#articoli
Leos Carax. Un nome, un'incognita.
Due parole con le quali la nostra cinefilia è costretta a scendere a patti, prima o poi, venendone talvolta respinta, talaltra attratta.
Uno pseudonimo che si fa interesse, mancanza e ossessione.
[Anche nell'aspetto apparentemente trasandato Leos Carax rappresenta il perfetto ritratto dell'artista schivo: occhiali scuri, cappello perennemente indosso, cappotto lungo e sigaretta sempre a portata di mano]
Sei soli film in quasi quarant'anni di carriera e quell'aura malinconica da genio schivo contribuiscono ad ammantare il fu Alex Christophe Dupont del mistero riservato ai grandi Maestri in grado di giocare con la propria assenza, di cibarsi del nostro desiderio di vederli all'opera.
Leos Carax è anche questo: un uomo che che odia dare spiegazioni, che ama nascondersi al mondo.
Lo stesso mondo sul quale si trova in costante conflitto, su cui parametra il proprio ruolo, a cui mente.
Tutta la carriera di Leos Carax è fondata su una menzogna: quella che lui stesso ammette di aver detto a diciott'anni quando, senza avere nessuno studio cinematografico pregresso, ha cominciato a ricercare i fondi per mettere in scena il suo primo film.
In quell'occasione, per la prima volta, Leos Carax si è sentito un impostore.
Ha sentito che stava cercando di occupare una posizione in un mondo che non gli apparteneva. Ma questa sensazione non l'ha fermato.
Anzi, è divenuta motore silenzioso di una filmografia fondata sul dubbio.
[Ascoltare Leos Carax parlare del suo Cinema è un'esperienza molto particolare, anche quando viene insignito di un premio importantissimo come il Pardo d'oro alla Carriera]
Fino a quel momento la sua era stata una vita da novello Antoine Doinel: a tredici anni aveva rinnegato il suo nome, attribuendosi quella strana identità che riecheggiava alla crasi tra il suo nome, Alex, e la parola "Oscar".
Due nomi e una lettera, la X, che torneranno inesorabilmente nella sua filmografia, che forgeranno inequivocabilmente l'immaginario attorno al suo Cinema.
Nella sua travagliata gioventù era solito "guadagnarsi" i suoi soldi rubando e rivendendo dischi di Iggy Pop e David Bowie ai compagni di scuola - esperienza che immancabilmente inserirà nelle sue prime opere - ma non era propriamente un amante del Cinema, malgrado la passione per la Settima Arte ce l'avesse nel sangue.
Sua madre, Joan Osserman-Dupont, era infatti una critica cinematografica per l'International New York Times e per l'Herald Tribune, mentre suo padre Georges Dupont era un giornalista scientifico.
Non ci è dato conoscere alla perfezione le dinamiche tra lui e la sua famiglia ma, stando a quanto ha fatto trasparire, il suo desiderio di recidere il cordone ombelicale con le sue origini si è palesato ben presto nella sua vita.
"Sono nato nel 1976, in una camera oscura.
Ed è stato molto difficile per me sopportare di essere nato ben prima, con un nome venuto fuori dalle scartoffie. Ho fatto il Cinema per essere orfano.
Prima di quel momento è come se avessi dormito per quasi diciassette anni."
Con queste parole, tra le sue più celebri, Leos Carax ha raccontato la sua seconda nascita, quella che lo ha portato a rigenerarsi nel Cinema.
[Per Leos Carax il Cinema è sempre stato affare della notte: i suoi primi film sono qui a dimostrarlo]
A catturare la sua attenzione è stata innanzitutto la "femminilità filmata".
Che si trattasse della debordante e mai volgare bellezza di dive inarrivabili come Marilyn Monroe o la più posata e intimista rappresentazione delle donne nella Nouvelle Vague, quel ragazzino è stato rapito dalla femmilità filtrata attraverso la pellicola.
Presto, però, è sopraggiunta la netta sensazione di aver trovato il proprio mondo.
Più che un mondo un'isola, come l'ha spesso definita: un luogo difficile da raggiungere, completamente isolato dal tutto il resto, eppure così suo.
Ha scoperto così il Cinema muto statunitense, il Cinema russo e tantissimi degli altri rivoli in cui la Settima Arte si dirama meravigliosamente.
[Serge Daney, autentico monumento della critica cinematografica mondiale, è sempre stato tra i maggiori ammiratori di Leos Carax]
Ecco cosa cercava Leos Carax quando, dopo soli due anni di cinefilia assidua, si avvicinò brevemente agli ambienti dei Cahiers du Cinéma, introdotto da due giganti della critica francese come Serge Daney e Serge Toubiana, conosciuti frequentando l'università di Parigi III.
Ecco cosa lo muoveva quando, malgrado un'apparente inadeguatezza, cominciò a cercare i fondi per il suo primo film, La fille rêvée, un progetto low-budget che si arenò quando il malfunzionamento di un faro causò l'incendio del ristorante cinese in cui stava girando.
Il suo primo approccio col Cinema non aveva dato frutti, ma per la prima volta aveva trovato qualcuno che credesse alle sue menzogne, che gli permettesse di dare sfogo alla sua inquieta vena poetica.
Così, finalmente, un Leos Carax nemmeno ventenne riuscì a portare a termine il suo primo corto, Strangulation Blues.
Un'autentica epifania.
Un cortometraggio che dice tantissimo sulla spontaneità con cui il Cinema sgorga dalla sua mente.
[A 20 anni Leos Carax si inventò una perla simile]
Il corto racconta una notte apparentemente placida vissuta da una coppia: Paul e Colette.
I due si sono fidanzati quando al liceo, facendo una foto di classe, si sono resi conto di formare insieme "la coppia più bella del mondo".
Quella notte, però, Paul medita di strangolare Colette nel sonno, perché lei "non è in grado di ispirargli neanche una dannata inquadratura": una cosa insostenibile per un giovane regista ambizioso come Paul.
Si materializza così, sgradevole e violento, quel senso di impostura che Leos Carax ha sempre percepito nei confronti del proprio contesto di riferimento, quell'inquietudine che lo ha sempre portato a interrogarsi sul suo ruolo nel mondo.
Pur non avendo alcuna formazione tecnica, pur frenato da un impianto di sceneggiatura per sua stessa ammissione involuto e acerbo, pur alla sua prima esperienza nella gestione di un set, in soli diciassette minuti Leos Carax mette subito in chiaro quanto il suo Cinema sia puro e viscerale.
Si tratta di un gesto spontaneo, quasi un istinto barbaro e inspiegabile.
Una sorta di pulsione infantile, in cui ogni separazione tra opera e autore viene azzerata, in cui converge tutta la personalità del regista.
Ecco dunque che l'opera viene permeata da quegli elementi che hanno trasformato il giovane Alex in Leos Carax: il bianco e nero, i voice over narrativi e riflessivi, l'atmosfera densisissima e i movimenti di macchina lenti e calibrati sono tutti elementi ripresi dalla Nouvelle Vague, l'uso dei cartelli è lascito del suo amore per il Cinema muto.
I due protagonisti non comunicano, sono compartimenti stagni di un quadro che li ha giustapposti solo per la loro perfezione estetica.
Il corto è figlio della sua duplicità: un titolo inglese e un animo fortemente francese, elementi ricorrenti della sua filmografia.
In sottofondo si può chiaramente distinguere la marsigliese e il film si apre con l'eloquente frase:
"Esterno-Notte. Paul. 1 A.M.
Una notte molto parigina. Non un 'Effetto notte' americano"
[Quanto della Jean Seberg di Fino all'ultimo respiro c'è in Colette? Considerando l'amore di Leos Carax per Jean-Luc Godard, non poco]
Ma in Strangulation Blues si segnalano anche le prime comparse di alcuni tratti di fortissima riconoscibilità: le panoramiche - probabilmente riprese dal Cinema di Claude Lelouch - sulla città ripresa da un mezzo, la necessità di impiantare l'intera opera sull'arte del proprio protagonista, l'assoluto distacco delle sue donne dal mondo in cui vivono i suoi personaggi.
Quello di Anne Petit-Lagrange è un ruolo etereo, al contempo indifeso e inscalfibile rispetto al furore artistico di Paul: il suo personaggio porta - guarda caso - il nome delle protagoniste di uno dei corti più celebri di François Truffaut, vive di gesti misurati, è animato da un sentimento purissimo.
Tutto ciò che è becero a questo mondo non la riguarda.
Strangulation Blues vinse il Gran Premio al Festival Internazionale del Cinema Giovanile di Hyères nel 1981 e permette al suo giovanissimo autore di essere conosciuto e apprezzato: dopo un solo cortometraggio per Leos Carax era già arrivato il momento di mentire più in grande.
[Denis Lavant è figura chiave della filmografia di Leos Carax sin dai tempi di Boy Meets Girl: i due non sono mai diventati davvero amici, malgrado Lavant rappresenti un autentico alter ego dell'autore]
Ancora una volta, Leos Carax pensò più volte di abbandonare il progetto del suo lungo di esordio: per circa un anno ha cercato senza successo un attore che potesse incarnare il protagonista.
Probabilmente in quei giorni maturò la tendenza - comune a tanti autori- a voler lavorare con un gruppo compatto di figure ricorrenti. La ricerca dei suoi collaboratori è, probabilmente, la fase del suo processo creativo che trova più sfiancante e frustrante.
Poi, però, quasi per caso e grazie a una foto si è imbattuto nel più celebre dei suoi sodali, Denis Lavant: era semplicemente perfetto.
Suo coetaneo, stessa corporatura esile, stesso talento informe. Nessuno dei due era reciprocamente certo dell'altro al momento della prima collaborazione.
Lavant non aveva compreso esattamente in quale direzione dovessero evolvere il film e il personaggio, trovava la sceneggiatura abbozzata.
Carax, invece, era sfiduciato dalla ricerca infinita e attratto dalla sua fisicità, ma non smetteva di nutrire dei dubbi sulla sua scelta.
La soluzione di ogni dubbio è stata l'unica possibile in quel contesto: fidarsi reciprocamente l'uno dell'altro.
Sul ruolo della protagonista, invece, nessun dubbio: per la prima volta, come a lungo accadrà nella sua carriera, Leos Carax affiderà il ruolo principale alla sua compagna, Mireille Perrier.
[Mireille Perrier è stata la prima compagna-musa che Leos Carax ha affiancato a Lavant: anche su questo aspetto l'attore si è, di tanto in tanto, soffermato nelle sue interviste]
In Boy Meets Girl il diaframma tra opera e autore viene completamente abbattuto, a partire dai nomi dei protagonisti: il film narra la parabola di un aspirante regista di nome Alex, dedito al furto di dischi e alla vita notturna, che dopo esser stato lasciato dalla sua ex, Florence, si innamora della bella attrice Mireille, venuta dalla provincia e a sua volta abbandonata dal suo ragazzo Thomas.
La pellicola presenta numerosi elementi di contatto col suo primo corto: ancora una volta il bianco e nero, ancora le panoramiche notturne sulla città, ancora una protagonista eterea che sembra levitare sul suo mondo.
Un'altra storia d'amore tanto scomposta e intrisa dalla sensazione di morte quanto fondata sulla perfezione teorica dell'incastro tra i suoi protagonisti.
[I difetti di comunicazione permeano Boy Meets Girl dall'incipit al finale, regalandoci anche qualche sconfinamento ironicamente cinefilo che difficilmente potremo dimenticare]
Un'altra storia di impostura e incomunicabilità: Alex teme di diventare un fallito, di non essere nessuno, fatica a essere compreso da ciascuno dei personaggi che incontra durante il film e sua volta spesso non coglie le reali sensazioni di Mireille.
Per la prima volta Leos Carax ha la possibilità di collaborare anche con Jean-Yves Escoffier, il direttore della fotografia che più di tutti segnerà la sua filmografia, permettendogli di raffinare una cifra tecnica che diventerà man mano iper-riconoscibile.
Boy Meets Girl vince il Prix de la jeunesse al Festival del Cinema di Cannes 1984 e vale a Leos Carax una nomination ai César come Migliore Regista Esordiente.
A questo punto è evidente a tutti: quel ventiquattrenne cresciuto nei sobborghi di Parigi era il nuovo enfant prodige del Cinema francese.
[Se fosse possibile individuare un momento in cui il mondo si è accorto di Leos Carax potremmo identificarlo con questa scena: David Bowie ne ha segnato l'infanzia e il debutto cinematografico]
Gioventù, sfrontatezza e poesia. Un regista pronto al successo non ha bisogno di altro per affrontare di petto la paura del ridicolo fino ad azzerarla.
Tenendo fede al più volte da lui citato aforisma di Jean Cocteau secondo cui "All'impossibile siamo tenuti", Leos Carax si avventura nella produzione del suo secondo, temerario, film: Rosso Sangue.
Il titolo originario, Mauvais Sang (lett. cattivo sangue), viene dall'omonima poesia di Arthur Rimbaud, contenuta nel poema Un saison en enfer.
[Il trailer di Rosso Sangue, edito in occasione della sua riproposizione al New York Film Festival 2013]
Potentissimi riferimenti letterari e musicali, dunque, continuano a pervenire sull'isola cinematografica di Leos Carax, pur senza che egli se ne appropri del tutto.
Il suo mondo resta il Cinema, anche se la fine della sua cinefilia sfrenata corrisponde, per sua stessa ammissione, proprio con l'inizio delle riprese del suo secondo film.
Delle riprese che, purtroppo per lui, gli tatueranno addosso l'etichetta di "regista maledetto".
L'aforisma di Cocteau diventa per lui un'ossessione, al punto di costringere spesso l'intero set nell'immobilità: le dodici settimane di riprese inizialmente previste divennero trenta, gli 11 milioni di budget divennero 15.
Le scenografie vennero interamente ricostruite in teatri di posa dal fenomenale scenografo Michel Vandenstein.
[Questo primo piano di Julie Delpy è una delle immagini più iconiche della filmografia di Leos Carax e, più in generale, del Cinema d'autore mondiale]
Una giovanissima Julie Delpy subì sul set un grave incidente in moto per il quale non fu immediatamente curata, al fine di riscuotere con successo l'assicurazione.
Le cure tardive, a detta dell'attrice, hanno addirittura portato la sua gamba a incancrenirsi: si sfiorò l'amputazione.
Il risultato di questa travagliata lavorazione è, però, a dir poco magniloquente, così come il primo approccio di Carax con il colore.
Sul lavoro fatto da Jean-Yves Escoffier sulle luci, sulla composizione dei quadri, sui movimenti di macchina e sulla selezione cromatica di Rosso Sangue, sarebbe possibile scrivere interi manuali.
L'uso dei tre colori primari, del bianco e del nero rimoderna l'intera estetica del polar francese, innervandolo con punte di lirismo mai raggiunte.
[Un saggio della perfetta comunione di intenti tra Carax, Lavant ed Escoffier, sulle note di Modern Love di David Bowie: una scena a dir poco iconica]
L'impianto di scrittura del film, al contempo, si era irrobustito parecchio rispetto all'esordio, disegnando le traiettore dei personaggi, dettagliando le loro azioni, strutturandone le reazioni.
Denis Lavant anche questa volta fu dubbioso sulla possibilità di accettare il ruolo. Il motivo, però, stavolta era opposto rispetto a Boy Meets Girl.
Se per il primo film Carax sentiva di aver usato il debordante talento fisico del suo attore al di sotto delle sue possibilità, nella sua opera seconda di certo non si risparmiò.
Rosso Sangue aveva una sceneggiatura di difficilissima realizzazione, in cui il protagonista - che guarda caso si chiama Alex - faceva un sacco di cose ai limiti dell'impossibile per Lavant che, ovviamente, si fidò nuovamente di Leos Carax e accettò il ruolo.
[In Rosso Sangue Carax immaginò per Denis Lavant un personaggio che svaligiasse strutture blindate, corresse in moto e si tuffasse col paracadute: l'attore, però, a quei tempi non aveva neanche la patente]
L'opera ruota attorno a lui, giovane criminale inquieto e desideroso di lasciare il segno nel mondo.
Alex viene chiamato da Marc, gangster amico del suo defunto padre, per cercare di compiere un furto epocale: rubare il siero che permetterebbe al mondo di ricavare l'antidoto contro una misteriosa malattia che colpisce coloro che hanno rapporti sessuali senza amarsi.
Dopo aver lasciato la sua fidanzata Lise, dunque, Alex segue Marc ma si innamora della sua compagna, Anna.
Il tutto nel surreale contesto creato dal passaggio della Cometa di Halley, che rende il mondo soggetto ad assurdi sbalzi climatici.
Il cast è innervato di volti noti quali Hugo Pratt, Hans Meyer e Mireille Perrier.
La prima delle grandi star francesi a lavorare per Leos Carax fu Michel Piccoli, interprete perfetto di un ruolo ricalcato sulla tradizione del Cinema noir, ma ancora una volta a risplendere è la purezza dei due personaggi femminili: Lise, interpretata da Delpy, e Anna, che aveva il volto della nuova compagna di Leos Carax, una lanciatissima Juliette Binoche.
Anna e Lise sono rispettivamente motore narrativo e deus ex machina dell'opera, volti opposti della stessa innocenza.
[La presenza e il talento cristallino di Juliette Binoche saranno centrali nella vita e nella carriera di Leos Carax]
Le trovate drammaturgiche di ambientare il tutto in un clima sospeso, che ondeggia tra il caldo afoso e il gelo artico, e di riversare la nascente paura verso l'HIV in di un virus che colpisce chi usa il proprio corpo come mero mezzo di piacere, senza sentimento, sono tra le più riuscite dell'intero decennio cinematografico.
La vitalità giovanile intrisa di malinconia che permea i primi piani, le corse in macchina e in moto e i colpi del protagonista è al contempo forsennata ed elegante.
In quest'opera Leos Carax declina ancora una volta i temi dell'incomunicabilità e dell'impostura mostrando al mondo la potenza della propria poetica, nel suo senso etimologico: crea un mondo lirico, con delle regole autonome.
Eppure, però, ai tempi qualcuno si levò contro l'opera e il suo autore, definendoli qualunquisti e reazionari perché non vicini ai moti giovanili che in quei mesi incendiavano Parigi e non schierati sul nascente tema della prevenzione dall'AIDS.
La grandezza del film, comunque, non sfuggì ai suoi contemporanei: la pellicola vinse il Premio Alfred Bauer al Festival di Berlino e il Premio Louis Delluc in patria, entrambi storicamente dedicati alle opere in grado di apportare profonde innovazioni tecniche alla Settima Arte, e venne inserito al quinto posto nell'annuale classifica dei migliori film dell'anno dai Cahiers du Cinéma.
[Oltre a fare due cameo in due suoi film, Leos Carax apparirà in altre sette pellicole come attore]
A quel punto anche uno dei suoi più grandi modelli, Jean-Luc Godard, voleva lavorare con lui e gli offrì il ruolo di Edgar nel suo contorversissimo King Lear.
Il prodigio si era ripetuto: Leos Carax era ormai sulla cresta dell'onda.
Da enfant prodige a enfant terrible, però, il passo è davvero breve: il suo successivo progetto era lì pronto a dimostrarlo.
La storia della lavorazione de Gli amanti del Pont-Neuf sembra seguire una logica produttiva fuori dal tempo, più vicina ai kolossal di Abel Gance che al contesto cinematografico francese a lui contemporaneo.
Leos Carax pensò al film dopo aver visualizzato una singola immagine poetica: due amanti che, abbracciati, si tuffano nella Senna da un ponte.
La semplice idea di voler girare su un ponte in pieno centro a Parigi impediva di poter pensare a un piccolo film, come inizialmente Leos Carax aveva fatto dopo le fatiche di Rosso Sangue: urgeva aggiungere circa 5 milioni di franchi ai 10 stanziati in un primo momento per l'opera, al fine di ricostruire scenograficamente il ponte eponimo su uno specchio d' acqua a Lansargues, nei pressi di Montpellier.
[Il fervore artistico e la dedizione di Leos Carax, Juliette Binoche e Denis Lavant saranno pilastri fondamentali per la perfetta riuscita di una delle opere più titaniche della storia del Cinema mondiale]
Originariamente, infatti, Leos Carax aveva ottenuto i permessi per girare le scene diurne sul vero Pont-Neuf, per tre settimane, dal 25 luglio al 17 agosto 1988, mentre la copia dello stesso doveva essere funzionale alle scene notturne.
Provando uno dei numeri che avrebbe eseguito durante il film, però, Denis Lavant si recise il tendine del pollice destro: tre mesi di stop e la necessaria riabilitazione frenarono l'intera produzione, lasciando scadere quasi inutilmente il termine ricevuto.
L'assicurazione pagò ai produttori Philippe Diaz e Alain Dahan ulteriori 15 milioni di franchi, non senza che questi ultimi provassero a fare pressioni su un irremovibile Leos Carax, spingendo per un cambio di attore.
Il film a quel punto necessitava di una ricostruzione scenografica ben più imponente e aveva ottenuto ulteriori 10 milioni di budget per permettere a un monumentale Michel Vandenstein di ricostruire l'intero, iconico, lungosenna nei terreni affittati attorno alla scenografia da lui appena costruita.
Dagli originari 10 milioni di budget si era già passati a 40, senza che le riprese fossero neanche iniziate.
[Tutto il lungosenna, compresi i riconoscibilissimi magazzini Samaritaine, è stato ricostruito grazie al lavoro di 250 tecnici, non senza intoppi: inizialmente la copia del Pont-Neuf risultava più alta dell'originale.
Una volta ultimata la ristrutturazione, lo stesso Leos Carax e i membri principali della crew hanno pagato di tasca loro un guardiano perché sorvegliasse la scenografia]
L' 8 agosto 1988 cominciarono finalmente le riprese, ma i temporali settembrini devastarono il set costringendo le assicurazioni a recedere, le lavorazioni a interrompersi nuovamente e l'intero girato (circa 40 minuti) a venire sequestrato.
Solo nel giugno 1989 il producer svizzero Francis Von Buren decise di investire circa trenta di milioni di franchi per portare a termine l'opera, probabilmente non avendo chiaro che l'esborso necessario era ben più alto: due mesi dopo, infatti, scelse di abbandonare il progetto, scoraggiato dalla mole produttiva.
Il produttore in grado di portare a termine l'opera fu Christian Fechner, che permise alle riprese di riprendere definitivamente il 22 agosto 1990.
L'opera, raggiunto il budget astronomico di 110 milioni di franchi, vide la luce solo nell'ottobre 1991.
Non prima che, al termine delle riprese nel gennaio dello stesso anno, il monumentale set venisse stato dato alle fiamme per volontà del proprietario del terreno.
Una sorta di esorcismo laico per una lavorazione così difficoltosa.
Fino ad allora Denis Lavant restò nel personaggio per l'intera durata delle riprese, arrivando a portare in giro per Parigi una sorta di spettro di quell'Alex che ancora non aveva visto la luce degli schermi.
Juliette Binoche, pur scossa dal peso della pressione, rinunciò al ruolo di protagonista ne La doppia vita di Veronica e a tante altre proposte da tutto il mondo per amore di Leos Carax e della sua arte.
I due termineranno la loro relazione poco dopo la fine delle riprese.
[A fine film, dopo l'ultimo titolo di coda, sullo schermo appare per qualche istante l'ultima dichiarazione d'amore di Leos Carax per la sua protagonista: A Luje, con amore - A.]
Leos Carax, nel mentre, ricevette solidarietà dai registi di tutto il mondo, compreso Steven Spielberg, riuscendo a gestire il tutto con insospettabile fermezza.
Al termine di questa odissea, infatti, ci regalò un capolavoro senza tempo: uno di quei film che condensano i motivi per cui il Cinema è nato.
Non a caso, il film è disseminato di omaggi ai modelli del regista, da Buster Keaton a Jean Vigo.
Gli amanti del Pont-Neuf porta all'estremo il Cinema di Leos Carax per come siamo stati abituati a conoscerlo fino a quel momento.
I protagonisti sono due artisti clochard: un acrobata mangiafuoco e una pittrice che sta perdendo la vista, Alex e Michèle che si innamorano nel duecentesimo anniversario della nascita della Repubblica Francese.
I due non solo non trovano un posto nel nostro mondo, ma sono anche costretti ad aggrapparsi a un loro microcosmo autodistruttivo: il ponte, l'alcolismo, la violenza per autodifesa, l'arte come unica via di fuga.
[Una delle sequenze più iconiche di un film che, malgrado l'accoglienza turbolenta, vinse 3 European Film Award, fu candidato a un BAFTA e venne inserito nella Top 10 annuale dei Cahiers du Cinéma]
Alex e Michèle sono due gargoyle, il Pont-Neuf è la loro Notre Dame. Due creature informi ma così pure, ancorate a un monumentale lembo di mondo, che guardano Parigi dalla loro prospettiva unica e irreplicabile.
La loro arte li rende incompatibili: i bagliori del fuoco sputato da Alex urtano la flebile vista di Michèle, le capacità come pittrice di Michèle si scontrano con il profilo arcigno e inafferrabile di Alex.
Lui non ha passato, lei viene da una famiglia abbiente che la cerca per regalarle un futuro.
La tendenza al tema classico di Eros & Thanatos, già emersa nel Cinema di Leos Carax, in quest'opera raggiunge vette inesplorate, mostrandoci gli aspetti più viscerali e respingenti di un sentimento che totalizza le scelte dei protagonisti.
La collaborazione tra regista, attore e direttore della fotografia raggiunge il suo pinnacolo artistico: Leos Carax distilla tutta la propria poesia nell'opera, Lavant le dà forma con la sua fisicità ed Escoffier ne governa le luci e le ombre.
[Un saggio della perfezione poetica raggiunta da Carax, Escoffier, Lavant e Binoche nell'opera]
I problemi con il film, però, non erano finiti al momento della chiusura dei lavori: l'intera Francia si era divisa sulla realizzazione dell'opera.
L'allora ministro della cultura Jack Lang si era mobilitato in prima persona per trovare i fondi che permettessero all'opera di vedere la luce e la cosa non poteva di certo lasciare la stampa indifferente.
Il settimanale L'Express calcolò che circa 80 dei 110 milioni di franchi spesi per il film fossero attinti dai fondi pubblici e, nello stroncare il film, ricordò al suo regista di avere avuto circa "13.470.354 produttori".
Al coro si unì anche Le Figaro che arrivò a dire che il film falliva il proprio obiettivo di "rilanciare il commercio del fazzoletto".
Fu dunque in questo momento che, malgrado un gran numero di voci esaltate dall'opera, si consumò definitivamente l'ormai proverbiale senso di distacco tra Leos Carax e il mondo del Cinema transalpino.
Un distacco netto e percepibile, che aveva portato una sua vecchia conoscenza come Serge Daney a identificarlo come uno dei nomi del Cinema francese da preservare.
Mai come in quegli anni, probabilmente, Leos Carax deve essersi sentito vicino all'amato poeta russo Osip Ėmil'evič Mandel'štam che del suo rapporto coi tempi diceva: “Di nessuno mai io sarò il contemporaneo”.
[Chissà che shock dev'essere stato, per chi attendeva aggiornamenti da Leos Carax, ricevere una risposta del genere]
Dopo ben sei anni, Leos Carax riemerge dal silenzio nel 1997.
Fa una comparsata nel film Namai di Šarūnas Bartas ma, soprattutto, torna dietro alla macchina da presa con Sans Titre, un cortometraggio di nove minuti commissionatogli dal Festival di Cannes in onore del suo cinquantesimo anniversario.
Il corto, al contempo, doveva ragguagliare il pubblico sulla sua condizione e sul suo successivo, misterioso, lavoro.
Quella che doveva essere una cartolina celebrativa si rivela, però, un inquietante telegramma sul suo rapporto con il pubblico e sulla distruzione della realtà attuata dal Cinema.
A inframezzare lo stesso, poi, frammenti di un film che ancora doveva vedere la luce e un cartello eloquente sul suo successivo progetto: Pola X, la sorella di Amleto.
[Sans Titre, tra le altre cose, ci mostra il volto della nuova musa di Leos Carax: Ekaterina Golubeva, probabilmente conosciuta proprio collaborando con il suo vecchio compagno Šarūnas Bartas]
La recensione del corto realizzata da Le Monde fotografa alla perfezione il sentimento comune nei confronti dello stesso:
"La risposta del regista- una folgorazione di 8' 37" senza titolo - ci rassicura innanzitutto perché testimonia l'intatta potenza di un autore che mescola virtuosismo, mistero ed emozione intima in un montaggio mozzafiato che intreccia la Storia del Cinema e quella del cineasta."
Il film anticipato nel corto è Pola X, tratto dal romanzo di Pierre Melville del 1852, Pierre ou Les ambiguïtés.
Il titolo deriva dall'acronimo del titolo e dalla lettera X, che indica tanto la stesura di sceneggiatura adoperata dall'autore per mettere in scena l'opera, la decima, quanto quell'elemento di indeterminatezza sull'identità della sua protagonista.
L'opera narra infatti la storia di un giovane e ricchissimo scrittore, Pierre, interpretato da Guillaume Depardieu, che vive una vita perfetta in una grande casa in campagna con la sua sorellastra interpretata da Catherine Deneuve.
Il tutto, però, viene completamente sconvolto dall'apparizione di una donna dall'Est Europa che dice di essere sua sorella, Isabelle, interpretata dalla sua nuova compagna, Yekaterina Golubeva.
[Il trailer originale di Pola X]
L'opera si apre, infatti, mostrando un bombardamento: Isabelle è il fantasma di una guerra lontana, l'eco di una parte di mondo che soffre mentre tutti sono indifferenti.
Le ormai classiche corse in moto e panoramiche cittadine sono state inglobate da una nuova dimensione onirica.
Le scelte di Pierre sono un climax autodistruttivo che lo portano alla completa separazione dal suo ipocrita contesto di appartenenza: l'ennesima rappresentazione di un tema caro a Leos Carax, esacerbato dal sempre più percepibile scollamento tra lui e il Cinema francese.
Malgrado si sia poi perso ogni riferimento a quel sottotitolo, Hamlet's sister, è intrigante immaginare che Leos Carax sia arrivato a un certo punto ad assumere questa prospettiva per adattare il romanzo di Melville: quando nella vita principesca di Pierre vi è l'ingresso del mistero legato a una sorella ignota, la follia comincia a prendere il sopravvento sulla sua vecchia routine.
[Tra gli aspetti più riusciti di Pola X c'è il rapporto costruito tra Pierre e Marie, sua sorella maggiore: un personaggio che incarna la seduzione di una vita agiata]
Pola X è un film di nuove collaborazioni per Leos Carax: oltre al cast completamente rinnovato, c'è da segnalare la colonna sonora composta da Scott Walker.
Il film segna dunque un'interruzione momentanea della sua collaborazione con Denis Lavant e quella definitiva del suo sodalizio con Jean-Yves Escoffier: al suo posto, comunque, un lavoro a dir poco egregio è stato fatto dal grande Éric Gaultier che si discosta dall'uso predominante dei tre colori principali fatto da Escoffier e inagura una nuova stagione del Cinema dell'autore.
La fotografia gioca infatti un ruolo fondamentale nel mostrare la discesa nell'oblio del protagonista.
Come lo stesso Carax ha dichiarato a un anno dall'uscita del film, infatti:
"Il film era pensato in tre parti.
Il primo capitolo, in campagna, era chiamato 'Nella luce'. Sentivo che questa sezione avrebbe dovuto essere luminosa: verde, come la natura, e bianca.
Ho fatto tingere i capelli dei miei attori di biondo e li ho vestiti di bianco.
Poi il film discende nell'oscurità e nella ruggine.
C'era una scelta consapevole di andare dalla luce al buio, dai 35mm ai 16mm."
[In Pola X Leos Carax riesce a mettere in scena perfettamente un vistosissimo processo di distruzione del fascino del personaggio di Pierre]
Anche a causa delle pesanti modifiche effettuate sul concept originale, però, Pola X sembrò l'ennesimo "film maledetto" di Leos Carax: un'etichetta ancora più triste se si considera il tragico destino dei suoi due attori protagonisti.
Sembrava quasi ci fosse un grosso bersaglio sulle spalle dell'autore: malgrado la rinnovata potentissima connessione tra sé e l'opera, la ricezione fu fredda e il film di scarso successo.
Una versione altervativa chiamata Pierre ou les ambiguïtés, divisa in tre episodi da un'ora, fu mandata in onda dal canale franco-tedesco arte a partire dal 24 settembre 2001, poi Leos Carax fece perdere le tracce di sé.
Seguirono otto anni di silenzio, se si tralasciano le quattro apparizioni in veste di attore tra il 2003 e il 2008 - tra le quali non può che segnalarsi quella in Mister Lonely del suo grande ammiratore Harmony Korine - e l'inquietante cortometraggio in Super 8 My Last Minute.
[Il fumo per Carax, come per la Uma di Tutto su mia madre, è stata la grande costante della vita]
Un nuovo respiro vitale alla sua produzione artistica arrivò inaspettato nel 2007, quando ricevette un'offerta per scrivere e girare liberamente un mediometraggio che sarebbe stato parte del film collettivo Tokyo!.
L'offerta dei produttori Masa Sawada e Michiko Yoshitake fu una sorta di risveglio dal torpore per un uomo che stava sempre più smettendo di sentirsi cineasta.
La semplice idea di girare in una città sconosciuta che, a causa della sua stessa legge, di solito proibisce le riprese all'aperto, eccitò enormemente Leos Carax.
“Questa volta sapevo ci sarebbe stato un certo budget, delle date delle location.
Avevo finalmente delle certezze.”
Tokyo! per lui, che si era innamorato del Cinema girando in analogico con una Mitchell, è anche il primo esperimento del suo rapporto di odio e amore col digitale.
A curare la fotografia fu scelta una nuova collaboratrice che diverrà ricorrente, Caroline Champetier, nome di assoluto riferimento per il Cinema d'autore europeo.
[Con la nuova DoP fa il definitivo ingresso nella filmografia di Leos Carax un colore che sarà sempre più dominante nei suoi lavori successivi: il verde]
"Ho girato talmente poco che se non avessi trovato questo slancio che definirei grottesco o comico o farsesco, sarei morto. Merde, che non è un lungometraggio e dura una quarantina di minuti, credo mi abbia fatto molto bene: da 20 a 30 anni ho fatto 3 film, da 30 a 40 anni ne ho fatto 1, da 40 a 50 ho fatto 40 minuti. Non andava bene. Dovevo escogitare qualcosa."
Per tornare più vitale che mai, aveva bisogno di affidarsi a pieno a quel sentimento viscerale che ne ha sempre pervaso la produzione, ma al contempo doveva portare il tutto alle estreme conseguenze, regredire all'infanzia.
Lo stesso tipo di regressione che, secondo Leos Carax, ha avuto l'intero mondo dopo l'11 settembre: un'involuzione che ci parla di bombe, odio sociale e giustizialismo.
Ecco spiegato il tono assolutamente farsesco del lavoro, ecco spiegata la necessità riabbracciare artisticamente l'uomo che meglio di tutti ha dato la fisicità al suo sentire poetico: Denis Lavant.
Merde, questo il nome del mediometraggio, racconta la storia di un uomo mostruoso - Monsieur Merde appunto - che emerge dalle fogne di Tokyo e la mette a ferro e fuoco, venendo condannato a morte.
La rappresentazione di una sorta di Godzilla umano che si muove assecondando le proprie pulsioni infantili e mette in ginocchio la rigidità dell'intero sistema giapponese ha stimolato Leos Carax a osare, mettendo in scena il burlesco e il terrore, la fobia e il gelo.
[Per Leos Carax Merde è il colmo dello straniero: un immigrato razzista, un mostro che non ama la gente ma ama la vita. Ecco perché è meritevole di un inno!]
L'indubbio slancio creativo derivante da Tokyo! gli permette di tornare a produrre con continuità: partecipa al lavoro collettivo 42 One Dream Rush e si parla addirittura di un sequel di Merde, chiamato Merde in the U.S.A..
“Ho pensato a una storia in stile La bella e la bestia, con Denis e forse Kate Moss.
Lui la rapisce a uno shooting fotografico e la porta nelle fogne.”
Un'idea che tornerà di certo buona, anche se il film non vedrà mai la luce.
Così come numerosissimi altri progetti di Leos Carax, tutti ambientati fuori dalla Francia, tutti su commissione e tutti frenati da problemi di budget e difficoltà nel casting.
[Con Holy Motors, Leos Carax dirige uno dei film imprescindibili del primo decennio degli anni 2000]
Un giorno, poi, Leos Carax vide una vecchia mendicante su un ponte di Parigi e pensò che non potessero esserci due esseri umani più distanti di loro due.
Pensò di farci un documentario, ma ebbe paura di metterci tutta la vita per realizzarlo. Decise, dunque, di fare un progetto di tenore esattamente opposto.
Quell'anziana sarebbe stata interpretata da Denis Lavant.
Fece dunque convergere ciascuno dei progetti nel cassetto con un'ennesima fonte di ispirazione: le limousine, che aveva ormai notato essere onnipresenti nel suo quartiere a Parigi quanto negli USA, e decise di "auto-commissionarsi" l'opera successiva, Holy Motors.
Alla vigilia del nuovo progetto, la vita sembrò accanirsi contro l'autore: Ekaterina Golubeva - sua compagna e madre della piccola Nastya, che all'epoca aveva solo 7 anni - fu trovata morta, probabilmente suicida, il 14 agosto del 2011.
Avrebbe dovuto essere parte del film.
Il Cinema è dunque divenuto per Leos Carax una forma di pura catarsi, oltre che un autentico rifugio.
Una fase di purificazione da cui si è levata un'ode, più potente che mai, in onore del Cinema stesso.
Un omaggio a tutta quella Settima Arte che aveva contribuito a renderlo l'uomo che è diventato: partendo dai suoi modelli - evidente e ripetuto il riferimento all'epocale Entr'acte di René Clair - e passando per i suoi vecchi film, i cui ricordi riecheggiano costanti nei nomi, nei luoghi, nelle parole e nelle azioni dei personaggi.
[Holy Motors si apre con Leos Carax che sfonda una parete di casa sua che porta dritto nel cuore di un cinema]
Già dall'incipit ci rendiamo conto di essere dinnanzi a una nuova fase della filmografia dell'autore.
Al posto della classica panoramica sulla città c'è un violentissima rottura della quarta parete, con lo stesso cineasta che si sveglia nella sua camera da letto e, attraverso una chiave connessa direttamente al proprio dito, apre una porta nascosta nel muro di casa sua ritrovandosi in una sala gremitissima e ignara della sua presenza.
Un'immagine di potentissima eloquenza che Leos Carax descrive così:
"Prima di tutto mi è venuta in mente quest’immagine di una sala cinematografica, grande e piena, nel buio della proiezione.
Ma gli spettatori sono completamente immobili, e i loro occhi sembrano chiusi.
Sono addormentati? Sono morti?
Il pubblico al cinema visto di fronte - cosa che nessuno vede mai (salvo nello straordinario finale di “The Crowd “di King Vidor).
Poi una mia amica mi ha fatto leggere un racconto di Jacques Hoffmann. Il protagonista scopre che la sua camera d’hotel dà, attraverso una porta nascosta, su una sala d’ opera.
Come nella frase di Kafka, che potrebbe servire da preambolo ad ogni creazione: "C’è nel mio appartamento una porta che fino ad adesso non avevo notato".
Ho quindi pensato di far cominciare il film con questo dormiente, risvegliato in piena notte, che si ritrova in pigiama in una grande sala cinematografica piena di fantasmi.
Istintivamente ho chiamato l’uomo, il sognatore del film, Leos Carax.
Quindi ne ho recitato la parte."
Chi è il regista se non un sognatore in grado, grazie alla sua potenza creatrice, di aprire porte fino a quel momento rimaste serrate?
Holy Motors parte da questa ouverture e si dipana lungo 24 ore nella vita di Monsier Oscar, proteiforme interprete degli infiniti copioni della vita.
Il suo spostamento è guidato dalla sua assistente, Céline, all'interno della sua limousine, nella quale si prepara come se fosse in un camerino.
Non c'è una semplice panoramica su Parigi dal suo interno: il film stesso è un viaggio nei luoghi e tra le anime di una città-contenitore universale.
[Questa immagine di Édith Scob, tra le più celebri di Holy Motors, fotografa perfettamente la visione futurista di Leos Carax: una donna senza volto in un mondo in cui le macchine hanno un ruolo imprescindibile]
Tutti i suoi tópoi tornano in tutta la propria potenza: il mondo è completamente ignaro del fondamentale ruolo dell'artista Oscar e ogni sua rappresentazione dell'amore, che sia romantico o paterno, è ammantata da morte.
La stessa morte perde i suoi caratteri definitivi e diventa evento di passaggio, snodo di superamento della propria identità.
In un incontro con il direttore interpretato da Michel Piccoli rivelerà di fare tutto ciò "per la bellezza del gesto".
Ecco, dunque, come Leos Carax mostra al mondo di aver intrapreso una nuova strada: l'artista ora segue una stella polare.
La bellezza del gesto è il motore sacro di un mondo futurista, in cui anche le macchine hanno un cuore e un pensiero.
[Holy Motors è l'ultimo grandissimo film della carriera di un gigante come Michel Piccoli]
Grazie a Holy Motors, Leos Carax aveva preso una nuova direzione ma era tornato. E poteva togliersi più di uno sfizio.
Innanzitutto, finalmente riuscì a ritagliare un ruolo rilevante per Édith Scob, che ne Gli amanti del Pont-Neuf aveva avuto una piccola parte ma al montaggio di lei erano rimasti solo dei dettagli: le mani e i capelli.
In secondo luogo girò finalmente la sua favola con protagonista Monsieur Merde interpretato direttamente da Oscar, che rapisce Eva Mendes e dà vita a una delle più belle sequenze dell'opera, quella che porta alla netta citazione de La Pietà michelangiolesca.
Inoltre conobbe un'artista che si innamorò follemente del suo talento: Kylie Minogue, che intona una canzone le cui parole sono a firma proprio dell'autore francese.
A proposito di musica, infine, ottenne da Gérard Manset la rarissima possibilità di usare una sua canzone: Revivre.
L'unica condizione era poter vedere la sequenza in questione al momento in cui veniva girata. A giudicare dal risultato, il cantautore dovrebbe aver gradito.
A fine film un'altra dedica, laconica e piena d'amore, alla sua ultima musa.
Il suo rientro al Festival del Cinema di Cannes è un trionfo: il film viene accolto come un capolavoro e vince nuovamente, a 28 anni dalla prima volta, il Prix de la jeunesse. Si tratta dell'ultima volta in assoluto in cui il premio è stato assegnato.
A fine anno, Holy Motors verrà inserito al primo posto indiscusso della top ten dei Cahiers du Cinéma, che a fine 2019 lo voteranno al secondo posto nella classifica del decennio.
[Tutti i corti di Leos Carax successivi a Strangulation Blues ripetono un canovaccio ideale: di immediato impatto e imperniati su un concept]
Il nuovo slancio vitale verso il Cinema di Leos Carax non si esaurisce, anzi: nel 2014 gira un intrigante cortometraggio, Gradiva, in cui si immerge a pieno in un esperimento con l'estetica pubblicitaria.
Nello stesso anno viene girato su di lui il documentario Mr. X a cura di Tessa Louise Salomé, al quale lo stesso autore fornisce il proprio contributo attivo, probabilmente contento del sottotitolo della stessa opera "A vision of Leox Carax".
Una visione di lui, non l'unica.
Solo una delle tante chiavi di lettura per un uomo che ha sempre ribadito l'importanza del concetto di ambiguità legato al suo lavoro.
Arrivato a questo punto, però, Leos Carax può finalmente mettere in scena un'opera in cui ci fosse, per la prima volta, una netta separazione tra sé e la narrazione. Dopo cinque film è arrivato il momento di dire addio ad Alex, a Oscar e alle sue muse-amanti.
Può finalmente dedicarsi a uno di quei tanto agognati progetti su commissione che non è mai riuscito a terminare.
Può finalmente girare lontano dalla Francia, non in inglese.
[Il trailer dell'interessante documentario dedicato a Leos Carax: Mr. X]
La proposta giusta arriva nel 2016, direttamente dagli Sparks, Ron e Russell Mael: sono loro a scegliere l'autore francese e a proporgli l'ambizioso progetto di Annette, un musical dall'impianto tragico per il quale avevano già scritto il soggetto e composto un numero enorme di canzoni (originariamente si parlava di circa 150 pezzi).
Per il ruolo dell'attore protagonista stavolta Leos Carax aveva già un nome ben chiaro in mente: si trattava di Adam Driver.
Il regista aveva notato il portentoso attore statunitense guardando la serie TV Girls - strano abbinamento, non trovate? - e aveva pensato:
"Questo sarebbe un bell'animale con cui lavorare."
Per gli altri ruoli, invece, si parlò di Rooney Mara, Michelle Williams e addirittura Rihanna ma, alla fine, la scelta ricadde su Marion Cotillard, perfetta interprete a cavallo tra le due anime che il film cercava di unire: l'intimismo del Cinema d'autore europeo e la grandeur hollywoodiana.
[L'idea animalesca che Leos Carax ha di Driver emerge prepotente nell'opera tanto mediante il soprannome del suo personaggio, "The Ape of God", quanto mediante il taglio estremamente fisico che dona alla sua recitazione]
Annette racconta della storia d'amore tra Henry ed Ann, uno stand up comedian di enorme successo e una cantante d'opera in rampa di lancio.
I due danno alla luce una bimba prodigio dalle sembianze di una marionetta, Annette appunto, in grado di cantare al chiaro di luna.
La bimba, più di tutti, si ritroverà a pagare le conseguenze derivanti dall'essere nata in un contesto simile.
Ancora una volta, nell'ouverture, Leos Carax porta a un avanzamento del discorso aperto con Holy Motors.
[Sulle note di "So May we start?", Leos Carax gira un pianosequenza che si rivelerà un teaser rispetto alle intenzioni e alle tematiche dell'opera: un pezzo di altissima scuola per aprire Annette]
Appare infatti in scena con sua figlia Nastya chiedendo "So...May we start?" agli Sparks, che rispondono cominciando a percorrere l'edificio fino a scendere in strada.
A loro si unisce il cast del film, capitanato da Driver e da Cotillard: i due pian piano indossano gli abiti di scena ed entrano nei rispettivi personaggi.
Al termine della sequenza Henry salta in sella alla moto a bordo della quale potrà rinverdire una delle immagini ricorrenti del cinema di Leos Carax, mentre Ann sale su un pick-up.
Nella scena successiva la stessa Ann, come una novella Oscar, guarda per un attimo al di fuori del finestrino: un ultimo sguardo alla nostra realtà prima che la stessa lasci spazio alla finzione filmica.
[Chissà come ha regito Leos Carax a questo divertentissimo blooper, occorso durante una delle riprese dell'intro]
Malgrado non sia nata dalla sua mente, l'opera si inserisce con coerenza tematica nella poetica dell'autore: si tratta dell'ennesima storia di amore, arte e morte della filmografia di Leos Carax, che incentra tutta la narrazione sul rapporto traumatico tra i personaggi, il proprio talento e quello di chi li circonda.
Idolatria, frustrazione, sfruttamento: l'arte pura che sgorga dai personaggi di Annette è perennemente imbrigliata da logiche asfissianti.
Se Henry è un personaggio estremamente terreno, con diversi sconfinamenti nel bestiale, Ann è invece interamente incentrata sui caratteri dell'etereità. Un'anima pura divenuta spirito di vendetta.
Una sorta di inversione nel processo che portava le Erinni a diventare Eumenidi nella mitologia greca.
[In Annette, Leos Carax si diverte a caratterizzare i personaggi anche mediante l'abbigliamento e i frutti preferiti: Ann veste spesso di rosso e ha sempre una mela a disposizione, Henry predilige il verde ed è ghiotto di banane]
La sensazione di un'inarrestabile discesa in un baratro di completa assenza di comunicazione, tanto tra loro quanto con il pubblico, è in perenne incombenza: ancora una volta la posizione degli artisti nel mondo diventa tema centrale del film.
I temi classici della paternità e dell'ereditarietà della colpa, dunque, si ammantano di nuove sfumature, trovando nella rappresentazione di una bambina-burattino una riuscita e funzionale metafora.
Se è vero che la scelta di mostrare un'Annette con le sembianze da manichino è dipesa dalla necessità di aggirare il problema di trovare un'attrice in età infantile grado di cantare e ballare, è altrettanto innegabile come la soluzione adottata incarni perfettamente lo stato di soggezione della bambina alle logiche crudeli dello sfruttamento del talento di cui parla il film.
[Grazie alla burattina Annette, commissionata a una bottega francese dopo una ricerca su scala mondiale, Leos Carax riesce a far convergere logiche produttive e necessità poetiche]
Complice il budget sostanzioso, Leos Carax non lesina virtuosismi e scende definitivamente a patti con il digitale, muovendosi senza mai cadere sul crinale dell'eccesso e mettendo in scena una fantasmagoria che tende la mano verso un'audience ampia ed eterogenea.
Si tratta del suo ritorno più acclamato.
Gli viene concesso di aprire il Festival del Cinema di Cannes 2021 e vince, in pompa magna, il Prix de la mise en scène. Per gli Sparks arriva invece il Disque d'Or per la Miglior Colonna Sonora. Qualche mese dopo, l'opera viene inserita al secondo posto nell'annuale Top 10 dei Cahiers du Cinéma.
Grazie a una distribuzione internazionale facilitata da piattaforme streaming quali Prime Video e MUBI, l'opera promette di avere vita lunga e tutte le potenzialità per spalancare al grande pubblico una finestra sul talento di uno dei più grandi autori degli ultimi quarant'anni di Cinema Europeo.
[Ovviamente Leos Carax non si è presentato sulla Montée des Marches di Cannes per ricevere il premio, lasciando che fossero gli Sparks a ritirarlo]
Non chiedetegli, però, di parlare troppo del processo creativo che lo ha portato a effettuare determinate scelte in relazione ai temi fondanti della sua filmografia.
Chi scrive ci ha provato, in occasione della presentazione dell'opera al Bif&st 2021, ricevendo la più classica delle risposte in stile Leos Carax:
"Non ne ho la minima idea.
Ecco perché odio queste sessioni di domande e risposte: perché se fosse per me ci sarebbero solo domande, nessuna risposta.
E poi dopo le domande arriverebbero i dubbi, i miei. Credo che in certe situazioni sia giusto lasciare il giusto spazio all'ambiguità."
Dopo l'ennesima dimostrazione della sua grandezza, non intendiamo in alcun modo interferire con questo bisogno di indeterminatezza.
All'estro introverso di Leos Carax chiediamo solo una cosa: di non costringerci ad attendere un altro decennio per conoscere la sua nuova opera.
Perché del suo modo poetico di raccontare arte, incomunicabilità e impostura avremo sempre bisogno.
Giù la testa
Ti è piaciuto questo articolo?
Sappi che hai appena visto il risultato di tanto impegno, profuso nel portarti contenuti verificati e approfonditi come meriti!
Se vuoi supportare il nostro lavoro perché non provi a far parte de Gli Amici di CineFacts.it?
1 commento
Jacopo Gramegna
3 anni fa
Rispondi
Segnala