#L'Autocheera
Ben ritrovati tra i sedili dell'Auto Che Era, la rubrica di approfondimento sul doppiaggio e dintorni.
Io sono l'Auto Che Era e sì, in questo momento siete dentro di me, quindi fate i bravi o vi querelo, che stando al sito CineFacts.it io sono piccina, quindi sareste ultrapedofili.
Oggi però non voglio parlare di traduzione, localizzazione, doppiaggio, distribuzione e quant'altro.
Oggi parliamo della recitazione, in particolare di quella nostrana.
E per rubare le parole di becco al buon vecchio Josè Carioca de I Tre Caballeros:
"Ah, l'Italia... è come un canto d'amore per me, un canto di sogno e nostalgiche armonie".
L'italiano è stata lingua di poeti, scrittori, è la lingua dell'opera.
Una lingua magnifica, che nella bocca della persona giusta si trasforma in pura emozione.
Ed è lingua, naturalmente, del nostro teatro.
Dei nostri attori.
Ed è proprio dei nostri attori che parliamo oggi, per via di un video articolo de La Stampa, a cura di Alessandra Comazzi.
Nella sua rubrica Cose Di Tele la signora Comazzi usa parole severe e di polso.
"Il problema della lingua nella televisione italiana e nelle fiction italiane è sempre importante, e spesso è mal risolto.
Nel senso che o si parla questo romanesco incomprensibile con un sonoro in presa diretta che fa sì che non capisca niente nessuno e tutti ci chiediamo se siamo diventati sordi, oppure si parla con delle false inflessioni dialettali che rovinano tutto il marchingegno.
Quindi: meno romanesco in televisione, più italiano classico dei doppiatori, timbrato e scandito (se non si sanno fare bene gli accenti)"
Sento già molti di voi trasalire a queste parole, ma esaminiamole con calma e cognizione di causa.
Una delle prime critiche che già sento arrivare è
"Eh certo, perché i doppiatori parlano italiano, eh?
Tutti impostati, finti, senza un difetto. È finto, artefatto, quello non è italiano!".
Amici miei, prendetemi la mano (o il tergilunotto), perché come nei migliori programmi per bambini abbiamo la parola del giorno!
La dizione.
La dizione, o ortoepia, è la corretta pronuncia della lingua italiana.
Quindi distinzioni tra vocali aperte e chiuse, le regole, le sue eccezioni, rimozione di qualsiasi inflessione dialettale e via dicendo.
Quello che invece voi additate ai doppiatori, non è la dizione, ma la prosodia.
Ovvero la corretta masticazione ed emissione delle parole.
Scandire bene tutte le sillabe di una parola, senza sporcature e sfiatazzi.
Se mettessimo insieme questi due elementi (e solo questi due) in una produzione avremmo un doppiaggio da reality (come quelli su Cielo, Fine Living o DMAX).
Ovvero una lettura leggermente interpretata, in simil-sync, dove ci sono tantissime cose da dire per un prodotto che nessuno guarda veramente con attenzione.
Se a questi elementi ci aggiungiamo la capacità recitativa, otteniamo il doppiaggio cinematografico e televisivo.
E ditemi che in Blade Runner il doppiaggio è uguale a quello di Fratelli in Affari.
Molte produzioni italiane scelgono un italiano corretto invece che ammantarsi di un accento: se il cast è talentuoso il risultato si vede.
L'italiano mette alla prova la bravura di un attore, al contrario del dialetto che maschera i difetti di molti sedicenti tali.
Il dialetto è come una comoda coperta che molti interpreti usano; una zona di comfort in cui le proprie lacune vengono nascoste da tutte quelle pieghe.
L'italiano corretto non lascia spazio al dubbio o all'incertezza: mostra quello che un attore è e quello che sa fare.
Un'altra critica che può giustamente arrivare è
"Ma se una storia è ambientata in un posto io voglio sentire che parlano con quell'accento e quei modi di dire!"
E qui sono pienamente d'accordo, ma bisogna prestare attenzione: la signora Comazzi dice appunto che, nella serie di cui stava parlando, il romanesco è giustificato per motivi di trama.
Stesso discorso si può fare con Gomorra, Romanzo Criminale, Suburra o Lo chiamavano Jeeg Robot: film e serie in cui la connotazione geografica di setting e personaggi è molto importante.
Ma in moltissime altre opere si usa un'inflessione dialettale, in particolare il romanesco, senza un vero motivo alla base e senza che questa particolarità geografica sia molto segnante.
Anche perché ci sono molte produzioni ambientate in altre città italiane in cui non è presente alcuna inflessione dialettale, mi vengono in mente Non Uccidere e Andata + Ritorno, ambientati a Torino, o Nero Wolfe, ambientata anche questa a Roma.
In questi prodotti non troviamo inflessioni, cadenze o termini dialettali, ma un italiano correttamente pronunciato.
Quindi perché?
Perché usare un dialetto o le sue inflessioni se poi alla fine non ci sono motivi validi di sceneggiatura per usarli?
Spesso e volentieri è per i motivi sopracitati, o per una questione corale.
Mi spiego.
Se in un'orchestra siamo tutti accordati su una determinata nota in una determinata ottava, nel momento in cui qualcun altro suona in una nota completamente diversa il coro ne risente.
Allo stesso modo, se tutti gli attori parlano in italiano e solo uno con una forte inflessione dialettale, stona.
E viceversa.
Ma per evitare che il prodotto che risenta, spesso sono gli attori che parlano in italiano corretto a doversi "sporcare" per non fare sfigurare gli altri attori o per non risultare "fuori dal coro".
In teatro c'è sempre una grandissima attenzione alla dizione e al dialetto.
Si richiede padronanza dell'uno e dell'altro in base alla produzione.
Forse è il caso che anche TV e Cinema prendano questa piega per fare le cose meno "alla carlona".
Quindi sottoscrivo: meno romanesco, più italiano. Grazie.
Dialetto sì, ma se giustificato.
Se un personaggio di origine milanese in una storia ambientata a Genova si mette a parlare romanaccio... beh, magari no.
Un'affettuosa suonata di clacson a tutti,
L'Auto Che Era.
10 commenti
Sam_swarley
5 anni fa
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Emanuele Cortellini
6 anni fa
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Luca Ernandes
6 anni fa
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David Marchese
6 anni fa
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ZERO
6 anni fa
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Wolvering
6 anni fa
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Alessio Blonda
6 anni fa
😉
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ZERO
6 anni fa
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Francesca O.
6 anni fa
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Lu
6 anni fa
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