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Come Atlantide di Yuri Ancarani, presentato nella sezione Orizzonti, anche Il buco di Michelangelo Frammartino si colloca in uno spazio artistico interstiziale, allargando non di poco - anche grazie al coraggio dei selezionatori - lo spettro tipologico delle pellicole presenti nel concorso principale della 78ª Mostra del Cinema di Venezia.
A 11 anni dal meraviglioso Le quattro volte, il regista milanese di origini calabre (che riflette pure sul rapporto Nord-Sud) firma il suo terzo lungometraggio per il Cinema, un'opera "underground" difficilmente incasellabile facendo ricorso in maniera dicotomica al tradizionale rapporto finzione-documentario.
Ponendosi nel solco tracciato da neorealismi - è da citare soprattutto Roberto Rossellini - post-neorealismi e nuove onde, Frammartino si immerge infatti nella parte più sfumata di quel continuum che connette, per l'appunto, finzione e documentario.
Alla stregua di Ancarani egli incorpora però anche un'attitudine estetica propria della videoarte, finendo per creare un superbo connubio audiovisivo, valorizzando e congiungendo proprio le due componenti essenziali del linguaggio cinematografico.
Il buco, ambientato nella Calabria del 1961, racconta due storie molto semplici dal punto di vista fattuale: quella - ispirata alla realtà - di un gruppo di speleologi piemontesi e quella di un umile pastore locale.
In quello che nel 1988 diverrà il Parco Nazionale del Pollino, i primi sono incaricati di esplorare e mappare per la prima volta il profondissimo Abisso del Bifurto, mentre il secondo vede la propria lineare esistenza turbata da un improvviso malore.
[L'Abisso del Bifurto]
Le due parabole (non) narrative scorrono lentamente e non si intersecano mai nel concreto, se non grazie all'intervento – provvidenziale in quanto filmico - del montaggio, parallelo e connotativo, curato da Benni Atria.
È una singolare sovrapposizione temporale a guidare idealmente Frammartino, che concepisce la pellicola accantonando la tradizionale nozione di sceneggiatura ("lo script per me non ha una funzione progettuale") e amalgamando, per la gioia di Søren Kierkegaard, spunti formali e concettuali.
Difatti "la prima società speleologica moderna, francese, nasce nel 1895, la stessa data del Cinema e della prima pubblicazione di Sigmund Freud che parla di inconscio.
Questa zona d'ombra di paesaggio e dell'uomo, il Cinema come strumento per indagarla, è una coincidenza che mi ha convinto a tentare il film".
Tale motivo rappresenta la profonda carica contenutistica della pellicola, e il fatto che sia il filmico - qualcosa di extra-finzionale - a sostanziarla rende chiara la rilevanza del discorso autoriale di fondo.
Il regista non cela affatto il proprio essere demiurgo, tenta invece di rendere attivo lo spettatore, di stimolarlo a livello diretto e indiretto, non fornendo facili chiavi di lettura né sul versante narrativo né su quello stilistico.
Se ne Il dono - esordio uscito nel 2003 - la cinepresa era rigidissima e in Le quattro volte le deviazioni si contavano sulle dita di una mano, ne Il buco la macchina da presa disegna anche numerose panoramiche, spesso plongée.
Panoramiche lente, iper-controllate e precise che evidenziano il distacco tra realtà e rappresentazione e che, seguendo gli speleologi dall'alto, amplificano il loro movimento discendente ovviamente anche metaforico, il loro inabissarsi in una grotta astratta e concreta che Frammartino definisce, in termini mediati, "un fuori campo assoluto".
In generale le lunghe inquadrature sono studiate con gran sensibilità, sfruttano la profondità di campo e tutta la scala dei campi e dei piani per equiparare personaggi, animali, inanimato e contesto, e per cercare di cogliere qualcosa d'altro.
[L'Abisso del Bifurto per Michelangelo Frammartino]
Quasi paradossalmente tale ricerca parte da un approccio estetico-produttivo vicino al documentario e votato a un certo tipo di realismo: infatti gli interpreti sono tutti non professionisti, la finzione viene inserita con estrema prudenza e permangono alcuni rimasugli dell'intento pseudo-etnografico e antropologico delle prime due prove del cineasta.
Nonostante ciò, o forse specialmente in virtù di ciò, Paul Schrader ha citato Frammartino nel suo recente Rethinking Trascendental Style, posizionandolo in un'ideale "cosmogonia" di quel Cinema contemporaneo allontanatosi dalla narrazione.
Partendo dall'immanente Il buco sfiora dunque il trascendente, attraverso scelte radicali che determinano sì una fruizione difficile, ma che generano anche una sinfonia dal sapore ancestrale - figlia di Franco Piavoli - da ammirare e contemplare, una sinfonia che per Alberto Barbera "ha la purezza di un diamante" e in merito alla quale vale la pena rimarcare l'apporto di alcuni collaboratori del regista.
Renato Berta - uno dei più grandi direttori della fotografia viventi - dipinge digitalmente una successione di tele dalla bellezza abbacinante, esaltando la danza sotterranea tra luce del fuoco e oscurità tanto quanto le composizioni superficiali dagli echi bruegeliani, mentre il sonoro accompagna questi dipinti senza ricorrere a musiche o dialoghi, celebrando invece il trionfo della presa diretta.
È però probabilmente il già citato montaggio, che istituisce pochi legami e ne suggerisce altri, che crea scarti e rime interne, a spiccare sul piano teorico e a consentire al regista di immaginare la pellicola come "una inquadratura con un taglio alla Fontana, in cui lo spettatore può cercare l'oltre nell’immagine" e - aggiungo - tra le immagini.
In tal maniera Il buco conferma Michelangelo Frammartino come uno dei più dotati autori dell'intera scena italiana e si erge come serio contendente per un premio in laguna.
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