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Nel settembre 2007 prese ufficialmente avvio negli Stati Uniti quella che sarà poi definita come la più grande recessione economica mondiale dai tempi del '29.
Lo scoppio della bolla immobiliare e la crisi dei cosiddetti prestiti subprime innescarono una catastrofica reazione a catena, che in poco tempo portò al fallimento di banche e altri istituti di credito, lasciando sul lastrico milioni di piccoli-medi investitori.
Il film La grande scommessa di Adam McKay descrive bene il contesto storico e le premesse e origini della crisi, mettendo in evidenza come i segnali di una certa instabilità del mercato immobiliare americano fossero già ravvisabili nel 2005.
Quella americana è la società contraddittoria per antonomasia, nella quale la velocità di arricchimento può essere veloce tanto quella di caduta; è da sempre il paese delle opportunità, del mito, della seconda possibilità, ma è anche allo stesso tempo il paese che ha provocato le due più gravi depressioni dell’ultimo secolo e in cui le disuguaglianze sociali non accennano a diminuire.
In più di un’occasione, il cinema è riuscito a registrare e a mettere in luce con discreta efficacia i grandi paradossi insiti nella società americana sin dai suoi albori. Basti pensare alla fortuna che ebbe il lungo filone del Vietnam-Movie tra gli anni ’60 e ’70, che attraverso la guerra mirava ad analizzare una nazione intera, che proprio in quel periodo cercava di mutare faccia ed evolversi grazie alle marce per i diritti, ai discorsi motivazionali di John Fitzgerald Kennedy e di Martin Luther King, alla rivoluzione sessuale, al movimento di ribellione giovanile.
Di fatto, la New Hollywood americana nasceva proprio su questi presupposti, come specchio della nuova società e ideologia a stelle e strisce, e la rottura formale che era avvenuta nelle sale cinematografiche rispecchiava dunque quella che stava avvenendo nelle strade e nei grandi parchi delle città.
Allo stesso modo, oggi sono diverse le storie ambientate nella provincia americana povera, razzista e inclusiva, che più di tutti ha subito (e continua a patire) la crisi del nuovo millennio su suolo americano.
Il vantaggio delle crisi (di qualunque natura) è sempre stato quello di offrire agli artisti (cineasti, cantautori, pittori, ecc.) nuove occasioni e nuovi pretesti per la creazione di nuove opere, che rappresentassero/raccontassero con puntualità quel determinato periodo storico; in questo caso, gli anni di crisi e post crisi economica, dai quali l’intero paese è uscito profondamente mutato, ferito nell’animo e nell’orgoglio.
L’elezione di Barack Obama avveniva in concomitanza allo scoppio della crisi e aveva rinvigorito i focolai di speranza e fiducia di milioni di americani, che vedevano nel primo presidente di colore della loro storia il punto di svolta (forse) definitivo, già cercato di perpetuare da Kennedy mezzo secolo prima.
Era una pia illusione.
Il tracollo dell’economia, che si è tradotta con la perdita di case e posti di lavoro, ha lasciato un segno indelebile nella società odierna e non ha fatto altro che alimentare, ancora di più se ce ne fosse bisogno, la vena di odio e intolleranza che con fatica era stata in qualche modo frenata negli anni precedenti.
Come scritto più sopra, nei momenti storici più tragici il cinema diventa lente di ingrandimento e strumento di analisi, sempre puntuale a impressionare malesseri e sensazioni dei personaggi su schermo, che rispecchiano di fatto quelli della vita reale.
Vorrei concentrarmi in particolare su due film, usciti entrambi nell’ultimo lustro, che ho trovato perfetti nel mettere in mostra una società allo sbando, in cui si è perso ogni tipo di valore e in cui il dollaro, da sempre fine e traguardo ultimo della vita del cittadino americano medio, scatena delle vere e proprie guerre per la sopravvivenza del più forte e del più audace.
Il primo film è recentissimo ed è stato anche candidato agli Oscar all’edizione 2016: Hell or High Water, diretto dal britannico David Mackenzie e con protagonisti Chris Pine, Ben Foster e il grande Jeff Bridges, quest’ultimo nominato come Miglior Attore non Protagonista per il suo ruolo dello sceriffo Marcus Hamilton.
Secondo alcuni, questo film costituisce uno dei principali strumenti che spiegano il perché della vittoria (insperata o tragica, a seconda dei punti di vista) dell’outsider Donald Trump, colui che meglio di tutti ha saputo evidentemente parlare alla pancia del popolo, approfittando dell’evidente stato di povertà, confusione, disperazione e in certi casi (bisogna ammetterlo) di totale ignoranza di milioni di americani di provincia, dal Texas al Minnesota, dall’Ohio allo Utah.
Ci tengo a precisare che questo non vuole essere un giudizio politico (non è questa la sede opportuna per discuterne), quanto piuttosto un giudizio storico, che cerchi di dare una spiegazione a un avvenimento, la vittoria elettorale del “tycoon”, che ha certamente scioccato il mondo intero, soprattutto perché inatteso (o almeno, così pareva esserlo).
Ecco perché film come quello di Mackenzie costituiscono un’importante testimonianza di un mondo lontano da noi, ma che nasconde al suo interno disagi e inquietudini che al contrario non conoscono bandiere e confini.
Tra il drammatico e il thriller, con un’ambientazione western che riprende i paesaggi di Non è un paese per vecchi dei fratelli Coen, Hell or High Water ha come protagonista una coppia di fratelli texani: Toby, disoccupato e divorziato, e Tanner, ex detenuto, che decidono di compiere una serie di rapine nelle banche dello Stato per poter riscattare il pignoramento che pende sulla casa di Toby, in cui vivono ancora il figlio adolescente e l’ex moglie.
Già da questo accenno di trama è chiaro come venga in rilievo il contrasto tra i due uomini e le banche, che rappresentano simbolicamente l’eterna lotta tra due mondi, il popolo e i poteri politici-finanziari.
La banca si era impossessata dell’abitazione dell’uomo, il quale ricambia ora con la stessa moneta, scegliendo di rapinare esclusivamente istituti di credito e compiendo così una sorta di vendetta ideologica di categoria.
Sulle loro tracce c’è il Texas Ranger Hamilton, al suo ultimo incarico prima del ritiro e sin dall’inizio combattuto tra i propri doveri di uomo di legge e la consapevolezza di dare la caccia a uomini che, probabilmente, altro non sono che il frutto di un contesto drammatico molto più vasto, che ha ridotto in condizione di estrema povertà larghe fasce della popolazione.
Non ho intenzione di rivelare ulteriori dettagli della trama per non incorrere in possibili spoiler, ma mi limiterò a sintetizzare quella che è certamente la conversazione chiave di tutto il film, che avviene tra Hamilton e il suo collega di divisa Alberto Parker, di origini Comanche.
Parker riflette sul fatto che quello che è successo e che sta ancora succedendo (crisi economica, aumento della criminalità, ecc.) debba essere ricondotto sotto una questione di ritorni storici: come dice lo sceriffo nativo, tutta quella terra apparteneva in principio ai suoi avi, poi depredata dai colonizzatori europei e dalle neonate autorità statunitensi nell’ambito delle cosiddette guerre indiane. E oggi, i discendenti di quegli stessi uomini sono a loro volta e in modo beffardo vittime di un nuovo potere, quello del capitalismo finanziario, che li ha ridotti in miseria.
Cambia l’arma, prima era il grilletto di una pistola e di un fucile, ora la penna di un documento bancario, ma la sostanza è la stessa: ieri come oggi, l’America si dimostra un paese fondato e cresciuto con il sogno della ricchezza come unica aspirazione, anche a spese della libertà altrui.
Le banche stanno facendo ora all’uomo bianco ciò che l’uomo bianco fece con i pellerossa secoli fa; due aggressioni diverse, ma con i medesimi risultati tragici.
Ecco come si concretizza allora la circolarità della storia, secondo la pessimistica visione di Parker.
La riflessione di fondo comunque è cristallina: il capitalismo americano ha trasformato gli uomini in bestia, ha reso la povertà una vera e propria malattia e ha innalzato la banconota a unica autorità onnipotente.
A proposito di autorità, c’è un momento particolare nel film che ben evidenzia la frustrazione, ma soprattutto il risentimento che una certa fetta di popolazione nutre nei confronti delle istituzioni, qui impersonificate dalla coppia di sceriffi, visti appunto come complici della situazione drammatica in cui versano i cittadini. È il momento in cui Hamilton si reca in una tavola calda per fare qualche domanda alla cameriera, persona informata sui fatti e testimone delle azioni illecite di Toby e Tanner, ma che si vede poi negare l’aiuto dalla stessa, che preferisce al contrario schierarsi dalla parte dei due fratelli.
La ribellione silenziosa della donna è simbolo di un popolo che sta dalla parte dei criminali, come se si rendesse conto che in quel nuovo mondo contemporaneo l’avere dei valori e il rispettare le norme non è più sufficiente e ogni azione diventa lecita, se dettata dalla sopravvivenza.
Questo pessimismo cronico affonda le proprie radici direttamente nel già citato Non è un paese per vecchi, che per primo registrava uno smarrimento sociale, ben sintetizzato dal monologo finale del personaggio interpretato da Tommy Lee Jones.
In un ginepraio del genere, non esiste più una suddivisione manichea tra buoni e cattivi; sono tutti colpevoli e tutti innocenti, uomini, banche e polizia, tutti inghiottiti indistintamente nel vortice di violenza senza fine insita ormai nel DNA della provincia americana.
La ricerca dei due colpevoli da parte della polizia locale non è altro quindi che il pretesto con cui il regista ci mostra un paese ferito nell’anima, senza speranza, senza valori, senza futuro, e in cui l’unica forma di giustizia è quella auto-procurata.
Il cammino dei fratelli Howard ci mostra tutti i personaggi che sono il risultato di tale processo autodistruttivo: la reticente cameriera della tavola calda, il venditore di auto al quale non interessa la provenienza di una vettura (se sia rubata o meno), il direttore della banca al quale non interessa se ci sia o meno un colpevole, o che quel denaro che sta per entrare nelle loro casse sia sporco; perché l’unica cosa che conta è che si concretizzi un ritorno economico, un guadagno.
Il personaggio ben interpretato da Bridges è il più interessante di tutto film, perchè è l’allegoria di un animale ormai estinto, che prova a lottare ma che è allo stesso modo consapevole di aver perso una guerra che è molto più grande di lui e del suo specifico ruolo.
Hamilton è l’ultimo rappresentante di una generazione che ha pagato i suoi errori e che a causa di essi appare come inerme, impotente e vinto dinnanzi allo scorrere degli eventi. La sua pensione avrà un retrogusto amaro, come fosse consapevole che quel mondo che ha appena lasciato professionalmente (e ben presto fisicamente), è peggio di come l’aveva trovato. Con tali premesse, il futuro non può essere che nebuloso.
L’Academy deve aver apprezzato molto sia il tono della storia che il messaggio di fondo (più attuale che mai), al punto da averlo infatti incluso tra i nove titoli candidati a Miglior Film nel 2017 (statuetta vinta poi da Moonlight).
Il secondo titolo è Killing Them Softly del 2012, diretto dall’australiano Andrew Dominik e con protagonista un inedito Brad Pitt, sicario e mercenario cinico e senza scrupoli, ben affiancato da Richard Jenkins, Ray Liotta e dal compianto James Gandolfini.
Rispetto al sopracitato Hell or High Water, il film di Dominik appare nella messa in scena più freddo, distaccato, ma non per questo meno efficace nella morale.
L’intento comunicativo e il tono politico che si nasconde dietro la vicenda si fa già palese nei primi secondi del film, che si apre con un’inquadratura fissa sul viso di Barack Obama, raffigurato sui cartelloni elettorali.
Siamo nel 2008, poco prima delle elezioni: due giovani scapestrati, Frankie e Russell, decidono di rapinare una bisca clandestina gestita da un malavitoso locale. Il piano riesce alla perfezione ma l’evento, apparentemente isolato, provocherà un drammatico domino che coinvolgerà killer professionisti, mafia locale e uomini di potere corrotti: una triade che non può mai mancare, soprattutto quando la storia viene ambientata in un luogo in cui legge e istituzioni sembrano non aver alcun controllo.
È la fotografia tipica dell’America di provincia del sud, abbandonata a se stessa, come fosse un’entità distaccata dal resto della nazione.
Come per il primo film, anche qui cercherò di non dilungarmi nell’analisi dell’intreccio, in modo da lasciare allo spettatore la possibilità di un’integrale visione immacolata.
Aggiungo solo una personale considerazione (rischio SPOILER per chi non l’abbia visto) sul finale amarissimo, che riassume in una sola battuta la filosofia del nuovo “American self-made man” di inizio millennio, nonché l’intero contenuto di questo articolo, che esordiva appunto con una breve introduzione di carattere storico-sociale.
Mentre Obama parla alla televisione, sottolineando il significato del sogno americano e di come tutti i cittadini si debbano sentire uniti sotto la bandiera a stelle e strisce, all’interno di un saloon Jackie Cogan (Pitt) esige la parcella per i suoi servigi, rigettando la richiesta di sconto da parte dell’avvocato Driver (Jenkins), intermediario della malavita:
“Thomas Jefferson ha scritto delle parole per le quali sono morte un sacco di persone, e nelle quali lui stesso non credeva. Questo tizio ora in TV vuole dirmi che siamo una comunità? Non farmi ridere. Io vivo in America e in America ognuno è da solo.
L’America non è un paese, è solo business. E adesso pagami, cazzo”.
Quello descritto da Dominik è un mondo anarchico e individualista che non guarda in faccia nessuno; un mondo all’interno del quale per sopravvivere si finisce per diventare un predatore, ma non importa, perché la linea che separa i buoni e i cattivi si sta via via assottigliando ed entrambe le categorie guardano ai dollari verdastri con la medesima appetenza.
Non si può lasciar spazio ad un contraddittorio perché, in definitiva, l’America contemporanea ferita nell’animo è un mondo in cui le singole persone valgono meno degli affari, in cui l’unico Dio che governa la vita dei cittadini non ha a che fare con la religione ma con il profitto, e ciò che dà speranza al popolo in ginocchio è ben lontano dai discorsi ipocriti e sensazionalistici delle campagne elettorali.
L’unica cosa che conta è la stessa di cui parlano i personaggi per tutto il tempo della pellicola, dal primo all’ultimo minuto: il denaro.
Fine del sogno.
1 commento
Emanuele Cortellini
6 anni fa
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