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La nuova collaborazione tra la piattaforma di distribuzione e streaming MUBI e Lucky Red porta dal 17 agosto nelle sale italiane il film Passages di Ira Sachs: una piacevole abitudine che si sta consolidando, in cui film che fino a qualche anno fa avremmo visto solo in grandi e piccoli festival, su pochi schermi in tutta la penisola e sulle piattaforme on demand, raggiungono finalmente una completa distribuzione.
Sarebbe stato infatti un peccato relegare un'opera come Passages - presentato in anteprima al Sundance 2023 e con doppia candidatura al 73° Festival di Berlino - nella sola nicchia degli appassionati quando invece, incarnando la vocazione di molti altri prodotti che uniscono il gusto indipendente rappresentato dal festival fondato da Robert Redford e il mondo francofono, è la perfetta trasposizione dello zeitgeist di questo periodo cinematografico.
Una generazione di opere, registi e attori che racconta le difficoltà dei rapporti umani in una società che spinge verso l'individualismo, con il ricordo usato come metro malinconico per il presente e gli schemi narrativi marginalizzati e resi esili rispetto alla costruzione di personaggi tridimensionali, affascinanti e in cui far creare ai propri interpreti.
Un nuovo star system fatto di volti imperfetti, come il labbro leporino di Franz Rogowski - protagonista di Passages - o la recitazione quasi bestiale di Paul Mescal, o attori resi imperfetti, come la smitizzazione di Léa Seydoux in Un bel mattino di Mia Hansen-Løve: figure asimmetriche come le relazioni che intraprendono.
In questo contesto trova spazio un uso della messa in scena, del mood visivo, delle luci e della nervosità della camera che spesso diventa romanticamente l'effigie degli stati d'animo e degli archi narrativi di questi affreschi di personaggi che si muovono nel nostro tempo: la fotografia sporca che mostra il ricordo, i neon della perdizione e della soppressione della propria volontà e l'apparenza patinata della quotidianità sono chiavi stilistiche che servono ai registi a rafforzare i concetti che non passano più attraverso la sola parola.
[Franz Rogowski e Ben Whishaw in una scena in discoteca in Passages, un topos narrativo ormai immancabile in questo tipo di Cinema]
Passages, l'ultima opera di un habitué degli schermi dello Utah come Ira Sachs - che ha calcato il Sundance con quattro dei suoi sette film - si incastona perfettamente in queste tendenze e in parte anche con in quelli che possono essere i loro difetti.
Il film è il più classico dei triangoli amorosi asimmetrici: al centro c’è Tomas (Franz Rogowski), regista cinematografico narcisista che cattura nella sua rete prima il grafico Martin (Ben Whishaw) e poi la giovane Agathe (Adèle Exarchopoulos).
I due uomini sono sposati e hanno una relazione abbastanza aperta, che vive delle correnti alternate del volubile protagonista, ma dopo la lavorazione del suo ultimo film Tomas si invaghisce sempre più della ragazza francese allontanandosi dal compagno, una fluidità che non è in alcun modo giudicata o colpevolizzata, a differenza della sua incapacità di fermarsi stabilmente.
Passages è proprio il passaggio da Martin a Agathe e, successivamente, il ritorno.
[Tomas e Agathe in Passages sempre nella stessa scena in discoteca: il passaggio dal compagno Martin alla nuova fiamma]
Tomas è infatti rappresentato come il classico artista instabile, ma con manie di controllo come viene mostrato sin dai primi bellissimi 5 minuti sul set in costume che dirige: manovra come una marionetta il malcapitato attore, come successivamente proverà a manovrare gli amanti, ma le persone vere non cedono la propria sovranità tanto facilmente quanto gli attori e il potere dispotico del regista non troverà altrettanto spazio nella realtà.
Ammaliante e volubile, Tomas sembra vivere la sua vita in Passages senza conseguenze e buttandocisi senza rete di salvataggio, ma è interessante come Sachs ci mostri che in realtà il suo coinvolgimento sia sempre a distanza: libero e capace di svincolarsi in ogni momento, come un ragno capace di fuggire dalla sua tela, mentre le sue prede ci restano incastonate.
Il dramma dell’amore asimmetrico mette così sullo stesso piano i due amanti: Martin e Agathe non sono solo strumenti per completare l’affresco di Tomas, ma sono il racconto delle conseguenze sugli altri del suo narcisismo patologico, le ripercussioni sempre più grandi e dolorose da cui è sempre più difficile uscire in un gioco delle parti, che come spesso accade nei drammi amorosi tende a invertirsi.
[Martin più di tutti viene imbrigliato nelle tele del protagonista di Passages]
La donna libera e senza legami che continua la storia con il regista si ritrova emotivamente, fisicamente e socialmente coinvolta sempre di più, mentre l’uomo maturo che si scopre giovane e innamorato incapace di proteggersi: vengono tutti svelati e resi fragili dall’irresponsabile protagonista di Passages, che in realtà è il vero insicuro del triangolo che cerca solo conferma nell'amore di coloro che lo guardano, siano essi spettatori, sconosciuti o amanti.
Il film indugia davvero tanto su quella che sembra essere la tela del ragno Tomas: il sesso.
Il giovane sfrutta la sua fisicità, la sua capacità di convincere ed eccitare come arma per portare a sé gli amanti; le scene che ci vengono mostrate non sono mai ammiccanti rispetto a che guarda o coinvolgenti, ma vivono della loro freddezza, degli sguardi lontani, dei pensieri rivolti all’esterno dell’amplesso.
È molto interessante come Ira Sachs riesca in Passages a mettere in scena così tanti momenti di sesso riuscendo a non renderli né voyeuristici né eroticamente appaganti, ma sfruttandoli invece per mostrare l’asimmetricità dei rapporti, come se negli amplessi ci fossero le anticipazioni di ciò che inevitabilmente avvicinerà e poi allontanerà i diversi amanti: come se, semplificando, volesse disquisire sulla subalternità della parola rispetto ai gesti.
[Adèle Exarchopoulos dopo l'exploit ne La vita di Adele ha saputo ritagliarsi un ruolo sempre più importante nel Cinema da festival, come in questo caso con Passages]
Le azioni caratterizzano anche le interazioni tra Agathe e Martin, sfortunate prede di Tomas, che si incontrano in due momenti ben precisi di Passages - quasi cronometrabili nella schematicità della scrittura - e mettono in scena quello che probabilmente è il legame più vero del film, attraverso due bellissimi dialoghi fatti di ciò che non viene detto, ma che è palpabile: personaggi incapaci di mentire a differenza dell’uomo di cui sono innamorati.
I due interpreti dei co-protagonisti lavorano perfettamente nelle differenze recitative rispetto al personaggio di Tomas in un contraltare perfetto: la naturalezza di Adèle Exarchopoulos e la franchezza di Ben Whishaw passano attraverso modi molto diversi, malcelando entrambi le proprie fragilità, e diventano ancor più d'impatto se affiancati alla leggera ed evanescente bestialità di Franz Rogowski.
Ira Sachs sceglie di sovrapporsi perfettamente allo sguardo del suo protagonista - con il quale ha dichiarato di voler lavorare da tempo e al quale mette in mano le chiavi del film - alternando visivamente momenti di pulizia visiva e dialogica direttamente dal Cinema degli anni ‘60 (Éric Rohmer su tutti), in cui la quotidianità e l’incomunicabilità, nonostante si continui a parlare, la fanno da padrona, alla nervosità dei francesi di oggi (Arnaud Desplechin, Jacques Audiard e Olivier Assayas, ognuno con le dovute differenze), mentre percorre in lungo e in largo sulle ruote della bici di Tomas una Parigi che ricorda per l’appunto quella del recente Parigi, 13 arr., come teatro di personaggi senza meta.
[Franz Rogowski costantemente sulla sua bici è il Cicerone su due ruote di Passages, in un viaggio tra diverse umanità, sempre incapace di fermarsi]
Un ultimo interessantissimo risvolto di Passages, diretto collegamento all'uso delle nazionalità differenti tipico del Cinema della Nouvelle Vague con cui chiaramente dialoga, è l’uso della lingua e delle origini dei suoi tre protagonisti: un austriaco, una francese e un inglese che parlano talvolta nelle lingue comuni e talvolta nelle proprie, marcando ancor di più le differenze, i passati e i momenti di connessione.
Attraverso la lingua, più che attraverso le parole che vengono proferite, passano spessissimo le reali interazioni tra loro e le esclusioni di uno o dell’altro personaggio (come avviene quando a tavola i genitori di Agathe dialogano con Tomas): il tutto fatto da un regista statunitense che sembra quasi guardare da fuori questa Babilonia di lingue.
[Il talamo nuziale è il vero palcoscenico di Passages, come accade in questo scambio tra Martin e Tomas]
La struttura narrativa esile e abbastanza scontata è un costrutto ormai tipico di questo Cinema che gioca con i cliché, così come la reiterazione costante di alcuni meccanismi narrativi (in questo caso i tradimenti): seppur questi siano strumenti che il regista usa consapevolmente e comprensibilmente, non sempre vengono dosati nella maniera ottimale e ne risulta a mio avviso un film talvolta troppo semplice e incapace di stupire - non che questo sia necessariamente un male.
Nonostante ciò Passages risulta senza dubbio un’opera interessante, che ci racconta dove sta andando il dramma intimo e autoriale di questi ultimi anni, ma che allo stesso tempo ne mette a nudo le potenziali storture, così come non riesce a non mostrare le fragilità del suo protagonista Tomas.
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