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Gli spartiacque del Cinema: i film che hanno generato un prima e un dopo

Quali sono i film che hanno generato un prima e un dopo?

La Storia del Cinema trabocca di tanti capolavori, film cult, pietre miliari, titoli memorabili che hanno cambiato la percezione della vita. 

 

Le parole si sprecano per definire le opere di registi immortali quali Stanley Kubrick, Charlie Chaplin, Fritz Lang, Federico Fellini, Akira Kurosawa, Andrej Tarkovskij e moltissimi altri.

 

Si contano probabilmente tra le quattrocento e le cinquecento opere reputate universalmente necessarie e fondamentali per una corretta formazione cinefila, senza distinzione di nazionalità, decennio di produzione, genere, corrente artistica, forma, contenuto. 

 

Esiste però un termine, in particolare, che non può essere attribuito a così tanti film con la stessa facilità con cui oggi si utilizza l'iper-inflazionato "capolavoro".

 

E questo termine è spartiacque.

 

 

[Proiezioni di fantasmagorie con lanterna magica: il cinema, prima di diventare Cinema]

 

 

In geografia fisica, uno spartiacque è una linea divisoria tra due grandi bacini fluviali; in senso lato, com’è facile intuire, indica un qualunque elemento o fatto talmente rilevante e significativo da provocare un prima e un dopo, influenzando così la storia.

 

Una sorta di bandierina lungo la linea temporale, segno di demarcazione tra quello che è stato e quello che sarà.

 

Nel Cinema si applica il medesimo principio: i film spartiacque hanno lasciato un segno così indelebile da risultare non solo punti di riferimento imprescindibili per tutti i cineasti successivi, ma soprattutto momenti rivoluzionari in grado di far terminare ufficialmente un’epoca (o una corrente artistica, più in dettaglio) e farne iniziare una nuova. 

 

Ho selezionato cinque titoli, che per ragioni diverse sono considerati come dei veri e propri spartiacque, indipendentemente da quello che può essere il loro valore oggettivo (che è comunque indiscutibile) e dai gusti e le preferenze delle singole persone (che in questi casi contano zero).

 

È bene tener conto che non c’è l’intenzione, né tantomeno la necessità di un confronto tra i titoli, che sono accomunati solamente dalla loro dimensione di opera di rottura rispetto al passato.

Inoltre, specifico come quest’articolo non sia ovviamente finalizzato a parlare in modo esaustivo di tutti i film prescelti: la loro grandezza e la loro importanza è tale da meritare uno spazio apposito ciascuno.

 

Mi limiterò a evidenziare dunque i motivi storici per cui ognuno di essi venga a buon diritto ritenuto uno spartiacque del cinema, senza entrare quindi nel merito di un’esauriente analisi filmica vera e propria.

 

Credo sia la giusta premessa da cui partire per poter leggere l’articolo, che va quindi considerato come un tentativo (spero riuscito) di rispondere all’ipotetica domanda:

"Quali sono davvero i film che hanno lasciato un segno così profondo, da generare un prima e un dopo?

E che tratti distintivi dovrebbero avere?"

 

 

 

 

8 febbraio 1915 

Esce al cinema Nascita di una nazione, di David Wark Griffith.

 

Perché è stato uno spartiacque?

 

Nel periodo compreso tra la nascita ufficiale del Cinema (1895) e il primo decennio del nuovo secolo, tutti i film che venivano proiettati nelle sale non erano dotati di un linguaggio cinematografico vero e proprio.

 

I cortometraggi dei fratelli Lumière, di Georges Méliès o di Filoteo Alberini consistevano nell’ideazione e messa in scena di determinati episodi, vuoi di carattere fantastico (Viaggio nella luna, Viaggio attraverso l’impossibile), vuoi di carattere storico (La presa di Roma), che avevano dunque come prima e unica esigenza quella di mettere in pratica, mostrandola al mondo, tutta la potenzialità di un nuovo mezzo di comunicazione, che si stava via via diffondendo all’inizio del XX secolo.

 

Il Cinema era una realtà nuova, ancora poco esplorata e priva di una grammatica definita, quindi è più che naturale pensare che la maggior parte di quelle opere prodotte prima del 1915 fosse in verità frutto di un desiderio di continua sperimentazione, atta a scoprire, giorno dopo giorno, tutta la forza di un nuovo mezzo espressivo, rivolto a un’immensa platea di persone. 

 

Per questo motivo, Nascita di una nazione è considerato come il primo vero film narrativo della Storia del Cinema, all’interno del quale, cioè, il mero racconto degli eventi ha per la prima volta la precedenza su tutto.

 

Stando così le cose, è evidente come l’applicazione così potente del montaggio analitico per mano di Griffith rispondesse al bisogno di fare in modo che lo spettatore potesse godere della successione delle immagini nel modo più pulito possibile.

 

In verità, l’invenzione del montaggio vero e proprio sarebbe da attribuire a Méliès, che già nel suo Viaggio nella luna aveva messo in pratica questa nuova fase creativa; il punto è che quel tipo montaggio risultava molto primitivo, in quanto la narrazione del corto procedeva per singole inquadrature (con macchina da presa ferma) che rappresentavano sì location diverse tra loro (terra, luna, mare), ma sempre in modo molto statico, senza cioè alcun uso del raccordo.

 

Già allora si evinceva la volontà di “forzare” in qualche modo il passaggio armonioso tra due diversi momenti della vicenda: nell’istante in cui il razzo precipita dalla luna per finire nel fondale marino, ad esempio, è evidente il tentativo (riuscito) di dare continuità all’azione.

Ma in ogni caso, siamo ancora lontani da quel concetto di montaggio analitico che troverà una vera e propria esplicitazione un decennio più tardi.

 

Pur tenendo conto dunque dello straordinario studio e lavoro di Méliès, che molti critici tendono a considerare come il vero e proprio papà del Cinema e inventore del montaggio (oltre che fondatore dei generi fantasy e sci-fi, e ideatore dei primi effetti speciali), i concetti di raccordo sull’asse, di sguardo e di movimenti vengono codificati per la prima volta nel film di Griffith, il quale, proprio per questo motivo, merita più di tutti la nomea di primo regista cinematografico in senso stretto della storia. 

 

C’è anche da aggiungere che, fino a quel momento, il set di un film era un ambiente dinamico e variegato, dove non era sempre chiara la suddivisione dei ruoli e dei compiti, e non si poteva dire ci fosse un individuo in particolare che avesse l’onore e l’onere di dirigere i lavori come un direttore d’orchestra.

 

Sulla base di ciò, è lecito ritenere Nascita di una nazione un’opera spartiacque del Cinema, in quanto primo film ad essere stato non solo il risultato di una visione individuale, quella del regista Griffith, ma soprattutto il tentativo di superare il concetto di Cinema delle attrazioni - così viene chiamata la primissima fase della storia della Settima Arte che va grossomodo dal 1895 al 1915 - per diventare qualcosa di più articolato e impegnativo.

 

La stessa età d’oro del Cinema classico hollywoodiano si può dire fosse iniziata proprio con il film di Griffith, che ha quindi il grande merito di aver definito per la prima volta il Cinema per quello che in definitiva era: il più grande strumento di intrattenimento di massa, che aveva come primissima esigenza quella di raccontare una storia, molto semplicemente.

 

La grande stagione della sperimentazione dei primi vent’anni di vita del cinematografo stava via via lasciando il posto a un lunghissimo periodo di stabilizzazione, che sarebbe durato decenni.

 

Gran parte delle regole scritte che l’avrebbero governato sarebbero state promulgate proprio con David W. Griffith.

 

 

 

 

1° maggio 1941.

L’avvento di Quarto Potere ha avuto nel Cinema la stessa valenza della scoperta dell’America per la Storia moderna.

 

Un qualcosa che ha cambiato il mondo.

Così il film di Orson Welles ha cambiato il Cinema e per una serie di ragioni, viene da più parti considerato come il più grande film mai realizzato.

 

In cosa si sostanzia la sua natura di opera spartiacque della Storia del Cinema?

Da una parte, per il modo rivoluzionario per l’epoca con cui venne ideato e prodotto. Quarto Potere viene infatti ricordato per essere stato il primo film in assoluto in cui venne concessa piena libertà artistica nelle mani di una singola persona: il contratto che legava infatti l’appena venticinquenne Orson Welles alla casa di produzione gli consentiva di essere contemporaneamente regista, produttore, sceneggiatore e interprete principale.

 

Una cosa davvero eccezionale per la Hollywood del tempo, dominata dalle grandi major e dall’integrazione verticale.

 

Dall’altra, si assiste a una vera e propria rivoluzione tecnica: viene infatti qui ripreso e perfezionato il metodo della profondità di campo (già presente nel Cinema muto delle origini ma poi bandito negli anni ’30 con l’avvento del sonoro) anche grazie a nuovi sistemi di illuminazione e grandangoli speciali, che consentivano di dare risalto e rendere nitido non solo il primo piano dell’inquadratura ma anche tutto quello che accade sullo sfondo.

 

L’apporto del direttore della fotografia, Gregg Toland, fu tale che (e qui cito apertamente un cinefact)

"Orson Welles volle metterlo nei titoli di testa sulla sua stessa pagina".

 

In un periodo in cui la regia aveva il dovere di risultare invisibile agli occhi dello spettatore, Quarto Potere al contrario sfruttava al massimo la capacità comunicativa della macchina, che diventa quindi una presenza decisiva ed esplicita.

 

Memorabile a questo proposito la scena finale, con la mdp che va a riprendere dall’alto tutti i beni e cimeli della residenza Kane attraverso uno straordinario long take, per poi scendere e nell’inquadratura successiva tuffarsi nel fuoco del camino, all’interno del quale viene finalmente rivelato al pubblico il significato di “Rosebud”: ecco che si sostanzia allora il nuovo ruolo della cinecamera, che va oltre l’ordinario, diventando quindi un occhio più efficace di quello umano nel mostrare qualcosa che, senza quel movimento rivelatorio, non avremmo mai visto. 

 

Per questo motivo, alcuni tendono a considerare il film di Welles come il primissimo affaccio del moderno nella Storia del Cinema americano, proprio per tutti quei momenti di autocoscienza estetica, di cui il film pullula.

 

Ispirato alla storia vera di William Randolph Hearst, imprenditore americano dell’editoria e uno degli uomini più ricchi di sempre, il film racconta la vita di Charles Foster Kane, magnate della stampa e creatore del più grande impero mediatico del secolo.

 

La vita di Kane, che è tutta sviluppata in flashback attraverso i racconti e le testimonianze delle persone a lui più vicine (la seconda moglie, il migliore amico, il braccio destro in affari e il maggiordomo) con lo scopo di far comprendere allo spettatore la complessa personalità del protagonista, ricorda per molti aspetti quella di Hearst al punto che quest’ultimo, resosi conto degli evidenti parallelismi, cercò di boicottare in tutti i modi la distribuzione della pellicola utilizzando quello stesso potere di influenza mediatica che costituisce il punto focale del film. 

 

È evidente che anche la scelta di raccontare in un film la vita di un personaggio in modo così anticonvenzionale (per l’epoca) ha costituito un punto di riferimento per diversi biopic a venire, soprattutto quelli moderni.

 

Poco amato alla sua uscita dal pubblico americano e criticato anche oltreoceano, venne ignorato anche dall’Academy: 9 nomination agli Oscar ma una sola vittoria, per la Migliore Sceneggiatura.

Si prenderà la sua rivincita nella seconda metà del secolo: l’American Film Institute lo eleggerà il Miglior Film americano di sempre.

 

Piccola chicca per gli studenti di giurisprudenza: il manuale di Diritto Costituzionale degli autori Roberto Bin e Giovanni Pitruzzella, edizione 2010, ha come copertina un fotogramma di Orson Welles in Quarto Potere; questa scelta della casa editrice Giappichelli è motivata dal fatto che la libertà e il diritto di informazione, perno centrale del film così come i rapporti tra potere politico e opinione pubblica, sono tra i temi fondamentali del Diritto Costituzionale in una qualunque società democratica.

 

 

[Il fotogramma di Quarto Potere scelto come immagine di copertina del manuale di diritto costituzionale Bin-Pitruzzella]

 

 

Nascita di una nazione e Quarto potere, seppur così diversi sia nella forma che nel contenuto, sono accomunati dal loro carattere rivoluzionario e dall’essere stati un punto di riferimento per tutti gli addetti ai lavori del cinema americano, che nel 1915 era agli albori e nel 1941 era in pieno apogeo.

 

Jean-Luc Godard, fine teorico e critico di Cinema ancor prima che regista, avrà modo di dichiarare come David W. Griffith e Orson Welles debbano essere considerati come i più autentici Maestri del Cinema muto e sonoro rispettivamente, proprio per il loro essere stati fautori di una prima grammatica cinematografica (di regia e montaggio, in primis) che sarebbe stata poi studiata nelle scuole di tutto il mondo.

 

Con il nominare Godard, arriviamo dritti alla nascita della Nouvelle Vague e del cinema europeo moderno, senza però esimerci prima dal fare un passaggio intermedio, altrettanto significativo.

 

 

[Anna Magnani è Pina in Roma città aperta, un attimo prima della sua corsa disperata verso il camion delle SS]

 

 

27 novembre 1945.

Appena tre mesi dopo la fine del secondo conflitto mondiale, esce nelle sale italiane Roma città aperta, capolavoro assoluto di Roberto Rossellini e autentico manifesto del nascente movimento neorealista.

 

Con Roma città aperta si esce dagli studi e si arriva nelle strade, nelle piazze, nelle campagne; non quelle ricostruite dalle grandi produzioni hollywoodiane, ma quelle reali, della vita di tutti i giorni.

Cambiando lo scenario, cambia anche l’interprete del film: non più il divo dalla faccia pulita, perfetto e orgoglioso nel proprio fascino immortale, ma l’uomo comune, l’individuo qualunque finalmente libero da ogni tipo di cliché, vincolo e requisito fisico.

 

È il Cinema che si riappropria della storia, della verità, della vita.

  

Ci penserà il grande regista austriaco Otto Preminger a enfatizzare la natura di spartiacque del film di Rossellini:

“La Storia del Cinema si divide in due parti: una prima Roma città aperta, e una dopo”.

 

Se Ossessione di Luchino Visconti fu il titolo che due anni prima inaugurò ufficialmente il fortunato filone del Neorealismo italiano, il film di Rossellini ebbe il merito, ancora maggiore, di far acquisire al movimento fama e risonanza mondiale, facendolo diventare di fatto uno dei periodi cinematografici più importanti del secolo.

 

Precursore anche del Cinema moderno, la cui esplosione avverrà solamente quindici anni dopo con l’avvento della Nouvelle Vague, Roma città aperta è stato dunque il primo, clamoroso tentativo di imboccare una strada nuova, lontana anni luce dagli stilemi classici d’oltreoceano, e che potesse costituire non solo una forma di intrattenimento (com’era stato fino a quel momento), ma soprattutto, grazie alla sua natura quasi documentaristica, un motivo in più per riflettere sulla società e i cambiamenti ineluttabili, tragici o meno, a cui essa è sottoposta.

 

È Cinema che diventa quindi occhio investigativo e che, consapevole delle proprie possibilità, assurge a strumento in grado di offrire una riflessione, ancora prima di una visione.

 

Quando nel 1960 uscì Psyco molti critici restarono sconvolti dal fatto che la protagonista della storia venisse fatta morire dopo appena mezz’ora di film.

 

In Roma città aperta Rossellini opera la medesima operazione quindici anni prima di Alfred Hitchcock: Pina, memorabile personaggio interpretato da Anna Magnani, muore fucilata sotto i colpi dei soldati tedeschi nel primo atto.

È un Cinema che si prefigge l’obiettivo di fare un’istantanea della società e del tempo.

 

È per questo motivo che la morte di Pina, seppur nella sua tragicità, non può che essere necessaria: i personaggi sono di passaggio e si muovono su uno scacchiere ben più grande, che è quello della storia, vero punto di interesse dell’indagine rosselliniana.

Questa considerazione verrà esplicitata anche in Paisà e Germania anno zero.

 

I tre film della trilogia antifascista sono accomunati proprio da questa caratteristica: non raccontano semplicemente una storia, ma sono piuttosto un insieme di singoli momenti, che pongono personaggi e spettatori sullo stesso piano: al cospetto della realtà.

 

Il principio causa-effetto, tipico del cinema narrativo americano, viene qui messo in crisi e sostituito dunque con uno stile semplice quanto diretto, che mira principalmente a evidenziare la nuova funzione del Cinema: non più mezzo di intrattenimento delle masse (o non solo, almeno), ma un’occasione di riflessione e di indagine storica, che parla allo spettatore attraverso nuove immagini, intrise di autenticità. 

 

 

 

 

16 marzo 1960.

Esce nei cinema francesi Fino all’ultimo respiro, scritto da François Truffaut e diretto da Jean-Luc Godard.

 

Basterebbero solo queste due informazioni per riuscire ad afferrare l’importanza dell’opera.

 

Con Fino all’ultimo respiro, che si inerisce lungo il solco già tracciato pochi anni prima dai registi neorealisti e in concomitanza con il lavoro di altri grandi Maestri del Vecchio continente quali Carl Theodore Dreyer, Robert Bresson e Ingmar Bergman, vengono ufficialmente delineati i contorni del Cinema europeo moderno.

 

È il tempo degli intellettuali, dei critici, dei giornalisti, di coloro che, prima di tutti, contribuirono a rendere ufficialmente il Cinema un’arte, alla pari di pittura e poesia, dove cioè ogni singola opera rispecchia sempre l’estetica e la visione del mondo del proprio autore.

 

I fondatori della Nouvelle Vague, tutti cinefili e critici di professione dei Cahiers du Cinéma, credevano che si potesse fare Cinema battendo una strada nuova, svincolata da quegli stilemi che il cinema hollywoodiano classico aveva contribuito a diffondere.

Di fatto Fino all’ultimo respiro, titolo manifesto di questa rottura narrativa e grammaticale, contraddice in ogni singolo aspetto tutto ciò a cui lo spettatore era stato abituato fino a quel momento: dalla trama scarna e in certi casi improvvisata alla direzione degli attori, dai movimenti di macchina ai jump-cut.

 

I raccordi, punto fermo del linguaggio classico degli anni ’30 e ’40, qui appaiono volutamente sbagliati, all’interprete è lasciata l’iniziativa di improvvisare e dominare il set, e la regia si dimentica del principio di campo e controcampo.

 

Quello che in un film di Billy Wilder o Frank Capra era schematico e rigoroso, qui diventa libero e slegato da schemi; quello che era armonioso, qui diventa caotico.

 

Non è più il personaggio ad assecondare la macchina da presa (e la regola che a essa soggiace), bensì il contrario: i due protagonisti interpretati da Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg camminano e dialogano come se non fossero ripresi, come se stessero semplicemente vivendo la loro esistenza, ora vivace, ora noiosa, ora accelerata, ora fatta di tempi morti.

 

Per la prima volta il lato prettamente statico della vita (e del quotidiano) assume un peso rilevante ai fini del racconto, senza alcuna pretesa di manipolazione.

Questa rivoluzione narrativa affonda sicuramente le proprie origini in buona parte del neorealismo italiano (in Rossellini su tutti, considerato da molti registi francesi come il principale Maestro) e costituirà allo stesso tempo il punto di partenza per l’avvento della New Hollywood, verso la fine degli anni ’60.

 

Per chi desiderasse leggere qualcosa in più su Godard e la Nouvelle Vague qui sul sito, segnalo l’introduzione a 8 titoli fondamentali della Nouvelle vague. 

 

Facciamo un salto temporale di quasi trent’anni e arriviamo a metà anni ’90.

 

 

 

 

21 maggio 1994.

Dopo il folgorante esordio con Le Iene, Quentin Tarantino sorprende nuovamente il mondo cinefilo ed entra ufficialmente nell’olimpo dei registi.

 

Di Pulp Fiction si parla e si scrive sempre, qualcuno dice anche troppo.

 

È senza dubbio uno dei titoli più citati nei gruppi e nelle pagine di Cinema nei social network.

Io mi limiterò a mettere in evidenza il perché sia stato così importante e perché sia a buon diritto considerato tra i film più rivoluzionari del Cinema contemporaneo.

 

Urge però una precisazione: il fatto che Pulp Fiction venga citato nello stesso articolo sui titoli spartiacque del Cinema, assieme a Quarto potere, Roma città aperta e Fino all’ultimo respiro, non autorizza a considerare l’opera di Tarantino alla pari dei tre titoli sopracitati.

 

Ragionando su piani alti, è indubbio che il lavoro di Welles, Godard e Rossellini sia stato più rilevante, non solo per il periodo storico nel quale i tre hanno vissuto, ma proprio per la Storia del Cinema in generale.

 

L’importanza di Pulp Fiction è da stigmatizzare con esclusivo riferimento al cinema contemporaneo e postmoderno: cosa assolutamente non da poco, ma ci tenevo comunque a fare questa precisazione.

 

Siete mai stati a Las Vegas?

Camminando lungo la celebre strip si prova una strana sensazione, quasi come se si assistesse a una sorta di artificiosità dichiarata, talmente esplicita da non risultare quindi fuori luogo, ma assolutamente coerente con la propria natura: il Colosseo romano ricostruito in scala quasi reale, ad esempio, è la testimonianza più limpida del carattere postmoderno dell'arte, che si riflette nel recupero del classico e dell’armonia perduta, ribaltati dentro il caos e l'eclettismo del contemporaneo.

 

Il contrasto tra i due elementi, nel Cinema come nell’arte in generale, per quanto ambiguo costituisce proprio la caratteristica più precipua dell’intera corrente artistica, senza la quale non esisterebbe alcun fattore distintivo.

Ebbene, si può dire che Pulp Fiction sia il corrispettivo cinematografico di Las Vegas, che è appunto considerata come la più celebre metropoli postmoderna del mondo.

 

La rottura dell’unità narrativa non era una novità nel Cinema della seconda metà del secolo.

Quarant’anni prima, infatti, Stanley Kubrick aveva realizzato quel capolavoro dal titolo Rapina a mano armata, che raccontava l’organizzazione di una rapina a un ippodromo alternando i vari punti di vista dei personaggi in gioco e muovendosi dunque avanti e indietro sulla linea temporale.

 

Due decenni più tardi, Sergio Leone adotterà una tecnica narrativa simile (anche se con esigenze ed esiti completamente diversi) per quella che è la sua opera massima, nonché uno dei picchi del cinema postmoderno, C’era una volta in America.

 

Con Pulp Fiction, Tarantino raccoglie quelle lezioni e le estremizza al massimo, dando vita a un’opera pulp, citazionista ed eccessiva sotto ogni aspetto, che mescola tra loro elementi apparentemente gli antipodi: il gusto del racconto tipico del cinema classico (riprodotto però in una versione per eccesso) con la sperimentazione del moderno.

L’accezione di cinema postmoderno, come già detto sopra, risponde proprio a tale commistione.

 

Tarantino è il regista che più di tutti negli ultimi tre decenni ha saputo dar parvenza artistica alla citazione e al pastiche, prendendo a modello e omaggiando diversi cineasti del passato, attingendo a più correnti e fenomeni storici, dal Cinema d’arti marziali orientale allo spaghetti western, dalla Nouvelle Vague al Cinema d’exploitation, mixandoli tra loro per dar vita a qualcosa di nuovo.

 

L’aggettivo "tarantiniano" nasce proprio per indicare quello stile registico esagerato, esplicito, fumettistico, postmoderno.

 

Tarantino ama e conosce il Cinema, e riversa la propria passione, o meglio la propria cinefilia, nelle pellicole da lui realizzate che appaiono dunque come la più chiara testimonianza dell’esasperazione di un concetto, che si era già fatto strada nel decennio precedente e qui portato ai massimi livelli: l’autoconsapevolezza cinematografica.

 

Pulp Fiction è esattamente questo, Cinema consapevole di essere Cinema.

 

La realtà moderna, che aveva sostituito l'illusione del Cinema classico, viene qui a sua volta rimpiazzata dalla simulazione, da una nuova realtà iperrealista dell'immagine cinematografica, che non attinge da nient'altro che da se stessa; la realtà e il mondo di Pulp Fiction sono già cinema, che trova la propria ragion d'essere nell'atto stesso della rappresentazione cinematografica.

Un Cinema che si nutre di Cinema, o meglio di immagini cinematografiche, che hanno già anticipato (e sostituito) la nostra realtà, ancora prima di essere messe in mostra.

 

Il grande regista Howard Hawks, uno dei Maestri assoluti della messa in scena della sceneggiatura classica, non solo non faceva mai sprecare parole ai suoi personaggi, ma rendeva ogni singolo dialogo del film funzionale alla storia che gli interessava raccontare.

 

Chissà cosa avrebbe detto (o pensato) nell’ascoltare la conversazione tra Vincent Vega e Jules Winnfield sugli hamburger olandesi e sul significato dei massaggi ai piedi, appena prima di andare a recuperare una valigetta misteriosa a casa di Brett e compagni; dialoghi squisitamente fuori posto e assolutamente inutili ai fini dell’incedere della narrazione, ma per questo affascinanti.

 

Tarantino ci fa ascoltare qualcosa che a noi non serve per capire meglio il racconto, ma non importa, perché è tutto ricercato.

La purificazione dello stile classico e la destrutturazione dell’unità narrativa trovano la propria giustificazione nella messa a punto di una storia che, come avrà modo di dichiarare lo stesso Quentin, ha come prima esigenza quella di non essere prevedibile, ma di rivelarsi costantemente.

 

Il celebre regista e critico Peter Bogdanovich ha definito Tarantino come il più influente regista della sua generazione.

 

E Pulp Fiction, titolo vincitore della Palma d’oro al Festival del Cinema di Cannes nel 1994, rappresenta appunto il suo più grande manifesto, che avendo assorbito gli insegnamenti di Sergio Leone e Brian De Palma, ha avuto come principale merito quello di offrire un nuovo tipo di Cinema di intrattenimento autoriale.

 

Un Cinema fatto di battute a effetto, violenza estetica, caratterizzazione dei personaggi sopra le righe, rottura della continuità temporale e che nei vent’anni a seguire, proprio per aver riportato in auge il Cinema postmoderno, donandogli nuova linfa vitale, ha costituito il modello principale per tanti giovani registi indipendenti. 

 

 

 

 

Come già specificato nell’incipit dell’articolo, ognuno di questi capolavori meriterebbe certamente più spazio. 

 

Inoltre, non è peregrino pensare che ci siano altri titoli (non così tanti), in aggiunta ai cinque sopracitati, che ben si sposerebbero con la definizione di “spartiacque” a cui quest’articolo è dedicato. 

 

Sono certo che a molti di voi verrebbe spontaneo pensare ad esempio anche a Easy Rider del 1967, film diretto dal regista-attore Dennis Hopper, che insieme a Gangster Story e a Il laureato inaugurò ufficialmente la grande stagione della New Hollywood, e che è ritenuto ancora oggi il manifesto hippy di una generazione che stava cambiando per sempre la società a stelle e a strisce grazie alle marce per i diritti, ai discorsi motivazionali di John F. Kennedy e Martin Luther King, alla rivoluzione sessuale, al movimento di ribellione giovanile, alle proteste per la guerra del Vietnam.

 

O anche a I cancelli del cielo, capolavoro incompreso del 1980 diretto dal compianto Michael Cimino, il titolo che al contrario, in seguito al fallimento della  United Artists, favorì indirettamente il ritorno al potere da parte delle grandi major, facendo così venir meno l’indipendenza artistica di cui avevano goduto i maggiori registi del Cinema americano degli anni ’70. 

 

Sarebbe sbagliato, o quantomeno difficile definire una lista chiusa di opere che, in un modo o nell’altro, siano state in grado di elevare di una tacca il proprio genere di appartenenza, o di nobilitare ancor di più la Settima Arte con il loro carattere rivoluzionario, o ancora di essere manifesto di una corrente o di un periodo storico del secolo scorso, dal cinema muto all’espressionismo tedesco, dal surrealismo all’avvento del digitale; e così discorrendo.

 

 

[I cancelli del cielo, western crepuscolare ambientato in Wyoming nel 1870, fu realizzato con un budget di 44 milioni di dollari e ne incassò globalmente poco più di tre, sancendo la fine della stagione della New Hollywood. Un film spartiacque, suo malgrado]

 

 

Prendete dunque questo testo per quello che è: una cornice generica e sistematica, finalizzata a mettere in risalto l’esclusiva natura rivoluzionaria di film innovatori e sovversivi, a offrire gli strumenti per la loro identificazione nella storia (per poter idealmente ripetere l’esercizio in futuro) e a ricordare come essi siano stati a lungo studiati da critici, appassionati e addetti ai lavori, tutti concordi nel ritenerli come punti di rottura rispetto al passato e, allo stesso tempo, modelli nascenti di un nuovo modo di fare e intendere cinema. 

 

E in questo doppio valore, si sostanzia il loro carattere immortale. 

 

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15 commenti

Sebastiano Miotti

6 anni fa

No no ma non cercavo il migliore. Allora lo devo rivalutare!

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Pierluca Parise

6 anni fa

Easy Rider dal punto di vista cronologico, storico, diciamo.

Poi ovvio che se entriamo nel pieno merito cinematografico/artistico, film della New Hollywood quali Taxi Driver e Il cacciatore sono per me di un altro pianeta.

Mettiamola così, in un articolo sugli spartiacque del cinema, mi verrebbe naturale pensare a Easy Rider o Il laureato. Ma se dovessi in generale mettere l’accento sui migliori titoli del periodo, i film di Scorsese e Cimino sarebbero in cima alla lista.

Tento di tenere separati i due discorsi, insomma.
Un’esigenza che invece non si pone, a mio avviso, per quanto riguarda ad esempio Quarto potere o Fino all’ultimo respiro.

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Claudio Serena

6 anni fa

Il meccanismo interiore che scatta è prettamente comprensibile, però non è intellettualmente corretto.
A me viene come esempio Ridley Scott. Per quanto sia stato il regista di film, che non solo amo molto, ma che sono riconosciuti come pilastri del Cinema, ha, recentemente, firmato alcuni film che ho trovato dallo scialbo all'imbarazzante. E sarebbe mentire a me stesso, oltre che un atto di adulazione superfluo, cercare delle attenuanti ripensando alle opere passate dell'autore

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Sebastiano Miotti

6 anni fa

Sono d'accordissimo
E non per nulla è sorto a chiusura del millennio

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Sebastiano Miotti

6 anni fa

Secondo me occorre strutturalmente aspettare. Ma si può facilmente intuire un instant masterpiece. The Tree of Life? Mulholland Drive (ma non lasciando Lynch molti epigoni forse non diventerà un film spartiacque)? Mad Max: Fury road?

Se non altro questo mio elenco fa capire che nella nostra epoca un capolavoro dovrà essere evocativo, esteticamente impattante, non troppo verboso.
O forse questi sono solo i miei criteri preferiti

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Sebastiano Miotti

6 anni fa

E io riportavo cosa avrebbe detto in questo thread Truffaut.
Anche se devo dire di sentirmi abbastanza in sintonia: fosse anche solo per pregiudizio, si finisce per essere più indulgenti con gli autori, e forse questo atteggiamento è essenziale proprio per la determinazione sul lungo tempo dei canoni

Detto questo: Whiplash >>>>>> Fiamma d'amore

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Claudio Serena

6 anni fa

e rispondo alla domanda su Mozart: una persona onesta intellettualmente. Non è il nome che deve rendere grande l'opera, ma l'opera a rendere grande il nome.
(Non conosco Mozart e non so se abbia fatto opere "minori" che qualitativamente possano essere attaccate. Rispondevo solo in linea teorica)

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Claudio Serena

6 anni fa

Qui si entra in un altro discorso molto controverso.
La valutazione di un film.
Per me dovrebbe essere presa l'opera singolarmente e non facendo riferimento a tutto il pregresso, o il post, dell'autore. Non è che se l'autore precedentemente abbia sfornato uno o più film importanti e di spessore, allora automaticamente tutti i suoi film acquisiscano un punteggio supplementare che si aggiunge alla valutazione.
Puoi fare, o aver fatto, un film brutto anche se ti chiami Scorsese, Scott, Coppola, Hitchcock, Kubrick, Welles, etc

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Sebastiano Miotti

6 anni fa

Assolutamente, lo stavo rivedendo qualche mese fa: Matrix è e sarà epocale.
Comunque, sì, i più grandi artisti non è detto che abbiano fatto i più bei film. 
O forse questa equazione si realizzerà nel lunghissimo tempo.
Nel senso, per esempio per i critici dei Cahier du Cinema i più grandi autori hanno fatto i film più belli in assoluto, punto; e l'opera minore di Griffith è più bella-importante (sono due cose diverse ma per loro mica poi tanto) di qualunque opera prima di, evidentemente, un non autore o non-ancora autore.

Per Truffaut tra Fiamma d'amore di Hitchcock e Whiplash non c'è partita.
Si può non essere d'accordo ahah.
Però effettivamente chi si sognerebbe adesso di criticare le opere "minori" di Mozart?
Forse non sappiamo nemmeno se si possa dire che vi siano

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Claudio Serena

6 anni fa

Però qui si parla di "spartiacque" che non necessariamente sono i più bei film, fatti dai più grandi artisti. Ma, come dicevi anche tu, comprende quei film che hanno in se una enorme portata innovativa (tecnologica o di linguaggio)
Portavo ad esempio The Matrix proprio perché non è il più bel film, né artisticamente alto, né un film autoriale ma che è stato capace di rivoluzionare il mezzo espressivo (nella sua forma, più che nel contenuto)

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