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Il titolo originale de Il gusto delle cose, ovvero La Passion de Dodin Bouffant, non può essere ridotto alla sola relazione che unisce il protagonista maschile alla pratica culinaria o alla controparte femminile.
Sviluppiamo invece il riecheggiare della passio cristologica, e ancor di più la base etimologica che rimanda al patire, al pathos, alla passività: per cogliere nel segno già sul piano linguistico, meglio non parlare di Dodin Bouffant come di un soggetto patico, se con soggetto vogliamo indicare una singolarità da cui emanano (o in cui si configurano nella relazione temporalmente seconda con altre singolarità e/o con il mondo) delle passioni.
[Il trailer di Il gusto delle cose]
Uomo tra gli uomini, in un film che peraltro chiama in causa lo stato edenico, Bouffant non è un soggetto patico ma è - come tutti - soggetto al pathos; piegando ai nostri fini un concetto dello psicanalista Jacques Lacan, è un assujet, un assoggettato.
Se poi soggetti al pathos siano corpo, mente-anima, entrambi o nessuno dei due non è una questione secondaria: la avvicineremo più avanti.
Le precisazioni si rendono necessarie perché è su questi punti che poggia (meglio: si esprime) il corso di ciò che identifichiamo come Occidente; corso che nel film, oltre al sintomatico riferimento universalizzante al paradiso terrestre, emerge anche attraverso una delle figure storiche su cui Bouffant è modellato, un esponente della cucina borghese settecentesca che risponde al nome di Jean Anthelme Brillat-Savarin.
Non deve poi passare inosservato come nel titolo originale sia menzionato solo Bouffant: interpretato da Benoît Magimel, il gastronomo condivide equamente lo schermo e la rilevanza narrativa con la cuoca Eugénie (Juliette Binoche: sul piano divistico Magimel scivola addirittura in svantaggio); la passione psicofisica, nella forma di un male inspiegato, volessimo intendere la passio in termini (filo-cristologici) di sola sofferenza manifestamente anche corporea, colpisce soprattutto lei.
Ma accantoniamo temporaneamente il rinvio al pathos, che tornerà poi utile come grimaldello.
Il gusto delle cose, incentrato sul rapporto culinario e amoroso - doppiamente, anzi tre volte passionale - tra Eugénie e Dodin, è la più recente fatica di Trần Anh Hùng, cineasta franco-vietnamita dalla carriera piuttosto atipica.
Celebre per la trilogia d'ambientazione vietnamita che ha realizzato tra il 1993, con Il profumo della papaya verde, e il 2000, con Solstizio d'estate, passando per il Leone d'oro raccolto a Venezia con Cyclo, Trần - trapiantato in Francia in adolescenza - ha sempre esibito un gusto (soprattutto formale) anche europeo e caratterizzato da un reciso rifiuto del realismo (o Neorealismo, nel caso di Cyclo) più consueto.
Per motivi che saranno via via più chiari, Il profumo della papaya verde è una tappa che merita attenzioni particolari: collocato negli anni '50 e '60, quest'esordio propone anzitutto una Saigon ricostruita in studio, con una resa obliquamente artificiosa che potenzia lo sguardo rimembrante (e rimuovente: lo sfondo bellico non è nemmeno uno sfondo).
La lontananza dai canoni mimetici giunge tuttavia al suo apice attraverso il dispositivo formale: resa cromatica di matrice pittorica, carrellate e travelling elaboratissimi anche grazie al minuzioso lavoro sulla profondità di campo e di fuoco, long take e piani sequenza sono alcuni degli elementi che esibiscono una padronanza linguistica fuori dal comune.
Già al primo lungometraggio Trần ha attirato su di sé il marchio del manierismo; un giudizio del genere rimane però estraneo al problema qualora fosse impiantato sulla piatta registrazione - non oggettiva quanto vorrebbe, perché si tratta di un'oggettività che sorge dallo sguardo registrante - del variopinto armamentario formale: il manierismo è un concetto ai limiti dell'inconsistenza (storicamente fondata) se equivale a un formalismo che concepisce il contenuto come pretesto a cui donare infiniti significati nel libero gioco della forma (il libero gioco del genio: le basi sono smaccatamente metafisiche, dualistiche nel momento in cui la forma-anima cogitante dispone a proprio piacimento del contenuto-corpo esteso).
Guardiamo astrattivamente al contenuto di Il profumo della papaya verde: il percorso della domestica Mui è filtrato da una lente primariamente buddista che inficia (o quantomeno mette inevitabilmente in questione) la legittimità di ogni possibile rimando a una progressione emancipativa di matrice occidentale o a un discorso di classe.
Pensando la coalescenza di forma e contenuto, pensando esteticamente, il film pare allora resistere alle accuse di estetismo: non siamo di fronte alla celebrazione reazionaria di uno stato di subalternità economica, ma a una riflessione più articolata sull'esistenza in contesto (cioè sull'essere-nel-mondo) e sulla temporalità; riflessione che poi, ça va sans dire, deve comunque fare i conti - e Trần lo sa benissimo - con la propria storicità.
[Un frame da Il gusto delle cose]
Questo excursus consente di arrivare più preparati a interpretare Il gusto delle cose, e non solo sul filo di un approccio autorialista.
Il distributore italiano Lucky Red fornisce questo paratesto:
"1885. L'impeccabile cuoca Eugénie lavora da oltre vent'anni per il famoso gastronomo Dodin.
Il loro sodalizio dà vita a piatti, uno più delizioso dell'altro, che stupiscono anche gli chef più illustri del mondo. Con il passare del tempo, la pratica della cultura gastronomica e l'ammirazione reciproca si sono trasformate in una relazione sentimentale.
Eugenie, però, è affezionata alla sua libertà e non ha mai voluto sposare Dodin. Così, lui decide di fare qualcosa che non ha mai fatto prima: cucinare per lei".
Nel 1885 viene anche pubblicato postumo il secondo libro de Il capitale di Karl Marx, il cui primo volume sarà poi edito in Italia l'anno successivo.
Lungo il corso del film non sono comunque segnalate indicazioni temporali precise; tuttavia il posizionamento storico-ideologico emerge proprio grazie al riferimento diegetico a due giganti della gastronomia transalpina, Marie Antoine Carême e Auguste Escoffier: il primo nasce nel 1784 e spira nel 1833, accompagnando le sorti della Francia rivoluzionaria e post-rivoluzionaria; il secondo vive tra 1846 e 1935 traghettando verso il nuovo secolo, passando per un periodo caratterizzato anche da esperienze come la Commune parigina.
Rivoluzione e XX secolo sono poli evidenziati proprio dalle chiacchierate di Dodin e commensali e il denominatore comune tra Carême ed Escoffier riguarda inequivocabilmente il loro contributo alla creazione di una haute cuisine intrinsecamente borghese; natura borghese, per di più, esibita a chiare lettere dalla lettura progressiva che Dodin dà di Escoffier.
Questa concettualità borghese informa in maniera assai perspicua la (scrittura della) condotta di Dodin e della sua cerchia, enogastronomicamente coltissima, in cui peraltro figura anche il medico Rabaz.
Prima di proseguire, qualche appunto non superfluo: chiamare in causa la borghesia non vuole, ma soprattutto non dovrebbe, sottintendere una connotazione moralmente negativa, specie tenendo fermo il 1885 come punto di partenza; siamo dinanzi a transizioni epocali che si possono interpretare secondo ottiche marxiane o meno, e però non vanno dimenticati né la valutazione storica (che rimane a sua volta storicamente fondata) che Marx dà della classe borghese né il ruolo della moralità nel suo sistema di pensiero.
Torniamo adesso in carreggiata, scrutando ciò che non abbiamo ancora considerato, la relazione tra Dodin ed Eugénie.
Misuratosi in carriera anche con Norwegian Wood di Haruki Murakami, Trần - qui unico sceneggiatore - ribadisce la sua eccezionale sensibilità: operante in un mondo borghese (ma in primo luogo metafisico: più che in Francia siamo in Occidente) che bene o male si affida massicciamente alla psicologia, al sapere psicologico, e sintetizzando la stessa formazione storica del mondo in cui opera, egli traccia due ritratti di rara sottigliezza.
E come nell'esordio, la discorsività del film non può riguardare né il solo contenuto né la sola forma: la temperatura emotiva - su tutto - è elegantemente orchestrata attraverso soluzioni la cui variabilità afferma la necessità estetica di ripensare di continuo la propria (dis)posizione.
La sinuosità dei movimenti di macchina, sovente assai elaborati nel loro montaggio interno, non replica lo sfondo assiomatico della prima prova di Trần né fa sfoggio di un estetismo vacuo, e anche il montaggio propriamente detto è in grado di creare più ritmi.
[Un frame da Il gusto delle cose]
Com'è evidente già nella sinossi ufficiale, la relazione tra i protagonisti si dispiega in cucina, il che significa quantomeno due cose: in primo luogo che il cibo e il cucinare sono linguaggi e modi per abitare assieme (il mondo); in secondo luogo che la camera da letto si sottrae alla nostra vista quasi quanto il contatto corporeo tra i due.
Percorrendo entrambe le strade notiamo come la prospettiva dello spettatore e quella dei protagonisti si rapportino curiosamente.
Prima strada: nel microcosmo de Il gusto delle cose il cibo incarna il punto di incontro (o d'identità) tra materia e spirito, incontro che può materializzarsi (e spiritualizzarsi) grazie alla mediazione del lavoro, della tecnica (téchne): volessimo condensare il sostrato concettuale più scopertamente in opera, al lavoro (!), potremmo scandire la successione Hegel-Feuerbach-Marx.
Sul filo della téchne, termine greco che comprende la sfera artistica, possiamo anche notare come quel "siete un'artista" che gli amici di Dodin rivolgono a Eugénie mostri già la divaricazione e la lettura moderna dei concetti di arte e tecnica.
Per quanto concerne direttamente noi spettatori, a contare è come Trần decida di presentare la pratica culinaria e il cibo: non di rado siamo ai limiti del food porn, di quel tipo di feticizzazione che intrattiene un rapporto del tutto particolare con la materialità (e che appunto ha stretti legami con la cultura mediatica odierna, televisiva e social in primis).
Seconda strada: sono poche ma significative le scene dedicate all'intimità notturna dei protagonisti; ora Dodin osserva con noi le abluzioni della nuda Eugénie, ora vediamo Eugénie svestita sul letto (con un postura idealizzante che ricorda la forma della pera appena gustata come dolce: non è un dettaglio di poco conto) finché Dodin ci chiude la porta in faccia.
Il loro non è un amore casto, va ricordato, ma la concretezza dell'amplesso è esclusa.
Ugualmente va ricordato come Dodin sia il padrone di casa ed Eugénie la cuoca: cuoca e non serva come Violette, ma pur sempre cuoca; cuoca che cucina spesso con Dodin - che appunto si sporca le mani e che però può decidere quando farlo - ma che a differenza sua non partecipa ai pasti coi commensali (nonostante sia invitata).
Se Trần non insiste su quest'aspetto è perché la qualità del loro rapporto ha già trasceso quella differenza di condizione lavorativo-esistenziale: può così concentrarsi su sentimenti puri che proprio nei loro risvolti più stimolanti conducono alla luce, quasi inavvertitamente, la soggettività borghese che agisce Eugénie.
La qualità del rapporto (intellettuale e carnale) è elevata ma i due non sono sposati perché lei vuole conservare la libertà di chiudere la porta della camera da letto: libertà che presuppone storicamente una concettualità borghese e libertà borghese a cui probabilmente riconosciamo un valore positivo anche sul piano morale.
Quando Eugénie lascia la porta aperta, quella stessa soggettività (qui nei suoi tratti più illuministici) apre il gioco anche doloroso di un'immaginazione che può finire per confezionare delle sublimi epifanie.
[Un frame da Il gusto delle cose]
Fin qui il discorso di Trần è pregnante in termini filologici e davvero impattante a livello fruitivo; fin qui Il gusto delle cose è ammirevole.
La presente esposizione è tuttavia percorsa da alcune crepe, piuttosto ovvie, come del resto la stessa opera di Trần, il quale - a differenza di quanto si vorrebbe far qui - non si premura di sviluppare elementi che se sussistono è per preoccupazioni appunto filologiche.
La scienza è un convitato di pietra di notevole importanza: dagli strumenti per rendere più efficienti gli orti si passa alle lodi che Rabaz rivolge a un piatto soffermandosi sul fatto la sua bontà non è miracolosa, ma frutto di una precisa "reazione scientifica".
Non è possibile sostare ora sulle radici che animano il presente punto di vista, debitore nei confronti del pensiero di Martin Heidegger e Carlo Sini: semplificando in maniera brutale e imperfetta, basti notare che scienza, metafisica, tecnica e umanismo (e Occidente) condividono una medesima essenza.
In Occidente (e solo in Occidente si danno la scienza e la metafisica propriamente dette: altrove si danno - sempre meno - cose a cui non vanno imposti i parametri occidentali), la scienza è metafisica; la metafisica trova uno dei suoi coaguli nodali nel dualismo formalizzato da Cartesio tra res cogitans e res extensa, lo stesso Cartesio che con Galileo regge (o ha retto) la scienza moderna.
La metafisica è anche un progetto antropocentrico: "Dio ha creato l'acqua, ma l'uomo ha creato il vino", l'ha creato tramite téchne, si sente dire ne Il gusto delle cose.
Sempre il vino, allora bevanda di Dioniso, è ora la "parte intellettuale" del pasto: proprio Rabaz gioca a indovinarne la provenienza; similmente la giovane Pauline, desiderosa di entrare nelle grazie di Dodin ed Eugénie, prova a elencare gli ingredienti che compongono il piatto appena assaggiato.
Siamo nel 1885 e il bon ton prevede di coprire il volto con un tovagliolo qualora sia necessario mangiare con le mani: più che una tavolata di borghesi razionali ne risulta comicamente un consesso che ricorda attività meno inquadrate (davvero?) nella razionalità borghese come una seduta spiritica o una riunione del Ku Klux Klan.
Siamo nel 1885 e né il dottor Rabaz né un collega sanno dire di cosa soffra Eugénie: il male inspiegato è effettivamente inspiegabile per la medicina del tempo, che non è una "scienza esatta", almeno - e la visione progressiva tipicamente borghese si insinua qui, come nelle speranze di Dodin - allo "stato attuale".
Alcuni malori punteggiano il film configurandone una sorta di controcampo oscuro: per Trần si tratta magari di un espediente narrativo per dinamizzare e avvicinare a una struttura temporalmente più lineare (quando avrebbe forse potuto insistere su altre temporalità che pure si intravedono: in Solstizio d'estate aveva tentato qualcosa del genere); forse è un riconoscimento dei limiti di quella mentalità borghese che non conosce ancora tutto; nella migliore delle ipotesi, che però sembra cozzare non tanto con le parole (filologiche) dei medici ma soprattutto con il segmento conclusivo, si sta stabilendo l'impossibilità di principio di giungere a quella conoscenza totale, salvaguardandone comunque, senza cercare di comprenderlo, il metodo.
Il tentativo di (creazione concettuale e) rimozione del corpo e dunque del pathos che caratterizza l'impresa scientifica dimentica che nel suo stesso cuore si cela fatalmente un altro pathos, quello - rubando una formulazione di Friedrich Nietzsche - "della verità" (che può giustificare involontariamente il titolo originale se rapportato, appunto, al segmento conclusivo).
[Un frame da Il gusto delle cose]
Ancor più della scienza in sé e per sé, il convitato di pietra primario è però il cibo stesso.
Siamo nel 1885 e la cucina borghese può deliziarsi, senza esagerare, con gli impiattamenti e insieme valorizzare, contrastando la protervia del principe di Eurasia, una ricetta contadina come il pot-au-feu (prima versione del titolo inglese del film).
Le portate sono numerose e qualcosa rimane in camera da letto: vi rimangono la gestione dell'orto e la raccolta dei suoi frutti, fatta eccezione per frammenti di sapore arcadico come quello in apertura; vi rimangono gli animali, al massimo sfondo di un paio di passaggi; vi rimangono altre eventuali vie di approvvigionamento, tolto qualche regalo amicale.
Forse per una manciata di secondi intravediamo qualche viscera, sì, ma non la morte e la fatica: la materia rimane come come oggetto di feticizzazione.
Non si sta chiedendo a Trần di scrivere cinematograficamente il suo Capitale impiegando come oggetto del case study l'ecosistema di casa Bouffant: sarebbe una richiesta folle e soprattutto autoritaria.
La questione non è così direttamente contenutistica, semmai è estetica; meglio: è est-etica.
Appurata la mancanza di un disegno come quello di Il profumo della papaya verde, in cui il rigore estetico, anche per il tramite di una parziale artificiosità e del reiterato simbolismo, delineava una produzione di senso dalle parti del fiabesco (e una morale buddistica), Il gusto delle cose colpisce per almeno due rispetti, tolti i movimenti di macchina: scelte fotografiche e scelte sonore.
Sul primo versante siamo di fronte a una palette e a schemi d'illuminazione che guardano a una resa naturalistica non di rado impreziosita in chiave pittorica, filo-impressionista; giusto in un paio di frangenti giustificati i contrasti si acuiscono verso il caravaggesco.
Sul secondo spicca la completa assenza di musica, peraltro nel caso di un cineasta che aveva spesso deliziato con playlist eclettiche; si annuncia invece una retorica del sonoro in presa diretta che vale tanto in esterni quanto in cucina.
Ecco alcune dichiarazioni di Trần sul film: "volevo che fosse molto reale" in merito al sound design; "tutto quello che vedete sulla schermo è reale", a proposito del cibo, senza che siano state compiute modifiche estetizzanti agli alimenti (com'è consuetudine).
Poco più su ho usato l'espressione retorica del sonoro in presa diretta per esprimere un punto che va al di là del mero dato tecnico, e similmente si potrebbe dire che Trần fa propria a più riprese una retorica della luce naturale: in nessuna delle due occorrenze il concetto di retorica deve essere inteso in modo aprioristicamente negativo, come fosse una denuncia di una finzionalità menzognera.
Se qualcosa di potenzialmente negativo affiora, è solo interpretando la mobilitazione di questo apparato retorico, solo vagliando come una retorica che non si dà in sé esiste, potremmo dire, in quanto postura etica.
Che la rappresentazione dell'ambiente in cui si muovono Dodin ed Eugénie tenda all'idilliaco è (linguisticamente) comprensibile; ciononostante, quanto considerato finora affranca dal solo piano sentimentale, a cui il film naturalmente non si limita (in forza di quali intenzioni, poi, non interessa).
Quella retorica imbelletta un discorso solcato da faglie nient'affatto marginali.
[Un frame da Il gusto delle cose]
La rappresentazione del cibo è un cardine problematico: la feticizzazione formale che infine prevale, e che ovviamente non nega che il cibo possa farsi al contempo carico di altre istanze narrative (anche meritevoli), scopre lo stesso nervo illuminato dal discorso metafisico-borghese.
Trần non ha lavorato su quelle tracce che ha disseminato: nell'orientarsi, la postura est-etica ha trascurato troppi indizi, ha lasciato nel buio troppi sentieri essenziali e ha reso incantevoli (e a-problematici: paiono più espedienti narrativi o accortezze filologiche) troppi sommovimenti che invero scuotono ancora l'oggi.
Oltre la visione antropocentrica della téchne, in cui il pathos può trasformarsi in passione soggettiva e risolversi in individualismo soggettivistico, è sfuggito come quegli stessi veicoli comunicativi presuntamente neutri che delimitano la relazione tra i due protagonisti, ovvero quel cibo che rimane supporto inerte da sublimare, siano portatori di un proprio pathos, e - insieme - come anche il lavoro sia portatore di un proprio pathos.
In un film che si sforza di dipingere un'armonia esistenziale e non solo amorosa, da troppe componenti di questa stessa esistenza lo sguardo viene colpevolmente distolto (esteticamente: il distoglimento è formale e contenutistico).
Guardando Il gusto delle cose, rimane la bocca buona a patto di ritagliare la descrizione psicologico-sentimentale o, in maniera decisamente più rischiosa, il côté formale.
Guardando La Passion de Dodin Bouffant, la passione occulta le proprie implicazioni profonde.
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