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Smile è il lungometraggio d'esordio del giovane Parker Finn che, oltre alla regia, firma anche la sceneggiatura del film, basata su un suo precedente cortometraggio intitolato Laura Hasn't Slept.
Esiste un nutritissimo filone horror americano che negli ultimi 20 anni ha prodotto una folta schiera di film dell'orrore, che potremmo definire ormai come "canonici": i blockbuster dell'orrore - più o meno riusciti - che ci raccontano di mostri, demoni, fantasmi, possessioni demoniache, maledizioni, e chi più ne ha più ne metta.
La chiameremo "tipologia A", per comodità.
È questa la "scuola" di James Wan e Mike Flanagan, per citarne un paio.
[Il trailer ufficiale di Smile]
Esiste poi una seconda categoria di horror anglofoni che - fortunatamente - sta germogliando negli ultimi anni, riproponendo un Cinema dell'orrore più viscerale, atavico, che vira prepotentemente sulle allegorie, sui simboli e che cerca di inquietare lo spettatore per mezzo della messa in scena, della colonna sonora e, ovviamente, dello script.
Un horror che segue le tracce dei capostipiti del genere e muove lo spettatore verso l'angoscia, piuttosto che al salto sulla poltroncina del cinema.
Questa è la "tipologia B".
Siamo nel partito di Robert Eggers, Ari Aster, Jordan Peele, giusto per intenderci.
Smile di Parker Finn appartiene senza ombra di dubbio alla "tipologia A", seppur il giovane regista americano tenti di protendersi (timidamente) verso la seconda categoria, più densa di contenuti e messaggi, provando così ad "alzare il tiro" della sua creatura.
[Uno dei tanti jumpscare presenti in Smile]
Rose Cotter (Sosie Bacon) è una terapeuta che non ha ancora superato il trauma per il suicidio di sua madre, morta praticamente davanti ai suoi occhi quando era una bambina.
Durante un turno di lavoro la giovane psichiatra si trova davanti una paziente sconvolta dal terrore e dalle allucinazioni: in preda a una crisi psicotica finisce col tagliarsi la gola davanti a Rose, mentre un inquietante sorriso le deforma il volto.
Quel sorriso comincerà così a tormentare la protagonista di Smile…
Come detto in apertura d'articolo, il film di Finn non è dissimile nell'estetica e nel montaggio da tanti altri altri blockbuster sanguinolenti: i 115 minuti di Smile sono indubbiamente ben cadenzati dal lavoro del montatore Elliot Greenberg e il direttore della fotografia Charlie Sarroff si disimpegna onestamente nel suo lavoro, arrivando anche a omaggiare/riprendere il lavoro fatto dal DoP Pawel Pogorzelski per il già citato Ari Aster.
Anche l'idea di fondo presentata dal soggetto dello stesso Parker Finn - quella dell'ossessione e del senso di colpa che si tramutano in maledizione - sembrano voler andare più in profondità, scavando, creando un messaggio che vada al di là del "morirai perché questo è un film horror e quindi devi morire (per far spaventare chi ti guarda morire)".
Da quanto detto si ottiene una sorta di ibridazione concettuale tra Ringu (o The Ring, se preferite), It Follows e Final Destination.
[L'idea della maledizione dei sorrisi di Smile è sicuramente inquietante]
Il problema di Smile - oltre che in alcune leggerezze di sceneggiatura - risiede a mio avviso principalmente nella scelta del suo autore di far salterellare lo spettatore sulla poltrona a colpi di jumpscare: un meccanismo stanco e sterile di cui, francamente, nel primo ventennio cinematografico di questo millennio si è "leggermente" abusato.
Finn prova anche ad alternare gli stacchi (con relativi picchi di volume degli effetti sonori) con scene d'atmosfera, suggerendo l'angoscia, instillando il disagio e mostrando la progressiva discesa nella malattia mentale (?) ma, francamente, non pare menzognero asserire che il regista fallisce nel suo tentativo di approccio agli horror della "tipologia B".
I suoi sono richiami - stilistici e contenutistici - vuoti e i tentativi di immersione nell'orrore paranoide vengono smantellati dal continuo sistema di (telefonatissimi) "bu!" gridati nell'orecchio dello spettatore.
Il cast, guidato dalla figlia d'arte Sosie Bacon (il papà è proprio quel Kevin), si disimpegna in una buona prova, per quanto le performance mi sono parse deformate da un doppiaggio non sempre aderente alle intenzioni degli interpreti.
Interpreti che, salvo la protagonista, danno vita a personaggi comprimari sostanzialmenti trascurabili per la quasi totalità del loro screen time, annichiliti da una scrittura che fa di loro carne di porco, come nella migliore tradizione degli horror della "tipologia A".
Al netto delle sbavature sottolineabili in Smile, Parker Finn pare essere un regista dotato di buone capacità: un prospetto futuro da tenere sicuramente d'occhio nel suo cammino cinematografico, sperando che possa produrre (o ricevere) dei soggetti più efficaci.
Smile è dunque un film "horror hollywoodiano standard" che si protende verso una dimensione a lui superiore, senza però mai raggiungerla.
Una produzione perfetta nel caso vogliate intrattenervi in dolce compagnia, con un secchiello di pop corn in grembo e una lunga serie di saltelli sulla poltrona.
Se, al contrario, dall'horror cercate qualcosa di più profondo, che vi rimesti nelle interiora e nel cuore, andando oltre ai "bu!" gridati nelle orecchie... fareste bene a navigare verso altri lidi.
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