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Da martedì 12 luglio sono disponibili su Sky e NOW i sei episodi di We Own This City - Potere e corruzione, miniserie HBO sviluppata dal creatore di The Wire David Simon insieme a George Pelacanos.
Lo show è un adattamento dell'omonimo libro scritto dal giornalista del Baltimore Sun Justin Fenton, a sua volta ispirato a una reale inchiesta che portò all'arresto di otto agenti di polizia.
We Own This City è l'ennesima collaborazione tra Simon e il noto canale via cavo dopo The Corner, Generation Kill, Treme, Show Me a Hero, The Deuce - La via del porno (creata insieme a Pelacanos), Il complotto contro l'America e la già citata The Wire.
[Il trailer di We Own This City]
The Wire è considerata una delle migliori serie TV della Storia del piccolo schermo insieme a I Soprano e, proprio come We Own This City, è ambientata a Baltimora, una delle città con il tasso di omicidi più alto degli Stati Uniti.
Autore, ambientazione e vibes a parte le similitudini tra le due serie ci sono, al tempo stesso però un paragone vero e proprio appare comunque difficile: da una parte abbiamo una storia raccontata in 60 episodi divisi in 5 stagioni, dall'altra un prodotto di circa 6 ore basato su fatti reali e quindi romanzabili fino a un certo punto.
In un certo senso si può considerare We Own This City come una sorta di sequel o spin-off non ufficiale, contraddistinto tra l'altro dalla presenza di diversi attori del cast originale, in più di un caso scritturati per ruoli totalmente opposti rispetto ai loro vecchi e più noti personaggi.
Basti pensare ad esempio a Jamie Hector, conosciuto principalmente per aver interpretato il gangster Marlo Stanfield proprio in The Wire e qui invece nei panni di Sean Suiter, un rispettabile detective della squadra omicidi.
[Jon Bernthal e Jamie Hector nei panni del sergente Wayne Jenkins e del detective Sean Suiter in una scena di We Own This City]
Completamente diverso è invece l'approccio per quanto riguarda il rapporto tra fabula e intreccio: in The Wire coincidevano, in We Own This City assolutamente no.
Nello show diretto da Reinaldo Marcus Green dobbiamo fare i conti con un continuo ping pong tra il piano temporale principale e una serie di flashback e flashfoward.
Una narrazione da questo punto di vista più simile alla prima stagione - e in parte la terza - di True Detective.
We Own This City parte da un'investigazione su uno spacciatore condotta dalla polizia delle contee di Harford e Baltimora che inaspettatamente si allargherà fino a coinvolgere gli agenti di una delle più rinomate squadre speciali del dipartimento della città di Baltimora - diversa giurisdizione rispetto alla contea - portando l'FBI a subentrare e prendere di fatto il controllo dell'indagine.
Contemporaneamente seguiamo anche un'altra inchiesta parallela della divisione dei Diritti Civili del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, incaricata di far luce sui metodi della forze dell'ordine di Baltimora in seguito alla morte di Freddie Gray, ragazzo afroamericano deceduto il 19 aprile del 2015 in seguito alle ferite riportate durante il suo arresto.
[Un servizio sull'arresto e la morte di Freddie Gray, citato più volte durante We Own This City]
La narrazione di We Own This City procede a salti: come in The Wire ci viene mostrato lo sviluppo dell'indagine con tanto di appostamenti e intercettazioni telefoniche, alternandola però a una seconda linea temporale ambientata un po' più avanti, quando tutti gli indagati sono già stati arrestati e alcuni di loro hanno deciso di collaborare.
I loro interrogatori in carcere fungono da vero e proprio stratagemma narrativo: i flashback vengono infatti montati in base alle risposte date agli inquirenti per far chiarezza sui vari casi accaduti negli anni.
In altre occasioni la presenza di analessi viene introdotta attraverso il ricorso a un altro "trucco", ovvero l'inquadratura della schermata di un computer e la compilazione in tempo reale di un rapporto da parte di Wayne Jenkins (Jon Bernthal) con tanto di data finale per permettere allo spettatore di orientarsi.
In un cast corale come quello di We Own This City la star assoluta è proprio Jon Bernthal, lanciato da The Walking Dead e consacrato dal ruolo di The Punisher prima in Daredevil e poi nell'omonima serie spin-off andata in onda su Netflix per due stagioni.
Tra i suoi lavori più importanti possiamo citare anche diverse produzioni del calibro di The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese), Sicario (Denis Villeneuve), Widows - Eredità criminale (Steve McQueen), Le Mans '66 - La grande sfida (James Mangold) e Una famiglia vincente - King Richard del già citato Reinaldo Marcus Green.
[Jon Bernthal e il regista Reinaldo Marcus Green sul set di We Own This City]
Jon Bernthal è oggi uno dei primi della lista quando c'è da trovare il volto per un personaggio carismatico, moralmente ambiguo e minaccioso, anche fisicamente.
Personalmente ritengo possa rendere alla grande anche in altri ruoli - basti pensare al suo lavoro al già citato Show Me a Hero - ma a prescindere, in questa particolare categoria, è senza dubbio uno dei migliori sulla piazza e We Own This City ne è la conferma.
Per certi versi questa è l'interpretazione che mi sarei aspettato da lui ne I molti santi del New Jersey, film prequeleggiante (più che prequel vero e proprio) de I Soprano, nel quale però lo spazio riservatogli è stato ampiamente al di sotto delle aspettative.
Il suo personaggio in We Own This City è quello di un blasonato e rispettato poliziotto del dipartimento di Baltimora e, tramite il continuo ricorso ai salti temporali, ci viene di fatto mostrata tutta la sua parabola: dai primi giorni come recluta in pattuglia con il suo istruttore fino alla Gun Trace Task Force, la squadra speciale finita al centro dell'indagine.
Già in The Wire David Simon ci aveva mostrato il reale funzionamento di un dipartimento di polizia: budget esigui, attrezzature antiquate, infinite scartoffie, arresti annullati a causa di cavilli burocratici, personale demotivato e inferiore rispetto alle reali necessità, con il contorno di giochetti politici e carriere bloccate a causa di antipatie personali.
I problemi di We Own This City sono esattamente gli stessi del 2008 - l'anno della messa in onda dell’ultima stagione di The Wire - ma la corruzione e il razzismo sistemico radicati all'interno delle forze dell'ordine, temi comunque già trattati all'epoca, la fanno ormai da padrone e il discorso non può quindi che partire da lì.
[Wayne Jankins e i colleghi della Gun Trace Task Force di We Own This City interrogano un sospettato]
La storyline di We Own This City incentrata sulla divisione Diritti Civili si preoccupa proprio di far luce su questo punto, attraverso un'inchiesta parallela sulla polizia portata avanti tramite interviste alle vittime afroamericane degli abusi di potere e ai pochi agenti disposti a collaborare, a partire dal nuovo - ma già a rischio licenziamento - commissario del dipartimento.
Le loro testimonianze sono agghiaccianti e, nonostante si tratti ovviamente di attori pagati per interpretare dei personaggi che recitano delle battute, in certi momenti sembra di assistere più a un documentario che a un'opera di finzione.
La loro funzione in relazione all'indagine principale è di integrare e contestualizzare meglio il tutto, fornendoci ulteriori elementi riguardo l'ambiente nel quale gli agenti indagati sono emersi e hanno prosperato a lungo; al tempo stesso però, per quanto interessante, questa parte dello show appare a tratti fin troppo didascalica e scollegata dal resto del racconto al punto da farmi credere che We Own This City avrebbe potuto funzionare anche senza.
L'inchiesta sulla Gun Trace Task Force ci mostra invece uno spaccato importante e offre svariati spunti di riflessione sul mondo delle forze dell'ordine, a cominciare da un cameratismo portato talmente all'estremo dallo sfociare nell'omertà o addirittura nella complicità.
Puoi fermare, picchiare e perfino uccidere un sospettato senza una reale motivazione, perché sai che un collega sarà sempre pronto a manomettere la scena del crimine o a falsificare un rapporto e, anche nei rari casi in cui finirai nel mirino degli Affari Interni, il licenziamento sarà fuori discussione.
Rischi al massimo una sospensione, senza però perdere lo stipendio.
[Wayne Jenkins e i colleghi valutano se intascarsi qualcosa durante una retata in una scena di We Own This City]
Il Wayne Jenkins di We Own This City è il prodotto di una simile cultura e, partendo da questo livello di impunità, porta il discorso alle estreme conseguenze seguendo una prospettiva non dissimile rispetto a quella del collega Vic Mackey di The Shield.
Secondo la sua personalissima logica è consentito ricattare o perfino derubare i criminali, dal suo punto di vista colpevoli di vivere alla grande attraverso guadagni illeciti mentre i poliziotti rischiano la vita per un salario da fame.
Quelli confiscati ai criminali - quando non sottratti - sono soldi destinati ad ammuffire nell'archivio prove per dei mesi, se non addirittura per anni, quindi è giusto appropriarsene: Wayne è una sorta di versione distorta e moderna di Robin Hood che però vede sé stesso come uno dei poveri da aiutare.
Lo definiscono "cowboy", ma in lui c'è anche qualcosa del colonnello Jessup interpretato da Jack Nicholson in Codice d'onore: entrambi si vedono come l'uomo col fucile messo in cima al muro per proteggerci e non tollerano che i loro metodi vengano criticati.
[Il leggendario discorso del colonnello Jessup del film Codice d'onore]
We Own This City si apre con un suo discorso motivazionale ai cadetti dove lo sentiamo condannare fermamente la violenza definendola un intralcio al lavoro, fonte di cattiva reputazione e di cause legali.
Come qualità più importanti indica la conoscenza e la messa in pratica della legge, l'abilità di compilare un rapporto e la capacità di esporlo in maniera chiara.
Parole importanti e ineccepibili, ma in aperto contrasto rispetto a quello che gli vedremo fare durante la serie.
Da questo punto di vista è però altrettanto interessante l'inizio del monologo, decisamente più in linea con il suo pensiero reale:
"C'è gente là fuori che pensa che la brutalità della polizia sia quando la polizia ha la meglio, ma a quanto ne so io noi dobbiamo avere la meglio!
Se ci troviamo a batterci, fanculo i discorsi sulla brutalità. Se perdiamo lo scontro, perdiamo le strade".
Si considera intoccabile perché porta a casa un alto numero di arresti - vitali per migliorare le statistiche del dipartimento - e fino a quando continuerà a garantirli nessuno oserà mettersi di traverso.
Per comprenderlo basta la conclusione di un altro discorso motivazionale, fatto questa volta ai colleghi della Gun Trace Task Force:
"Saremo attivi e intraprendenti. Andremo a caccia, a caccia sul serio.
Troveremo pistole, perché finché succederà e saremo efficienti, finché sequestreremo non gliene fregherà un cazzo di quello che faremo, potremo fare letteralmente i nostri porci comodi, capite?
Ehi, questa città è nostra… è nostra!".
[Wayne Jenkins parla alle nuove reclute nella prima scena di We Own This City]
Il finale di We Own This City non lascia scampo e il fatto che alla fine Jenkins e i suoi complici siano stati arrestati non dovrebbe rassicurare affatto, perché il vero problema risulta essere il sistema che li ha generati e che continua a generare questa tipologia di agenti.
Più che di poche "mele marce" dovremmo proprio parlare di intere piante da abbattere.
David Simon e George Pelacanos dipingono un quadro davvero avvilente non solo nei confronti della polizia, ma anche della classe politica, legandole a doppio filo e descrivendo quest'ultima come assolutamente incapace di prendersi la responsabilità di riformare seriamente il sistema.
Impresa del resto troppo costosa e soprattutto troppo a lungo termine, del tutto inutile quindi per chi pensa solamente a farsi rieleggere.
Il risultato sono i tagli continui alla spesa per le forze dell'ordine, accettati a furor di popolo dall'opinione pubblica - del resto, la fiducia nei loro confronti è ai minimi storici - e un continuo scarico di responsabilità verso i predecessori, sia da parte di chi governa la città sia da parte di chi gestisce il dipartimento.
Tematiche comuni anche a The Wire, dove però questi temi venivano raccontati lasciando sempre almeno un filo flebile di ottimismo a cui aggrapparsi: le cose non vanno quasi mai come vorremmo, ma in qualche modo riusciremo a cavarcela.
L'immagine data da We Own This City è invece più quella degli Stati Uniti rappresentati come un edificio pericolante, ma nel quale si continua a vivere riverniciando una parete di tanto in tanto.
[Wayne Jenkins in manette accompagnato nella sua cella]
We Own This City è pertanto uno show in puro stile Simon: il numero di polizieschi nei quali ci si domanda quanto l'animo umano possa essere corrotto dal potere - rappresentato dal distintivo - è infinito, ma qui siamo saldamente ancorati al contesto reale, beneficiando tra l'altro di una scrittura impeccabile e di una verosimiglianza difficilmente riscontrabile in altri prodotti del genere.
L'eccessivo didascalismo della parte relativa alla divisione Diritti Civili può forse allentare un po' troppo la tensione, ma la storyline principale relativa a Wayne Jenkins e alla Gun Trace Task Force vale certamente il prezzo del biglietto o, per meglio dire, dell'abbonamento.
Il montaggio costituito da continui salti temporali all'inizio tende un po' a confondere, ma fondamentalmente non siamo davanti a una storia che necessita di essere raccontata in ordine strettamente cronologico per essere compresa: quello che importa ai creatori è mostrare il modus operandi e la reiterazione dei reati.
Menzione speciale anche alla direzione di Reinaldo Marcus Green per quella che definirei una regia invisibile, priva di virtuosismi e sempre al servizio della sceneggiatura; in grado di rallentare e accelerare in base all'esigenza del momento.
We Own This City è un poliziesco che però non vive di scene di azione dura e pura, centellinate il giusto in favore di quelle incentrate sui dialoghi e sui personaggi.
Vi rispettiamo: crediamo che amare in Cinema significhi anche amare la giusta diffusione del Cinema.