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La caja - Recensione: terra e cielo, padri e patrie - Venezia 2021

Recensione del secondo lungometraggio di Lorenzo Vigas, da Venezia 78

Con La caja il venezuelano Lorenzo Vigas torna alla Mostra del Cinema di Venezia a sei anni dal grande esordio con Ti guardo; torna per inseguire un altro Leone d'oro ed espandere la propria riflessione estetica, morale e sociopolitica.

 

Chiude così la trilogia (non narrativa) della paternità aperta nel 2005 con un cortometraggio e sposta il proprio sguardo dalla vibrante Caracas al desolato e rurale Messico del Nord, ampliando il raggio d'azione rispetto al primo lungometraggio e potenziando, per l'appunto, quell'asse in grado di congiungere particolare e universale.

 

Lo fa seguendo da vicino e insieme da lontano - Desde allá - la parabola dell'adolescente Hatzín (Hatzín Navarrete), orfano che si reca nella regione settentrionale del paese per recuperare le spoglie del padre desaparecido, da poco recuperate in una fossa comune e raccolte nella fredda cassa del titolo.

 

Ritirati i resti, però, il giovane scorge di sfuggita, sulla strada di ritorno, un uomo che - come indicato nella sinossi ufficiale - risulta essere "somigliante al padre": desideroso di non lasciare in sospeso la questione e ancor più desideroso di colmare il vuoto genitoriale, il caparbio Hatzín riesce a costruire un altalenante e ambiguo rapporto padre-figlio con la figura interpretata da Hernán Mendoza.

 

[Il trailer di La caja]

 

 

Sul piano narrativo, Vigas e Paula Markovitch organizzano il materiale di partenza, non solo tale rapporto, con un controllo quasi eccessivo e con un distacco funzionale a inibire il giudizio morale del pubblico: date le ripetute ellissi che alterano la fruizione di vicende in sé semplici non si può certo parlare di banale linearità, ma è perlomeno una lieve ombra di schematicità e predeterminazione ad avvolgere l'opera in un modo che non pare volontario.

 

In ogni caso, il regista argina con successo (anche tramite la forma) il tipico processo di immedesimazione spettatoriale, celando inoltre tra le pieghe e le pause del racconto, al di sotto della soglia percettiva abitualmente stimolata, una serie di considerazioni di spessore.

 

Ciò che è solo sussurrato a costituire la vera spina dorsale del film, è ciò che è solo suggerito con tagliente delicatezza a (non) esplodere nell'aspro panorama di sfondo, che proprio di sfondo in realtà non è.

 

Il severo paesaggio dello stato di Chihuahua, pur immortalato in maniera diversa, richiama per parziale valenza simbolica, importanza tematica e orizzontalità quelle praterie solcate da Terrence Malick ne La rabbia giovane, e lo studiatissimo location scouting ("dieci luoghi diversi") pare confermare l'esistenza di una rilevanza non solo stilistica.

 

Il framing e la regia forniscono poi una potenziale chiave di lettura, comprensibile unicamente alla luce delle due principali problematiche morali e sociopolitiche sollevate dall'intreccio, a cui sarà dunque bene accennare.

 

In prima battuta, il menzionato discorso sulla paternità viene esteso a livello letteralmente continentale, con Vigas che vede la storica, quasi endemica, tendenza all'autoritarismo dell'America Latina come riflesso anche di un tessuto sociale composto da troppi nuclei familiari incompleti.

 

In secondo luogo funge da molla per due motivi l'impiego di Mario/Estéban, il presunto padre di Hatzín: egli dirige infatti una sorta di agenzia interinale che, sul confine della legalità, canalizza verso alcune aziende un flusso sotterraneo di lavoratori occasionali, ricorrendo a subdoli trucchetti burocratici o addirittura alla forza per soggiogarli.

 

 

[La cassa]
 

 

Questa terribile, quanto attuale, apoteosi di individualismo e neoliberismo illustra una corruzione morale diffusa e difficile da estirpare, e il fatto che in un'occasione Mario scarichi con semplicità la colpa di un crimine commesso sul male più noto che attanaglia quelle terre, il narcotraffico, palesa la distanza dalla proverbiale uscita dal tunnel.

 

Di conseguenza il progressivo e ambiguo coinvolgimento, con annessi dilemmi etici, di Hatzín in tali attività - tema centrale nell'intreccio - non è certo confinabile in una dimensione ideale di sola coscienza del singolo, nonostante ovviamente nel concreto filmico prevalga tale livello.

 

Segnalate queste due macro-problematiche, dunque connesse in profondità al contesto sociopolitico (messicano o latino-americano), possiamo chiudere la parentesi e riprendere.

 

Vigas si muove spesso in esterni caratterizzati da una netta e iconica binarietà costitutiva (terra e cielo), e alcune costanti formali paiono far coincidere in senso figurato - alla luce degli argomenti affrontati - contesto fisico, nel Chihuahua, e contesto in senso ampio, appunto sociopolitico.

 

In tal maniera, il rapporto fuoco/fuori fuoco e (soprattutto) l'esclusione di uno dei due elementi naturali dall'inquadratura assumono significato: il regista, che si concentra su Hatzín, insiste difatti nel rimarcare l'esistenza di una scissione tra personaggi e terra natia paradossale solo se vista in un'ottica attuale e materialistica.

 

Se la modalità di utilizzo della profondità di campo è facilmente intuibile, meno scontata è però quella che riguarda la composizione del quadro, con Vigas che decide con una certa sistematicità di escludere la linea dell'orizzonte, lasciando il protagonista avvolto dal solo cielo - sottolineandone anche la solitudine - senza ricorrere a contre-plongée accentuate o senza ricorrervi in toto.

 

 

[Hatzín Navarrete Hernán Mendoza sono Hatzín e Mario/Estéban]

 

 

Prima di chiudere cito in maniera elencatoria alcuni elementi che, oltre alla regia, sostengono l'austerità ricercata dal regista: assenza di colonna sonora, delicatezza cromatica delle ampie campiture fissate da Sergio Armostrong, rarefazione dei dialoghi, ricorso ad inquadrature ora ravvicinate ora molto ampie.

 

Li cito soltanto, dedicando l'intera recensione ai contenuti e al rapporto di questi con due dettagli di stile, per mostrare come a mio avviso La caja non sia un film formalista (in senso spregiativo) e/o vacuo, accuse mosse da parte del pubblico e della critica anche in riferimento a Ti guardo.

 

Chi ha letto anche uno solo dei miei articoli veneziani avrà capito l'importanza che attribuisco alla questione estetica, questione intesa nel senso di interazione (non solo di accordo) tra forma e contenuto che risulta ben soddisfatta nel secondo lungometraggio di Lorenzo Vigas, che probabilmente - e giustamente, in tal caso - non correrà per alcun riconoscimento di rilievo.        

 

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