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È stata la mano di Dio - Recensione: guardare avanti e indietro - Venezia 2021

Recensione dell'ultimo film di Paolo Sorrentino, da Venezia 78

Vent'anni dopo L'uomo in più, lungometraggio d'esordio, Paolo Sorrentino orchestra un trittico di movimenti a retrocedere per realizzare, con È stata la mano di Dio, un deciso scatto in avanti verso territori semi-inesplorati.

 

Torna innanzitutto alla Mostra del Cinema di Venezia due decenni dopo l'esordio, dopo pellicole su pellicole presentate in Costa Azzurra e dopo le recenti esperienze diegetiche in laguna di Youth - La giovinezza e The New Pope in cerca di un "nuovo inizio" cinematografico, e di un Leone d'oro. 

 

[Il teaser di È stata la mano di Dio]

 

 

Torna poi a Napoli, città natia comunque sovente richiamata dal punto di vista calcistico, soprattutto tramite la figura-icona di Diego Armando Maradona, che qui assume un ruolo concettualmente centrale, come indica il bivalente titolo.

 

E torna infine a rivivere, pur parzialmente e per interposta persona, la propria adolescenza, il suo sedicesimo anno di vita, segnato dal primo scudetto del Napoli - siamo nella stagione 1986/87 - e da un avvenimento ben più gravido di conseguenze individuali. 

 

Sommati insieme, questi tre fattori, questi tre movimenti, vanno a costituire quella che senza alcun dubbio è l'opera più autoriflessiva e personale del cineasta, tanto a livello di contenuti (dunque autobiografici) quanto di forma.

 

Paolo Sorrentino - come di consueto autore della sceneggiatura - mescola realtà, ricostruzione romanzesca e finzione, e decide di imbastire una struttura di fondo idealmente e sostanzialmente ondivaga.

 

È stata la mano di Dio è narrativamente spaccato in due da un tragico evento occorso al protagonista, Fabietto Schisa, alter ego del regista interpretato dal convincente Filippo Scotti, evento che innesca, tra le altre cose, una secca trasformazione stilistica.

 

 

[Toni Servillo e Filippo Scotti in È stata la mano di Dio]

 

 

Su quest'ultimo versante il segmento iniziale tende stranamente verso il convenzionale, seppur in termini relativi e con diverse eccezioni lampanti, mentre quello conclusivo rivela con forza un volto nuovo della poetica sorrentiniana.

 

Nella prima parte, infatti, la regia evita quel barocchismo emerso con vigore per la prima volta ne L'amico di famiglia e la messinscena diviene "semplice, scarna ed essenziale", determinando così un certo eclissarsi da parte di Sorrentino: come esplicita egli stesso, di fatto "la macchina da presa compie un passo indietro per far parlare la vita di quegli anni, come li ricordo io".

 

Possiamo anzi dire che - in un'ideale scala di invasività - questa macchina da presa arretra di ben due passi nella fase pre-trauma, lasciando alla luce del sole la sola (davvero?) narrazione.

 

Il cardine visivo e drammaturgico è Fabio/Paolo, "immobile" sedicenne dalla vita tutto sommato consueta che si muove perlopiù in un contesto familiare tranquillo: il nucleo composto da lui, il padre (Toni Servillo), la madre (Teresa Saponangelo), il fratello e la sorella è paradigma della classe media napoletana/italiana degli anni '80, con i suoi pregi e difetti.

 

Nel rappresentarla il regista partenopeo opta per uno stile in cui convivono acume, ironia e tenerezza, privilegiando dei toni da commedia ora brillante ora amara, efficaci soprattutto grazie all'ottima scrittura dei dialoghi, ai quali - specie considerando l'opera nel complesso e il suo intento - si può rimproverare solo un saltuario didascalismo.

 

Non manca invece, rispetto al solito, l'usuale corredo di personaggi secondari al limite della caricatura, che trascinano l'atmosfera generale verso il grottesco: come sempre il riferimento sono le indimenticabili maschere (di contorno solo se prese di per sé) forgiate dal genio di Federico Fellini, e per una volta, nella sua pellicola più introspettiva, il non-cinefilo Sorrentino esplicita metalinguisticamente tale legame.

 

Queste figure di sfondo non sono tuttavia sempre bidimensionali: quelle che possono vantare un percorso di pseudo-emancipazione - come la donna che sostituisce al turpiloquio una citazione dantesca - testimoniano in maniera ulteriore la variazione di prospettiva (prima di tutto emotiva) del regista.

 

Tali personaggi, inoltre, reggono talvolta linee narrative estranee alle vicende che interessano la famiglia allargata degli Schisa, e concorrono nel formare un fitto intreccio certamente non inteso in senso tradizionale, visto che la successione fattuale non è né rigida né preminente, ma vive piuttosto di quadretti che illustrano dei contesti (tra cui però non quello urbano) e delle psicologie precise, preparando in qualche modo il terreno.

 

 

[Paolo Sorrentino e Toni Servillo a Venezia 78]

 

 

Il segmento post-trauma, in cui assistiamo al riscatto ideale di alcune figure-satellite, abbandona infatti la commedia per approdare, con qualche sfumatura, al dramma, sulla scia di un evento che trasforma in definitiva l'opera in un "romanzo di formazione" appoggiato, come conferma Sorrentino, sui "sentimenti dell'epoca, più che [su]i fatti" o sulla pura trascrizione autobiografica.

 

Si impone una sinergia teoricamente interessantissima tra ritmo (montaggio e sceneggiatura), impianto formale di fondo, contesti spaziali/temporali/sociali e variare degli stati d'animo di Fabio (e dello stesso Sorrentino regista), con dei rapporti causali che cambiano estremi e direzione di volta in volta.

 

Si concretizza al massimo la sopracitata struttura ondivaga, che poggia le proprie basi sul superamento, inevitabile, di una dimensione privata di tipo familiare e che determina anche una significativa evoluzione scenografica, la quale tuttavia - è bene notarlo - produce anche qualche esito deformato (si veda l'appartamento della baronessa).

 

In genere è però finalmente Napoli a conquistare le luci della ribalta in È stata la mano di Dio, diventando sfondo vivo e intimamente connesso all'io lacerato del protagonista, e a ciò si lega un passo avanti (in termini di invasività, partendo dai due passi indietro della prima parte) delle ragioni stilistiche, passo contemporaneo allo sbocciare della passione di Fabio per il Cinema.

 

Sono presentate inquadrature più ampie, lunghe, essenziali e raffinate, mentre la regia acquisisce fluidità e la fotografia di Daria D'Antonio - che in esterni asseconda alla perfezione le condizioni atmosferiche - muta efficacemente: Sorrentino, assieme al suo team, edifica così il suo sfavillante "nuovo inizio" grazie a questo inedito mix di sobrietà, potenza visiva e profondità estetica (nel senso di interazione tra forma e contenuto).

 

E nel frattempo, di sfuggita, si autoritrae, aiutandoci a comprendere le sue radici artistiche e ontologiche e confezionando quello che in molti già stanno definendo - per analogia e non solo - il suo personalissimo Amarcord.

 

In ogni caso, stiamo di certo assistendo al volontario rinnovamento da parte di un autore la cui estetica distintiva ha probabilmente già toccato l'apogeo (La grande bellezza o Il divo) e palesato le proprie debolezze (This Must Be the Place o Youth - La giovinezza), estetica che ora si appresta a cedere il passo al nuovo, stimolante capitolo creativo inaugurato da È stata la mano di Dio.

 

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