nutrono gli spazi (chiusi e aperti), all’interno dei quali dialogano i personaggi.
A proposito degli spazi, non vi sono quasi mai più di due/tre location per film; anche questo è incredibile, se ci pensate.
Solo un abile regista riuscirebbe a non annoiare lo spettatore, indirizzandosi su questo tipo di scelta.
Una stanza, due sedie, un uomo, una donna: Rohmer non ha bisogno d’altro; e il film è fatto.
Sono i grandi artisti a possedere un talento del genere, cioè il ricavare un buon risultato, partendo da premesse semplici, quasi banali.
In modo molto sistematico, ecco altri temi importanti, riscontrabili nella sua opera:
- Il rapporto tra giovinezza e vecchiaia:
“Si è vecchi quando non si ha più bisogno di sedurre”, “I figli bisogna averli a 16-17 anni, perché si è incoscienti”
Le notti della luna piena, 1984
- La supremazia della bellezza esteriore, con rimandi al dandismo di Oscar Wilde:
“Si è responsabili del proprio fisico”, “Chi è brutto non può avere fascino”
La collezionista, 1967
- Il matrimonio visto come tomba dell’amore, non solo del sesso:
“Da quando sono sposato, tutte le donne mi sembrano attraenti”
L’amore il pomeriggio, 1972
- L’incomunicabilità tra essere umani, che causa problemi relazionali (si ritorna al discorso della centralità della parola);
- L'impossibilità di un'amicizia sincera tra uomo e donna:
“L'amicizia tra uomo e donna è uno scherzo, l’avventura è invece una cosa seria”
Le notti della luna piena, 1984
- La ricerca del nulla e l’inferiorità artistica del raziocinio:
“Pensare è la cosa più penosa e sfibrante che esista. L'importante è partecipare”
La moglie dell’aviatore, 1981
- Il ruolo centrale della donna: il personaggio femminile ha quasi sempre le redini del gioco, nel bene e nel male; ne Le notti di luna piena, ad esempio, l’intera narrazione ruota attorno a un esperimento amoroso mal riuscito messo in atto dalla protagonista Louise, che sarà poi la stessa vittima delle proprie scelte.
Rilevanti le collaborazioni con le attrici Béatrice Romand e Marie Rivière, che hanno recitato in cinque e quattro titoli, rispettivamente.
A tal proposito, è bene porre l’accento sulla precisa scelta degli interpreti, tutti volutamente poco mediatici e poco affermati dinanzi al grande pubblico (ecco che ritorna il discorso dell’uomo qualunque, uno tra tanti); le uniche eccezioni sono state Jean-Louis Trintignant ne La mia notte con Maud (già citato sopra) e il tedesco Bruno Ganz ne La marchesa von..., attore quest'ultimo conosciuto ai più per essere stato Adolf Hitler nel film La caduta.
Rohmer ha sempre dichiarato di preferire attori e attrici che provenissero dalla televisione e dal teatro; i più consoni, secondo la sua visione, a imporre le giuste personalità ai personaggi delle sceneggiature, senza distruggerli e senza assimilarli a se stessi.
Numerosi i premi e i riconoscimenti ottenuti in carriera, tra i quali spicca il Leone d’Oro a Venezia nel 1986 con il film Il raggio verde; un titolo particolare, che fa riferimento al fenomeno di scintillio del sole quando tramonta sul mare.
Spero con questo articolo di avervi fatto sorgere un minimo di curiosità nei confronti di questo grande artista.
Ha diretto in totale 35 film, in circa 50 anni.
Per coloro che fossero interessati a scoprirlo (o approfondirlo), segnalo l'assoluta precedenza dei seguenti titoli, nell'ordine:
La mia notte con Maud;
La fornaia di Monceau;
Racconto d'autunno;
La marchesa von...
Terminati questi, se voleste poi continuare con la sua filmografia, consiglio (sempre nell’ordine):
Un ragazzo, tre ragazze;
Le notti della luna piena;
Il segno del leone;
Racconto di primavera;
La moglie dell'aviatore;
Il Ginocchio di Claire;
La collezionista;
L'amore il pomeriggio;
Pauline alla spiaggia.
Vive le Cinéma français, Vive Éric Rohmer!