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L'eternità e un giorno appartiene a una categoria di film rara, eppure fondamentale per la Settima Arte: quella delle opere mosse da vita propria.
Talvolta, infatti, accade che un film prenda il controllo sulle azioni del suo autore, come mosso da una propria coscienza, evolvendo fino a diventare qualcosa di inimmaginato.
Platone, nel Fedro, l'aveva definita mania: un invasamento poetico, dettato direttamente dalle muse e dunque dall'arte stessa.
Non è un caso che a esserne assoggettato sia stato un grande erede della Grecia classica come Theo Angelopoulos, forse l'uomo maggiormente in grado di rappresentare il volto dolente della sua nazione - e poi dell'Europa - sul grande schermo nel XX secolo.
[Il trailer italiano de L'eternità e un giorno]
Chissà se Martin Scorsese e i membri della giuria da lui presieduta al Festival di Cannes 1998 hanno percepito la potenza creatrice che ha colpito il regista greco quando hanno assegnato a L'eternità e un giorno la Palma d'oro all'unanimità, al termine di una kermesse che sembrava studiata per celebrare il Cinema in tutte le sue diramazioni.
Nella stessa serata in cui venivano premiati il Dogma 95 con Festen di Thomas Vinterberg, la verve autodistruttiva di Peter Mullan al servizio del sociorealismo di Ken Loach e l'irresistibile connubio agrodolce creato da Roberto Benigni con La vita è bella, a dominare la scena furono L'eternità e un giorno e la malinconica poesia di colui che venne definito dallo stesso Scorsese un Maestro, al suo undicesimo film.
Eppure, Angelopoulos ci aveva provato a non essere malinconico: è una delle prime cose che ha detto, emozionatissimo, dopo la premiazione. Poi però non ci era riuscito, attratto come sempre dal mare, dalla pioggia e dalla nebbia.
Da uno stato d'animo che si fa luogo e ingloba la narrazione.
Quel premio era il coronamento di una carriera, di una vita in cui il Cinema l'ha sempre calamitato a sé come la prima volta, quando nel 1946 vide Gli angeli con la faccia sporca di Michael Curtiz ed empatizzando con il Rocky condannato a morte della pellicola, decise che avrebbe visto la vita attraverso un obiettivo, forse anche per posticipare i pensieri sulla caducità della stessa.
[Theo Angelopoulos con la Palma d'oro vinta per L'eternità e un giorno]
Ben prima di donarci L'eternità e un giorno, Theo Angelopoulos aveva lasciato la Grecia con in tasca solo un biglietto per la Francia.
Era il 1961: sua madre aveva provato a fermarlo alla stazione, per convincerlo a continuare a studiare giurisprudenza, senza risultato.
Seguì lezioni di letteratura, etnografia e Cinema: si iscrisse all'Institut des hautes études cinématographiques, ma la lasciò dopo una disputa col suo professore di regia per lavorare al Musée de l'Homme, sotto la guida di Jean Rouch.
Tornato in Grecia nel 1964, cominciò a lavorare da critico: dapprima in una rivista di sinistra, Cambiamento Democratico, chiusa poi dalla giunta dei Colonnelli, e in seguito come fondatore di Cinema Moderno.
E allora il passaggio dietro la cinepresa, con coraggio e irriverenza contro il regime fascista che attanagliava il suo Paese. Anni dopo aver ottenuto il suo primo premio a Cannes era tornato a casa e sua madre era andata in aeroporto per salutarlo.
La sua prima domanda fu se a quel punto potesse tornare a studiare giurisprudenza.
Nel suo libro dedicato all'autore greco intitolato The Cinematic Language of Theo Angelopoulos, il professore greco Vrasidas Karalis ci dà la misura di quanto potesse essere rivoluzionario andare a vedere il suo primo film uscito al termine del regime.
La recita era stato girato malgrado fosse ancora vigente l'aspra censura voluta dalla giunta: il preside della sua scuola in cui Karalis studiava pretese di sapere se fosse andato a vedere quel film sovversivo, con tono sdegnoso.
Angelopoulos ha raccontato che per riuscire a girare i suoi primi film non mostrò a nessuno la sceneggiatura - produttori inclusi - e accentrò tutte le responsabilità su di sé, lavorando con minuzia sul non detto, sui sottintesi della storia e sulle ellissi, così creando un "linguaggio segreto " che sfuggisse alla censura.
Malgrado la vis politica che ovviamente lo attanagliava in quegli anni, però, la prima parola mai vergata in sceneggiatura da Angelopoulos fu "Piove".
Sempre restare fedeli al proprio d'animo, come insegna proprio l'Alexandros de L'eternità e un giorno, così coerente con i suoi sentimenti da venirne inglobato.
[L'eternità e un giorno, come tutta la carriera del suo autore, vive di un rapporto simbiontico con il mare, la nebbia e la pioggia]
Dopo aver completato una trilogia sulla Storia del suo paese e averne dedicata una al silenzio, L'eternità e un giorno doveva essere il terzo capitolo di una trilogia sulle frontiere reali e metaforiche, ma si è trasformato in un film sulla vita, sulla creazione e sul rimpianto.
Un De profundis in cui l'autore si è messo a nudo, estenendo quelle domande sui confini fisici e umani alla concezione del tempo e linguaggio.
"Che cos'è il tempo?" ci chiede una voce infantile a inizio film, mentre contempliamo una casa in riva al mare, così vuota eppure così carica di storia.
La risposta è, nel suo piccolo, una prolessi sull'intera opera:
"Mio nonno una volta ha detto che il tempo è un bambino che gioca agli aliossi in riva al mare."
Il tempo è un bambino che fa un gioco ormai in disuso, davanti al perenne scorrere del mare, fonte di vita e snodo di tanti momenti cardine dell'esistenza, ma è anche il racconto di un nonno al suo nipotino. La tradizione orale e il confronto tra generazioni.
Questo è il tempo, secondo Angelopoulos. Questo è l'universo delle immagini, costruite e immaginate per suggestioni, de L'eternità e un giorno.
L'opera, ispirata a L'esilio e il regno di Albert Camus, narra il peregrinare del poeta Alexandros, alla vigilia di un ricovero in ospedale.
Lo scrittore, dopo aver lasciato la sua casa in riva al mare dove ha ritrovato una lettera di sua moglie Anna e dopo aver incontrato un giovanissimo profugo albanese, vive un viaggio verso alla ricerca di sé stesso in una Salonicco crepuscolare, attraversando il passato e gli eventi di una vita che ormai sembra sfuggirgli di mano.
La carica personale accentratasi nell'opera e la sua ispirazione dichiarata, ovvero l'ultima raccolta di racconti pubblicata da Camus prima di morire in cui quest'ultimo immagina una serie di storie di personaggi che attraversano la vita alla ricerca della pacificazione, non possono che portare l'opera su un piano lirico, rendendola quasi il testamento spirituale di un autore che si è totalmente arreso alla forza creatrice della sua arte.
Un aspetto ancor più malinconico se si pensa alla triste fine di Angelopoulos, investito da un motociclista e ferito a morte nel 2012 mentre girava l'ultimo capitolo della sua Trilogia sulla Grecia moderna, L'altro mare.
Un film che non vedremo mai, all'interno di una traiettoria artistica recisa.
Un rimpianto, esattamente come quelli di cui parla L'eternità e un giorno.
[L'eternità e un giorno nasce dal rapporto di Angelopoulos con due grandi attori italiani]
Per comprendere come si fosse giunti a una simile degenerazione poetica delle intenzioni del regista, è però necessario fare un passo indietro, anzi due, rispetto alla produzione de L'eternità e un giorno.
Il passo sospeso della cicogna e Lo sguardo di Ulisse, le due opere precedenti di Theo Angelopoulos, rappresentavano l'apertura e la prosecuzione di un trittico sui confini.
Nel primo, riunendo Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau - protagonisti de La notte, che il regista dice di aver visto 13 volte al cinema - Angelopoulos creò un film sul mistero di un politico scomparso, interamente ambientato in un piccolo villaggio ai confini tra la Grecia e l'Albania.
Un Mastroianni spogliato del suo divismo era al contempo uomo pubblico e contadino, incendiando l'ambiguità del dilemma identitario per tutta la durata dell'opera.
D'altronde il Maestro greco è sempre sembrato estremamente serio quando proclamava la sua contrarietà alle frontiere.
Nel secondo capitolo della trilogia, un monumentale Harvey Keitel interpreta A, un regista statunitense di origini greche e chiaro alter ego di Angelopoulos, tornato in patria per presentare il suo ultimo film - che lo spettatore più attento riconoscerà essere proprio Il passo sospeso della cicogna - e imbarcatosi in un viaggio nell'Est Europa dilaniato dalle guerre alla ricerca di tre bobine disperse dei fratelli Manakis, autentici pionieri del Cinema in Grecia e nelle regioni balcaniche.
È proprio nel secondo capitolo della sua trilogia che il protagonista si chiede quanti confini dobbiamo superare prima di arrivare a casa, trovando la pace che tanto bramiamo: con L'eternità e un giorno, forse, il regista risponde al quesito creando uno spazio in cui convergono i ricordi felici e i dettagli irrilevanti.
Harvey Keitel dovette sconvolgere il suo metodo per collaborare con Angelopoulos, trovandosi a intepretare un ruolo che aveva così tante assonanze con la sua vita personale da rendere il suo viaggio per l'Europa doppiamente commovente: il suo personaggio aveva vissuto una porzione della sua vita in Romania, laddove l'attore ha realmente perso la madre a soli 4 anni.
In una delle scene più poetiche de Lo sguardo di Ulisse, Angelopoulos immagina che A possa ricongiungersi con sua madre in una grande casa di Bucarest, vivendo il susseguirsi sempre più tragico di una serie di feste capodanno nel grande salone dell'abitazione.
Tutto in un unico piano sequenza.
Nel ruolo di Ivo Levi, custode della cinemateca atto a proteggere le bobine dei fratelli Manakis in una Sarajevo bombardata e completamente avvolta dalla nebbia, avrebbe dovuto esserci Gian Maria Volonté, che però morì di infarto durante le riprese.
Alla sua morte il ruolo fu preso da Erland Josephson e l'intero film gli venne dedicato, ma l'eredità spirituale dell'attore italiano segnò definitivamente Angelopoulos, al punto di modificare radicalmente le sue intenzioni per il capitolo finale.
[Le rarissime immagini di Gian Maria Volonté nel ruolo di Ivo Levi, il suo ultimo viaggio e l'ispirazione di Angelopoulos per L'eternità e un giorno]
Dopo aver girato assieme Il Volo e Il passo sospeso della cicogna, Angelopoulos avrebbe voluto per interpretare L'eternità e un giorno il suo amato Marcello Mastroianni che a quei tempi, però, era troppo malato per poter interpretare Alexandros.
Il regista e l'attore si incontrarono per l'ultima volta nel 1996 e quel "Ci sono se mi vuoi" pronunciato dall'interprete, tradiva in realtà una melanconica consapevolezza che contagiò ancora una volta l'opera.
Ecco, dunque, la scelta di Bruno Ganz, che era sempre stato a suo agio nel Cinema poetico e che era in grado di essere volto universale e dolente in ogni lingua del mondo.
"Lo vidi nella hall di un hotel, mentre indossava un impermeabile Armani, proprio come nel film, e pensai semplicemente fosse perfetto per interpretare Alexandros, il protagonista de L'eternità e un giorno."
L'uso di un nome noto, spesso per ricamare sulla sua immagine-personaggio, era diventato d'altronde uno dei cavalli di battaglia di Theo Angelopoulos, che non si è mai fatto problemi a doppiare in greco i grandi nomi che ha diretto, pur di imprimerne i volti sullo schermo.
In questa ideale trilogia sulle frontiere che si conclude con L'eternità e un giorno, Angelopoulos ha man mano visto sfumare i confini personali dei suoi personaggi e la rappresentazione lineare del tempo, abbracciando via via una dimensione in cui la politica e la poetica sono inscindibili, mentre figure del presente, passato e futuro coesisitono e interagiscono con la coscienza dei protagonisti.
Lo sguardo di Ulisse, premiato con il Grand Prix a Cannes, ci aveva mostrato una piena sovrapponibilità tra Angelopoulos e il protagonista della sua opera, usando l'archetipica e metaforica immagine del regista con lo sguardo di un esule al ritorno in patria, così simile a quello di bambino.
Oltre un decennio prima, sempre il festival francese gli aveva riconosciuto il Prix du Scénario per Viaggio a Citera, un'altra opera che conteneva il peso di un vissuto schiacciato dalla Storia: il ritorno di un padre dato per disperso a casa, esattamente ciò che era successo a lui dopo la guerra civile greca del 1944.
Ecco perché L'eternità e un giorno rappresentava per Theo Angelopoulos, la vera chiusura di un cerchio, sotto molteplici profili.
"Continuavo a vedere me stesso nei panni del poeta.
Dopo due settimane abbiamo interrotto le riprese così che potessi sublimare la mia identificazione prima di poter lavorare con Bruno."
[Nel pantheon delle grandi interpretazioni di Bruno Ganz, L'eternità e un giorno conserva un posto speciale accanto a Il cielo sopra Berlino]
Isabelle Renauld venne scelta per la sua somiglianza con Phoebe, la moglie del regista.
Achilleas Skevis, il bimbo incontrato dal poeta, aveva invece appena superato il confine greco quando entrò per caso nell'ufficio di Angelopoulos, che decise di inserire la sua storia nel film.
Ecco allora ritornare ne L'eternità e un giorno la figura del bambino alla scoperta di un mondo soggiogato dalla violenza, un elemento ricorrente della poetica del regista.
Si scelse di girare a Salonicco, perché per Angelopoulos rappresentava un tempo la città più cosmopolita della Grecia e restituiva quel senso di simbiosi col mare necessario alla sua opera. Al contempo, però, simboleggiava la mostruosità delle città moderne e la crescente distruzione del rapporto tra l'uomo e la natura.
Al di là dell'ispirazione fornita da Volonté e Mastroianni, anche l'Italia ricoprì un ruolo fondamentale nel dar forma a L'eternità e un giorno: in primo luogo la casa sul mare del protagonista era in realtà l'ambiasciata italiana a Salonicco. Inoltre, il film è stato prodotto da Amedeo Pagani e vedeva nel cast Fabrizio Bentivoglio nel ruolo di Dionysios Solomos, il poeta esule che accompagna il viaggio dei protagonisti.
Soprattutto, come tante opere di Angelopoulos, l'opera é stata scritta con il suo sodale di vecchissima data, il poeta Tonino Guerra, co-sceneggiatore anche di Giuseppe De Santis, Federico Fellini, Francesco Rosi, Elio Petri, Mario Monicelli, Paolo e Vittorio Taviani, ma anche di due registi che sembrano inequivocabilmente aver plasmato l'immaginario dell'opera e dell'intera filmografia del regista: Michelangelo Antonioni e Andrej Tarkovskji.
[L'eternità e un giorno ci pone dinnanzi allo scorrere del tempo, dall'infanzia alla vecchiaia]
Per tutta la sua filmografia Theo Angelopoulos è stato tra i pochi in grado di recepire costruttivamente l'insegnamento del gigante russo, applicando al suo Cinema l'arte di "scolpire il tempo", di condensarvi la natura umana, l'amore e il sacrificio di una vita in direzione ostinata e contraria.
A tal proposito, L'eternità e un giorno assurge a manifesto programmatico di una poetica intrisa di simbolismi, riferimenti epici e digressioni esistenziali, nel quale il reale incontra il metaforico, il tempo sfuma e le figure si scolpiscono nell'inquadratura.
In questo contesto il piano sequenza diventa esso stesso frontiera dello sguardo in evoluzione dei personaggi e sinonimo di appartenenza a una nuova dimensione spazio-temporale priva di confini.
"Lavorare con dei piani sequenza non è stata una decisione razionale. Penso sempre che questa scelta si è imposta da sola.
Una necessità di inserire il tempo reale nello spazio come unità di luogo e di tempo.
Una necessità, che quei tempi che si dicono morti tra l’azione e la sua attesa - là dove abitualmente intervengono le forbici del montatore - funzionano musicalmente come delle pause."
[L'eternità e un giorno rappresenta poeticamente l'ultimo aneddoto della vita di Gian Maria Volonté]
È stato così plasmato un immaginario unico, in cui si susseguono sguardi infantili, statue in frantumi come le ideologie che rappresentavano, corpi immobili in pose plastiche e "non luoghi" sospesi, come il bus de L'eternità e un giorno, in grado al contempo di simboleggiare un omaggio all'ultimo giorno di vita di Gian Maria Volonté e la convergenza di presente, passato e futuro.
Senza soluzione di continuità, lo spettatore può conoscere l'irriducibile fanciullezza del regista e i suoi rimpianti malinconici, rivivere una giornata al mare di 30 anni prima e venir travolto dalla passione di un amore mai sopito.
Sulle note di By the Sea di Eleni Karaindrou ne L'eternità e un giorno ripercorriamo l'ossessione per l'eterno ritorno che travolge l'autore, conducendoci alle stesse domande che si pone Alexandros.
"Domani.
Una volta ti chiesi cos'è il domani."
E ancora.
"Domani, quanto dura il domani?"
[Non si può pensare a L'eternità e un giorno senza pensare a By the Sea di Eleni Karaindrou]
La risposta, che il protagonista non riesce ad ascoltare, recita "Un'eternità e un giorno" mentre il fantasma di un amore passato sfuma fuori dell'inquadratura, lasciandoci nel silenzio.
L'orizzonte temporale di un addio è potenzialmente infinito.
Theo Angelopoulos, che aveva compreso la potenza di un simile concetto, ci ha donato una poesia che si perde in quell'interminabile domani, lungo l'eternità e un giorno.
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