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The Second Act - Recensione: il carrello alla fine del mondo - Cannes 2024

Quentin Dupieux inaugura la 77ª edizione del Festival con un'opera pirandelliana e metacinematografica, che affronta con ironia e malinconia lo stato del Cinema nel XXI secolo e le sue inevitabili mutazioni

È toccato a The Second Act (Le Deuxième Acte) di Quentin Dupieux l'onore di aprire (fuori concorso) la 77ª edizione del Festival di Cannes, e l'enfant terrible del Cinema francese si presenta con un'opera pienamente inserita nel contesto di una filmografia frenetica e giocosa, sempre tesa all'esplorazione del labile confine tra realtà e finzione.

 

L'occasione è di quelle speciali e il cast di The Second Act è di alto livello, con tre giganti d'Oltralpe come Léa Seydoux, Vincent Lindon e Louis Garrel, affiancati da Raphaël Quenard (già visto in Yannick del regista, distribuito in Italia da I Wonder) e da Manuel Guillot

 

[Il trailer di The Second Act, girato nello stile del film, con gli attori che declamano la rispettiva importanza all'interno dell'opera]

 

 

Stéphane (Guillot) è il nevrotico bartender del bar Le deuxième acte, nonluogo che sembra atterrato nella campagna francese direttamente dal cielo.

 

Al locale stanno convergendo due coppie di persone: gli amici David e Willy, e la fidanzata di Willy, Florence, insieme al padre Guillaume.

Florence vuole presentare David al padre, mentre David si è stufato della donna e vuole convincere Willy a sedurla.

 

Nel corso del lungo tragitto a piedi, parlando di sentimenti, politicamente corretto, realtà e finzione, scopriamo che i protagonisti sono gli attori del primo film girato da un'intelligenza artificiale, in un limbo metacinematografico che converge simbolicamente verso un (impossibile) secondo atto.

 

 

[Louis Garrel e Vincent Lindon in una scena di The Second Act]

 

 

In The Second Act Dupieux mette in scena un teatro - anzi, un Cinema - dell'assurdo, che guarda tanto al Pirandello di Sei personaggi in cerca d'autore quanto ad Aspettando Godot, con il "secondo atto" del titolo a fare le veci del misterioso individuo di Samuel Beckett, mantenendo lo spettatore in una costante tensione narrativa senza mai arrivare a una risoluzione.

 

Dupieux pratica una sorta di edging cinematografico, tenendo il pubblico sospeso e in attesa di un climax che non arriva mai: il secondo atto del titolo, ossia il segmento narrativo che fa da ponte tra l'innesco e la risoluzione, privato delle altre due parti, diviene un "nontempo", traslato simbolicamente nel bar-nonluogo che dà il titolo al film.

Questo spazio è gestito da una comparsa goffa e depressa, resa nervosa dallo sradicamento dal suo ruolo abituale tanto da non riuscire a eseguire nemmeno azioni basiche come riempire un bicchiere di vino.

 

Il contesto surreale di The Second Act è la tela su cui Dupieux applica le sue usuali pennellate di ironia tagliente e umorismo sornione; in questo caso, le sue critiche sono rivolte verso il politicamente corretto, visto come una percentuale da raggiungere per rendere un prodotto commercialmente viabile, e, soprattutto, verso lo spauracchio dell'intelligenza artificiale e il suo impatto sul Cinema.

 

I protagonisti di The Second Act, infatti, sono attori di un film nel film e rompono frequentemente la quarta parete, facendo riferimento a telecamere e membri della troupe invisibili, con la significativa eccezione di un'interfaccia AI che dirige il film da un portatile portato da un'assistente.

Questa intelligenza artificiale, incarnata (o inpixelata) in un individuo tanto apatico quanto tagliente nei giudizi, valuta le performance del cast basandosi sulla percentuale di aderenza delle battute al copione e sulla previsione del potenziale successo finanziario del film.

 

La riflessione sul futuro (o presente) del Cinema si manifesta a livello formale attraverso l'adozione di long take estesi, della durata di diversi minuti, che privilegiano l'esperienza immersiva rispetto agli stacchi e ai raccordi tipici del Cinema classico.

 

Questa scelta richiama quello che André Bazin definiva il "montaggio interno" del film, lodato dal critico francese per le sue qualità di immersività e naturalezza; tuttavia, in Dupieux, il "montaggio interno" viene utilizzato per creare ulteriori strati di ibridazione metafilmica, in maniera totalmente artificiale e consapevole.

 

 

[Léa Seydoux e Raphaël Quenard in una scena di The Second Act]

 

 

Se The Second Act non riesce comunque a far passare quella familiare sensazione di puro divertissement che contraddistingue l'opera di Dupieux, la matrioska metanarrativa del film nasconde al suo cuore una riflessione più ampia sul ruolo del Cinema nel contesto contemporaneo; in particolare, Dupieux mette in discussione il ruolo dell'attore e la sua capacità di prendere rischi, ma anche la possibilità di comunicare un messaggio attraverso il Cinema.

 

Affidando la regia del "film nel film (nel film)" all'intelligenza artificiale, The Second Act film solleva interrogativi sulla natura delle storie portate in sala, molte delle quali già preordinate da un tipo di ragionamento non difficile da quello di un calcolatore, basato sulla vibilità finanziaria e produttiva, attento a cavalcare l'onda dei trend e a non offendere nessuno, completamente privo di elementi di disturbo.

 

In una nota a margine, l'apparizione del logo di Netflix, simbolo dell'uniformizzazione del mercato e della globalizzazione cinematografica, all'inizio del film di apertura di Cannes ha suscitato particolare ilarità in sala, col pubblico memore dei manifesti anti-streaming declamati dalla direzione del Festival, e ha aggiunto a priori un'ulteriore chiave di lettura.

 

Rimane molto difficile, come spesso nei film di Dupieux, individuare in The Second Act il punto di convergenza esatto tra approssimazione e sottile intelligenza; la creatività della messa in scena non sempre si accompagna a una pari profondità di riflessione, soprattutto in alcuni pensieri espressi dal personaggio di Garrel, che sembrano riflettere una considerazione superficiale e banale sullo stato della Settima Arte.

 

I momenti di rottura della quarta parete, seppur simpatici, si risolvono però in banali linee di dialogo come "non puoi dire queste cose, ci stanno riprendendo" o "dobbiamo dare il buon esempio"; insomma, niente di cui scrivere a casa.

 

Il cast fa il suo compito senza eccellere, con l'eccezione di Lindon e Quenard, due interpreti più ricettivi al registro assurdista di Dupieux rispetto a Seydoux e Garrel, mentre alle larghe spalle di Guillot è affidato il compito di sorreggere la riflessione sul ruolo della comparsa e di una vita vissuta doppiamente nell'ombra (nel proprio ruolo e a livello personale), già trattata recentemente con maggiore sensibilità da Sion Sono in Red Post on Escher Street.

  

Non mancano riferimenti cinematografici a Maestri del surrealismo e del metacinema come Luis Buñuel, con le lunghe camminate di The Second Act che richiamano quelle de Il fascino discreto della borghesia, e Jean-Luc Godard: in particolare la lunga e lugubre carrellata finale sulla stessa rotaia su cui la camera si muove sembra evocare al contrario la sequenza iniziale de Il disprezzo.

 

Sebbene con tutti i soliti difetti del Cinema di Dupieux, The Second Act è un film che, sebbene non presenti riflessioni particolarmente illuminanti sullo stato del Cinema, suscita comunque interrogativi, specialmente nel contesto glamour del tempio della Settima Arte.

 

Una scelta che condotta con consapevolezza e ironia da parte del direttore artistico Thierry Fremaux, il quale detta il tono per un festival che diventa rassegna di opere che oscillano tra resistenza cinematografica e inevitabile adattamento, sempre alla ricerca di una risposta non definitiva alla questione se il Cinema stia giungendo alla fine o se stia semplicemente subendo l'ennesima mutazione.

 

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