#Goodnight&Goodluck
Buonanotte, amici della notte.
Poco importa di quale medium comunicativo-artistico siate appassionati: Musica, Cinema, Letteratura, Serie TV…
Il più grande problema di chiunque sia vittima di un amore/ossessione culturale è e resterà solo uno: il tempo.
Le realtà produttive e distributive che abbiamo attorno, iper prolifiche, variegate nei generi e nelle proposte, ci consentono di avere a disposizione praticamente tutto lo scibile umano.
Infinite piattaforme streaming, librerie online (addirittura gli audiolibri) e cataloghi musicali web sterminati ci insidiano, ci tentano, quasi fossimo davanti alla teca di una pasticceria colma di prelibatezze.
E, si sa, di fronte a tutto questo ben di Dio, spesso è facile perdersi nella scelta, rimanendo incastrati davanti a un monitor che ci fissa in attesa della nostra mossa. Di quell’impulso decisivo che ci spinga a cliccare “play” o “acquista”.
["Quanti film riuscirò a vedere quest'anno?"]
E qui - per fortuna - vengono in nostro soccorso testate editoriali, youtuber o semplici amici che conoscono il nostro gusto, tutti più che pronti a dispensare il consiglio giusto per il nostro palato.
E allora via, la lista dei prodotti di cui godere si allunga sempre più, la passione si trasforma in ossessione, in bulimia (cinematografica, nel nostro caso) dove la perdita di tempo da dedicare a opere imperfette non è contemplata.
I frame si accatastano, confondendosi fra loro, mischiandosi alle colonne sonore e agli interpreti che si rincorrono sui nostri schermi.
E il bello è che è facile rendersi conto del mischione che si forma nelle nostre teste: se non è davvero memorabile, nel giro di 3/4 giorni il ricordo di un film può dissolversi come lacrime nella pioggia, lasciandoci in eredità solo un’eco lontana.
Da bravo scolaretto quale sono, tenendo traccia di ciò che guardo, posso dire che lo scorso anno ho avuto modo di "assaggiare" oltre 200 nuove visioni.
E so che nella redazione di CineFacts.it c’è chi ha fatto di peggio.
“Di peggio”, già.
Perché questo numero, questa sovrabbondanza, non è per me motivo di vanto, simbolo del "guarda quanto ce l'ho lungo" cinefilo tristemente diffuso, bensì la constatazione di come la frenesia da visione e la necessità di “tappare la falla del Titanic con un tappo di sughero” mi abbiano ancora una volta sconfitto.
Duecento titoli sono uno sproposito.
Una meravigliosa cura Ludovico a ciclo continuo.
[Immaginatemi pure così, sul divano, fra briciole e Redbull, alla mia 37esima visione in venti giorni]
Procedendo a questo ritmo, un film non ha nemmeno il tempo di sedimentare, di agganciarsi al nostro cervello, perché il giorno dopo ci sarà qualcosa di nuovo da spingere dentro il cassetto della memoria.
E lo spazio non è infinito, la spugna si imbeve fino a un certo punto.
Poi comincerà a buttare fuori l’acqua con cui l’abbiamo gonfiata a forza.
Quanto tempo ho rubato alla lettura? Alla musica? Al gaming?
Probabilmente troppo ma, si sa, "this is the way".
La cosa più divertente è che di questi 200 esemplari finiti nella mia teca da collezione, ben 60 sono stati compressi in meno di due mesi, fra novembre e dicembre.
C’era un’urgenza, un compito: quello di proporvi il meglio dello scorso, tragico 2020.
Un manipolo di poveri pazzi della redazione ha approfittato della forzata distribuzione streaming da lockdown per visionare ogni titolo meritevole che gli passasse sott’occhio.
C’è chi ha pianto, chi è stato colto da attacchi di isteria e apparizioni mistiche, chi ha pestato i piedi strepitando, urlando “Vengono fuori dalle fottute pareti!” (siamo cinefili mica per niente) ma, sostanzialmente, abbiamo tutti goduto fino all’esaurimento dei sensi.
[Qui il momento in cui Jacopo Troise ha visto San Pietro sulla traversa del campetto sotto casa al terzo film asiatico "in gara" dopo una vita dedicata alla New Hollywood e al Cinema italiano classico]
Perché nonostante abbia - fra le altre cose - segnato il blocco della fruizione in sala, il 2020 è stato un periodo di Cinema spettacolare, qualitativamente mostruoso, estremamente variegato nella proposta tematica (dall'horror sociale alla fantascienza retrò, passando per il surrealismo metacinematografico) e nei paesi di produzione.
È stato un anno talmente generoso, multiforme e interessante nelle sue uscite da privarci della possibilità di segnalarvi e approfondire a dovere tutti i titoli incredibili che valeva la pena vedere.
Alcuni film sono stati votati da uno o due redattori, altri non sono stati nemmeno menzionati.
E questo è un crimine contro il lettore, contro chi cerca consigli in maniera assidua e forse, contro l’umanità intera.
Qualche esempio?
Two/One, Fireball: messaggeri dalle stelle, La vita nascosta - Hidden Life, Dick Johnson è morto, Vitalina Varela, Promare, Monos - Un gioco da ragazzi, Undine, High Life, South Terminal, Ride your wave, Dragged Across Concrete, La famosa invasione degli orsi in Sicilia... per citare i primi che mi vengono in mente.
Questo articolo nasce con l’intento di porre rimedio a questa bestialità (ahimè fisiologica e necessaria), segnalandovi una sfilza di titoli che abbiamo colpevolmente omesso dalla selezione finale del “meglio del 2020”.
[Emanuele Antolini viene portato in trionfo dalla redazione per aver votato The Gentlemen di Guy Ritchie]
Ovviamente, dato che seguirò gusto e giudizio personali, come sempre dovrete fidarvi di me.
Ma se siete dentro questa rubrica un motivo ci sarà.
Spero non rimarrete delusi.
Cominciamo.
N.B: Qui non si fanno distinzioni di merito, qui si rispetta gentaglia come finlandesi, cileni, irlandesi, taiwanesi o americani!
Qui vige l'ordine randomico: non conta un cazzo nessuno!
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Dogs Don't Wear Pants
di J-P Valkeapää
Raccontare la natura di film come il quarto lungometraggio del regista finlandese (classe '77) mi risulta terribilmente difficile, per il semplice fatto che la annovero in quel tipo di produzioni che acquisiscono una forza maggiore se godute a scatola chiusa.
Tenterò quindi di dire il meno possibile (nulla) rispetto la trama del film di Valkeapää.
"Sorprendimi!".
Questo è il pensiero che può risultare frequente e caro a qualsiasi spettatore navigato, ingurgitatore assiduo di titoli cinematografici.
Maturando esperienza, ampliando il proprio background, infatti, la necessità più prepotente di un cinefilo è quella di venire sorpreso da una visione.
Di sentirsi togliere la sedia da sotto il sedere mentre si guarda un film.
In questo senso Dogs Don't Wear Pants funziona benissimo. Seppur utilizzando toni e temi completamente differenti, nella sua capacità di giocare con l'immaginifico, di scardinare la narrazione classica, la pellicola finlandese può idealmente andare a braccetto con il folle Doppia pelle di Quentin Dupieux segnalato nella nostra classifica di fine anno.
Dotato di un'eleganza stilistica strepitosa e un cast di ottimo livello, Dogs Don't Wear Pants parla allo spettatore di temi delicati come il superamento del lutto, la rinascita (o mutazione, se preferiamo), l'amore, la scoperta, l'accettazione e "normalizzazione" delle perversioni personali.
E lo fa attuando un procedimento rischiosissimo (ma estremamente performante, in caso di successo) come il missaggio di generi diversi fra loro come il dramma, il romantico, la commedia e il mistery. Il tutto aggiungendo la giusta spruzzata di conturbante, orrorifico e grottesco.
Il film di J-P Valkeapää è dotato di una regia che favorisce fortemente l'immersione dello spettatore all'interno della storia raccontata, in accordo con una fotografia sublime e un soggetto capace di far riflettere, divertire, emozionare e commuovere.
Un prodotto da non perdere per nulla al mondo.
Questo diamante grezzo è frutto del lavoro di scavo del collega Jacopo Gramegna, che mi sento di ringraziare per la dritta.
Lo trovate su MUBI.
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Nomad - In cammino con Bruce Chatwin
di Werner Herzog
Chiunque abbia la sfortuna di conoscere i miei gusti cinematografici già sapeva che, in un anno in cui sono state distribuite ben tre produzioni di Werner Herzog, padre del Nuovo Cinema Tedesco, il mio dilemma sarebbe stato solo uno: quale scegliere.
Così, nonostante la bellezza e l'imponenza di Fireball: messaggeri dalle stelle o la rilevanza storico-documentaristica di Meeting Gorbachev, mi ritrovo a parlarvi di Nomad - In cammino con Bruce Chatwin.
Perché?
Il motivo è semplice: nel Cinema di Herzog è da sempre facile riscontrare la necessità impellente di raccontare sé stesso all'interno delle storie presentate dai suoi film, di attuare un procedimento - se vogliamo - ideologicamente sbagliato per il genere documentario: imprimere (più o meno implicitamente) con ironia e arguzia il proprio punto di vista rispetto a quanto viene mostrato sullo schermo.
In tal senso, a ben vedere, sin dagli esordi con Paese del silenzio e dell'oscurità, i documentari di Herzog rappresentano il suo pensiero, i suoi incontri alla fine del mondo, la sua voglia di avventura e di mettersi in gioco oltrepassando i limiti più pericolsi.
Sostanzialmente la filmografia di Werner è la rappresentazione tangibile del suo percorso nel mondo.
Nomad - In cammino con Bruce Chatwin è forse l'emblema, la summa di questo ragionamento.
Bruce Chatwin, autore del celeberrimo In Patagonia, è stato uno scrittore e avventuriero britannico che visse la sua vita da nomade, girovagando per il mondo, incontrando popolazioni disperse ai quattro angoli della Terra.
Un uomo capace di creare mondi e storie fantastiche plasmando a suo piacimento situazioni e realtà che conobbe in vita.
Herzog conobbe Chatwin e, nonostante la fugacità della loro amicizia (l'autore britannico morì ad appena 49 anni), il regista baverese sviluppò immediatamente una forte connessione emotiva con lo scrittore nato a Sheffield.
In Nomad - In cammino con Bruce Chatwin i cammini dei due si incrociano, le impronte lasciate nel mondo si sovrappongono.
Ancora una volta, Herzog racconta sé stesso (di taglio) all'interno di un documentario, in maniera dolce e malinconica come forse mai era successo prima, presentando allo spettatore la storia di un amico, un sognatore come lui, cantore di storie di luoghi e popoli lontani, perennemente con lo zaino in spalla.
Intimo e prezioso. Non perdetelo.
Lo trovate a noleggio su Chili.
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The Hater
di Jan Komasa
Questo, nonostante la dritta del buon Mattia Gritti, non ho neppure fatto in tempo a vederlo in tempo per le votazioni finali per la Top 2020.
The Hater è un thrillerone polacco, con marcate venature drammatiche e un forte intento di denuncia sociale.
La storia racconta le malefatte di Tomasz, giovane studente di giurisprudenza dell'Università di Varsavia, espulso per aver commesso un plagio nella presentazione di un suo elaborato. Dotato di grande acume e mentalità calcolatrice, il ragazzo pur di togliersi le catene generate da un'estrazione sociale povera si guadagnerà un lavoro come social media manager/hacker/hater/spia, che lo condurrà sempre più in fondo nel baratro della meschinità e dell'odio.
Il protagonista si trasforma quindi in un essere arido, viscido e senza scrupoli.
Lo farà per sua scelta, ma anche in quanto vittima di un sistema troppo grande e tentacolare per essere sconfitto: un'Idra social(e), politica e lavorativa a mille teste che costringe le sue vittime passive ad assurgere al ruolo di carnefici attivi.
La parabola discendente, amara e terribile di Tomasz è rappresentata attraverso la micidiale prova di recitazione di Maciej Musialowski - che lo schermo se lo mangia in un sol boccone - l'ottimo script di Mateusz Pacewicz e la regia elegante, decisa e sinuosa di Komasa (al secondo lungometraggio dopo quel Corpus Christi candidato a Miglior Film Internazionale agli Oscar 2020).
In The Hater ci sono inoltre i giusti ritmi di montaggio, musiche azzeccate e un gran lavoro del DoP Radek Ladczuk.
Tutti gli ingredienti necessari per consolidarlo a must-watch.
Lo trovate su Netflix.
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WolfWalkers - Il popolo dei lupi
di Tomm Moore e Ross Stewart
Ecco il primo dei due film di animazione della selezione.
Votato da ben 4 redattori, fra i quali il lovecraftiano Lens Kuba e il nostro sommo direttore (gran cornut pez di stronz) Teo Youssoufian, WolfWalkers - Il popolo dei lupi è probabilmente uno degli esclusi eccellenti che più mi ha fatto male vedere fuori dalla nostra cernita finale.
Perché la pellicola irlandese diretta da Moore e Stewart è per me un piccolo miracolo.
Dopo aver diretto The secret of Kells (opera in cui ho percepito degli echi di Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse) e lo splendido racconto fanciullesco de La canzone del mare, il regista nato a Newry ci presenta un'altra fiaba legata alla storia e al folklore irlandese che parla di amicizia, crescita e tollerenza.
1650, Kilkenny, Irlanda.
Gli abitanti della città abbattono gli alberi per ampliare le zone coltivabili e far prosperare la città su ordine del maligno Lord Protector.
Bill Goodfellowe, è stato convocato per sterminare i lupi che infestano la foresta e impediscono la procedura di disboscamento; con lui c'è la figlia Robyn, aspirante cacciatrice e fermamente convinta che i lupi siano la rappresentazione del Male Assoluto.
I due, così come gli abitanti della città, non sanno però che fra gli alberi si celano i WolfWalkers, uomini e donne capaci di trasformarsi in lupi e guidare i loro simili pelosi per la salvezza della loro specie e l'incolumità della Natura intera, minacciate dalla cupidigia dell'uomo.
Una di essi è la piccola Mebh: dolce, scontrosa e selvatica WolfWalker con cui Robyn avrà modo di intrecciare un profondo legame, condividere avventure e riconsiderare la sua posizione rispetto al mondo di cui è parte.
WolfWalkers, in poche e brevi parole, è un film delizioso, che parla di temi noti e affrontati più e più volte (dal rispetto per la natura al concetto di fratellanza fra "diversi") ma senza mai scadere nella retorica lacrimevole o in morali a buon mercato.
È al contrario un prodotto genuino, sentito e accorato, che si esprime attraverso un'animazione 2D estremamente "grafica", con tratti di matita sfuggenti, essenziali ma vividi, di rara bellezza.
Una fiaba animata per grandi e piccini, in grado di smuovere anche il cuore più acido con intelligenza, dolcezza e un impatto visivo strabiliante.
Devo dirvi di vederlo?
Lo trovate su Apple TV+.
p.s. per i distributori italiani: maaaaa... portare tutti i lavori di Moore in sala o in edizioni Home Video vi fa schifo? Dai, su...
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Prospect
di Christopher Caldwell e Zeek Earl
In un universo cinematografico dove la fantascienza e l'esplorazione spaziale sono prevalentemente rappresentate da blockbuster milionari (da Gravity a Sunshine, da 2001: Odissea nello spazio ad Arrival), trovare una produzione minuta - quasi artigianale - dotata di fresco spirito combattivo e spigliatezza contenutistica è un piccolo toccasana.
Il film Made in USA diretto dalla coppia Caldwell-Earl racconta la storia di Cee, un'adolescente che viaggia per lo spazio insieme a suo padre Damon.
I due sono degli "estrattori" di gemme aliene che hanno un valore di mercato enorme, ma sono anche incredibilmente difficili da ottenere.
Padre e figlia atterrano su una luna lontana, rigogliosa di una vegetazione tropicale, che credono deserta. In realtà non sono gli unici a cercare fortuna sul posto e la piccola Cee si troverà costretta - suo malgrado - a fare squadra con Ezra (Pedro Pascal), un esploratore senza scrupoli.
Prospect non è sicuramente un film imperdibile, le sue fragilità - da un soggetto che ha mordente a corrente alternata (il passaggio da cortometraggio originale a lungo, probabilmente, ha risentito della procedura) a un color grading francamente eccessivo - sono palesi e forse naturali, visto che si tratta di un'opera prima.
Tuttavia questo indie-movie (presentato al South by Southwest Film Festival nel 2018) dal ritmo inizialmente compassato esibisce un mood affascinante, a cui contribuiscono i prop, i costumi e le scenografie interne che hanno un look retrò, decisamente insolito nel panorama cinematografico attuale.
Pedro Pascal e Sophie Thatcher, la giovane protagonista, si disimpegnano bene in una prova di recitazione funzionale ed efficace sotto la direzione della coppia di registi.
Per gli appassionati di fantascienza e avventura Prospect potrebbe essere una gradevole esperienza.
Sicuramente Earl e Caldwell andranno tenuti d'occhio in futuro: le premesse ci sono tutte.
Lo trovate su Amazon Prime Video.
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Sound of Metal
di Darius Marder
Potevamo far mancare una bella pietrata nei denti a questa selezione?
Certo che no.
Dopo essersi fatto conoscere come autore della sceneggiatura di Come un tuono (2012), Darius Marder esordisce con il suo primo lungometraggio "a soggetto" (nel 2008 aveva diretto Loot, un documentario), Sound of Metal, presentato nel 2019 al Toronto International Film Festival.
Il concept del film nasce dall'esperienza personale di Derek Cianfrance, regista di Blue Valentine e Come un tuono.
L'autore statunitense, ex batterista affetto da acufene, voleva raccontare il dramma di un musicista che perde progressivamente l'udito. Situazione doppiamente orribile per chi, in una band, ha il compito di scandire i tempi di esecuzione dei compagni e non può permetteresi di non sentire i suoni che fuoriescono dagli strumenti attorno a lui.
Impossibilitato da altri impegni produttivi, Cianfrance passò la mano all'amico e collega Marder.
Così nasce Sound of Metal, la cui storia racconta appunto una sezione della vita di Ruben, batterista girovago e con problemi di droga perennemente in viaggio - fra un concerto e l'altro - insieme alla compagna Louise.
I due hanno un complesso Sludge Metal di cui "Lou" è la screamer vocalist.
Da un giorno all'altro Ruben comincerà a perdere progressivamente l'udito, privandolo della possibilità di suonare e condurre una vita "normale".
La potenza del film di Marder, oltre alla prepotente carica emotiva e narrativa del soggetto, sta nel sound design e nel montaggio sonoro, curatissimi, attenti e perfettamente in grado di metterci nei panni di Ruben. Lo spettatore è messo nella scomoda posizione di accompagnare il protagonista nella sua discesa all'inferno fatta di suoni metallici e distorti.
Impossibile non porre l'accento sul lavoro fatto da Riz Ahmed sul suo Ruben: l'attore/rapper britannico di origini pakistane è semplicemente perfetto nel ruolo, al quale riesce a dare grande intensità, consentendoci di subire con la stessa violenza la privazione patita dal suo personaggio.
Curato, ben girato e con un comparto tecnico brillante: Sound of Metal vale assolutamente la visione.
Lo trovate su Amazon Prime Video.
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Nessuno sa che io sono qui
di Gaspar Antillo
Di questa produzione cilena avevo già parlato durante una scorsa puntata del nostro podcast.
Il film vede come protagonista Memo (Jorge Garcia. Era Hugo di Lost, ve lo ricordate?), un ragazzone che da bambino sognava di diventare un cantante famoso. Il suo desiderio viene però rispedito al mittente e Memo sceglie l'auto-isolamento, andando a vivere per 15 anni in una remota fattoria nel sud del Cile, luogo dove riceverà il tanto desiderato oblio mediatico e sociale.
Almeno fino all'arrivo di Marta (Millaray Lobos che mi lascia cuoricini sul profilo Instagram <3). La ragazza, una volta sentita la splendida voce di Memo, lo registra e diffonde il video su YouTube.
Da questo episodio partiranno una serie di eventi che riconsegneranno l'ex bambino prodigio al mondo.
Nessuno sa che io sono qui è un film sussurrato che si esprime per mezzo di una fotografia morbida e deliziosa ma non "strabordante" e un soggetto che parla della crudeltà mediatica attuale, del concetto di "bellezza nascosta" e, sopratutto, di rinascita.
I due protagonisti sono bravissimi, specialmente Jorge Garcia, la cui parte sembra essere modellata apposta su di lui. L'attore americano di origini cilene e cubane dà vita a un personaggio tradito dal mondo, silenzioso e con cui è molto facile stringere un rapporto empatico durante il quale condividere sofferenze e gioie è cosa piuttosto agevole.
Il primo lungometraggio di Antillo è un'opera che merita attenzione e rispetto per la sua cura, la sua dolcezza e la sua straordinaria capacità di presentarci un dramma non urlato, ma eseguito con la grazia del violino e non il frastuono della grancassa.
Delicato, intimo, ricercato.
Lo trovate su Netflix.
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Mister Link
di Chris Butler
Poco da fare: la Laika non ne sbaglia una.
Diretto e scritto da Chris Butler, Mister Link racconta la storia di Sir Lionel Frost (Hugh Jackman), entusiasta esploratore britannico perennemente alla ricerca di nuove avventure e scoperte da compiere. Pur di essere accettato in un circolo di ricercatori formato da vecchi e perfidi tromboni capitanati da Lord Piggot-Dunceby (Stephen Fry, io ti amo), il nostro protagonista si lancerà nell'ennesima, folle, impresa: l'individuazione del famigerato Sasquatch (o Bigfoot), oggetto di recenti avvistamenti in Nord America.
Mister Link (Zach Galifianakis) si rivelerà essere "l'anello mancante" (di qui il il titolo originale Missing Link) dell'evoluzione umana. Il bestione, ultimo della sua razza, intristito e scoraggiato dalla sua solitudine assoluta, chiederà all'esploratore britannico di accompagnarlo - insieme a Adelina Fortnight (Zoe Saldana), una vecchia amica di Sir Lionel - nella ricerca dei suoi ultimi parenti, di cui ha solo sentito parlare, gli Yeti.
Dopo Coraline e la porta magica, ParaNorman, Boxtrolls - Le scatole magiche, la casa di animazione statunitense della Laika ci propone un'altra meravigliosa storia che parla di diversità, amicizia, accettazione e identità.
Senza raggiungere le vette (inarrivabili?) del precedente Kubo e la spada magica, Mister Link presenta una storia i cui personaggi sono anime perdute ossessivamente alla ricerca del proprio posto nel mondo.
La morale e i messaggi trasmessi da questa mirabile opera in stop motion sono semplici, eppure terribilmente efficaci, e ci suggeriscono di come - spesso - gli obiettivi che ci poniamo nella vita non siano necessariamente quelli corretti o adeguati per noi.
Possiamo scegliere chi essere (Mister Link che si auto-battezza col nome di Susan ce lo insegna), quali persone amare e a tracciare da noi il nostro percorso nel mondo.
Nulla è scritto in maniera indelebile, non c'è destino che tenga, i "gruppi" a cui siamo (idealmente) legati si possono mandare al diavolo
Quello che conta è essere noi stessi.
Sentirci noi stessi.
La narrazione e lo sviluppo della storia, le sue dinamiche, sono meno articolate e più lineari rispetto ai precedenti lavori firmati Laika, ma non per questo risultano inferiori in efficacia, dolcezza e divertimento.
Chiamatela "opera minore", se vi va, ma Mister Link è una produzione che merita rispetto e, sicuramente, la visione.
Lo trovate a noleggio su Chili.
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His House
di Remi Weekes
Corriere della Sera: "Ho perso il mio piccolo", l'urlo della madre".
"Hai perso il tuo piccolo, 6 mesi, perché lo hai buttato su un gommone con centinaia e più di persone ammassate una sull'altra, in autunno inoltrato, con il freddo e il mare grosso."
Con questo tweet - fra il disgustoso, l'imbarazzante e il disumano - Azzurra Barbuto, "giornalista" del quotidiano Libero, ha commentato una delle tante tragedie recenti avvenute nel Mar Mediterraneo. I protagonisti di questa vicenda, ovviamente, erano dei disperati in fuga da guerra, fame e miseria che quotidianamente affrontano la morte sui barconi diretti in Italia dalle coste del Nordafrica.
Ecco, per aprire questo commento al primo lungometraggio scritto e diretto da Remi Weekes, mi sentirei di consigliare a questa "signora" e a tutti i subumani come lei di dare un'occhiata a questo film.
Così, per dire.
Bol e Rial, marito e moglie, sono due profughi africani appena arrivati nel Regno Unito in cerca di speranza, di una nuova vita, di un'occasione per dimenticare gli orrori del loro recente passato, fatto di paura, guerriglia e omicidi indiscriminati.
L'inserimento nella "Perfida Albione" è quantomeno traumatico: per quanto Bol (Sope Dirisu) cerchi di inserirsi nel nuovo contesto sociale, Rial (Wunmi Mosaku) fatica a calarsi nella sua nuova realtà fatta di discriminazioni, in alcuni casi sottili, in altri maledettamente violente.
Quando viene assegnata loro una casa-alloggio in cui abitare, i due saranno vittime degli spettri del loro triste passato.
Ora. Che il procedimento che mescola la critica sociale al Cinema di genere (in questo caso l'horror) non sia un'innovazione dell'esordiente Weekes è un semplice dato di fatto.
La Storia del Cinema è piena di miscellanee di questo tipo, basti pensare per esempio a John Carpenter o David Cronenberg.
Eppure His House ha una forza narrativa e contenutistica micidiale. Perché ha il merito di spaventare sì lo spettatore quando compaiono streghe e fantasmi, ma di essere veramente terrorizzante quando arrivano sul nostro schermo gli episodi di razzismo, di intolleranza, di odio immotivato e insensato.
Non c'è spettro che tenga: le scene più orrorifiche sono quelle dove Rial viene sbeffeggiata ed emarginata da un gruppo di ragazzetti di colore dal perfetto accento british. Il dolore, la perdita, l'emarginazione, il senso di colpa sono i veri mostri di His House, un film che ha delle idee di messa in scena giganti, portate a schermo da una fotografia - a mio avviso - perfetta per il tono narrativo.
Come nelle sezioni precedenti di questo articolo, non riesco e non posso evitare una menzione ai protagonisti della storia, Sope Dirisu e Wunmi Mosaku: intensi, fragili, perfetti.
His House è un film che, nonostante una doppia visione ravvicinata, è riuscito a commuovermi entrambe le volte durante il suo splendido, dolorosissimo finale. E una cosa del genere, credo, avviene solo alla presenza di grandi film.
Una produzione che ogni essere umano dotato di coscienza dovrebbe affrontare.
Non perdetelo.
È su Netflix.
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Tigertail
di Alan Yang
Distribuita da Netflix, questa produzione Made in Taiwan fa coppia con l'altra pellicola originate dello stesso paese e finita meritoriamente nella nostra Top 8 finale: Un lungo viaggio nella notte.
Eppure, nonostante sia un film di rara bellezza, il nostro "Codatigre" (in redazione lo abbiamo affettuosamente ribattezzato così) non si è guadagnato nemmeno un voto.
Che cattivi che siamo.
Pin-Jui è un bambino povero, orfano del padre e con una madre che si ritrova costretta a mandarlo a vivere dai nonni per poter continuare il suo estenuente lavoro in fabbrica. Il bimbo incontrerà Huei, con la quale stringerà una grande amicizia che sfocerà in un amore profondo, uno di quelli capaci a resistere agli abissi del tempo.
Costretto a un matrimonio di convenienza, Pin-Jui emigrerà in America in cerca di una vita migliore lontano da Taiwan.
Abbandonerà l'amore di una vita e il suo paese in favore di una nuova esistenza, diversa, che lo codurrà a mettere su famiglia, a invecchiare e, infine, a riaffrontare il suo passato quando dovrà tornare in Asia per il funerale della madre.
Tigertail è un dramma-multigenerazionale che si esprime facendo ricorso al tema dei ricordi, del rimpianto, delle opportunità perdute nelle pieghe di una vita intera. Dotato di una delicatezza pari a quella di Nessuno sa che io sono qui, il film di esordio di Alan Yang gode di un comparto tecnico eccellente: dalle musiche alla fotografia, dalle prove del cast alla direzione del regista classe 1983.
Sviluppo e finale da sospironi per una pellicola tutta da godere.
Come detto, lo trovate su Netflix.
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Ema
di Pablo Larraín
Altro giro, altra produzione cilena.
Nel 2020 il cinema sudamericano ha fatto faville, neh?
Presentato in anteprima alla 76ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, l'ottavo lungometraggio di Pablo Larraín racconta la storia di Ema, istrionica ballerina sposata con Gastòn, direttore del suo corpo di ballo.
A causa di un evento - a dir poco - traumatico, la ragazza deciderà di separarsi dal consorte, abbandonando così un matrimonio "tossico" e abbracciando uno stile di vita (e di danza) completamente diverso, ritornando a una quotidianità di strada "più raeggeton" e non convenzionale.
Sviluppato con un montaggio narrativo non lineare - ostico per gli spettatori meno pazienti, vi avverto - Ema ci consegna una sceneggiatura brillante, colma di ragionamenti interessanti e monologhi destinati a restare incastrati nella mente dello spettatore.
Fra lanciafiamme, inganni e una fotografia meravigliosa, si disimpegna una mostruosa Mariana Di Girolamo, protagonista magnetica di un lungometraggio dai toni vivaci e forti.
Un dramma sfrontato e intelligente, capace di stimolare lo spettatore, che difficilmente assisterà in maniera passiva alle vicissitudini che gli scorrono davanti agli occhi per i 102 minuti di durata del film.
Se volete recuperare Ema, purtroppo nessuna piattaforma streaming vi verrà in aiuto: vi toccherà l'Home Video.
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Nel concludere questo ennesimo, petulante, supplizione targato Goodnight & Goodluck, mi auguro di avervi lanciato qualche spunto per voi interessante e di aver dato un vago senso di utilità alla mia misera esistenza.
In caso contrario siete liberi di smaltirmi nel bidone dell'umido.
- Dogs Don't Wear Pants, di J-P Valkeapää, 2019
- Nomad - In cammino con Bruce Chatwin, di Werner Herzog, 2019
- The Hater, di Jan Komasa, 2020
- WolfWalkers - Il popolo dei lupi, di Tomm Moore e Ross Stewart, 2020
- Prospect, di Christopher Caldwell e Zeek Earl, 2018
- Sound of Metal, di Darius Marder, 2019
- Nessuno sa che io sono qui, di Gaspar Antillo, 2020
- Mister Link, di Chris Butler, 2019
- His House, di Remi Weekes, 2020
- Tigertail, di Alan Yang, 2020
- Ema, di Pablo Larraín, 2019
Comunque vada, che raccogliate o no i miei piccoli consigli, l'offerta del 2020 è stata talmente grande e varigata da far ingrossare ancor di più le vostre watchlist.
Tanto da farci esclamare, ancora una volta, citando di sbieco Robert Oppenheimer:
"Sono diventato Cinema, divoratore di film".
Buonanotte, bulimici di celluloide.
Alla prossima.
P.S.: ringrazio pubblicamente, per l'ennesima volta, il solito enorme Drenny DeVito per la copertina di questo articolo.
Tutto ciò che riguarda il Cinema e le serie TV è discusso con cura e passione da CineFacts.it e la sua redazione.
Se ti piace il nostro modo di fare le cose, vieni dare un'occhiata a Gli Amici di CineFacts.it!
1 commento
Adriano Meis
3 anni fa
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