#Creepshow
Ben trovate, anime peccatrici: siete pronte a una sfilza di horror religiosi?
Esorcismi, spiriti diabolici, messe nere, streghe, riti esoterici: il Cinema horror ha sempre avuto un occhio di riguardo per tutto ciò che concerne il complicato rapporto tra l’uomo e la religione, sviscerando temi come la natura peccaminosa dell’uomo e la difficile gestione del senso di colpa che ne scaturisce, giocando sulla paura che gli spiriti demoniaci vaghino tra di noi pronti a colpirci.
Oppure suggerendo che la religione stessa possa avere una natura diabolica; in questo senso è assolutamente da non perdere uno dei film più sottovalutati di John Carpenter, Il signore del male.
Oltre a svariati cult, tra i più fulgidi esempi di questa corrente si trovano anche dei veri capisaldi dell’horror, a partire da L’esorcista di William Friedkin fino a Rosemary’s baby di Roman Polanski, passando per Carrie - Lo sguardo di Satana di Brian de Palma e The Omen di Richard Donner.
Ma in questa sede approfondiremo tre titoli di cui non si sente parlare spesso, nonostante la pregevole tecnica con cui sono realizzati e la profondità dei temi che affrontano.
No: The Nun non è in lista.
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La stregoneria attraverso i secoli (1922),
di Benjamin Christensen
Iconografie sataniste, strumenti di tortura medievale, sabba infernali.
Il regista danese Benjamin Christensen presenta da un punto di vista storico e culturale il fenomeno delle streghe sotto forma di semi-documentario.
Parlo di semi-documentario innanzitutto perché La stregoneria attraverso i secoli è un film che trascende i generi e si posiziona in un periodo in cui lo stesso documentario era ancora piuttosto amorfo e dai caratteri indefiniti, ma anche perché al suo interno sono contenute diverse sequenze non documentaristiche bensì di fiction.
Nei sette capitoli che lo compongono, il narratore Christensen - che nei titoli parla in prima persona - alterna momenti didascalici e di contestualizzazione storica ad altri in cui si mettono in scena delle ricostruzioni sul set.
Ci viene quindi proposta una galleria di fonti figurative che risalgono fino alle civiltà persiane ed egizie per dare un riferimento visivo alla messa in scena a cui poi si assisterà: tra le altre, quella di un’anziana mendicante che viene accusata di stregoneria, torturata e costretta a confessare i propri peccati.
[Una donna, mossa dal maligno, cammina nel sonno in una scena del film]
Nella rappresentazione di questo episodio (e altri simili) troviamo un grande punto di forza della pellicola, che attraverso delle scenografie fantastiche e a degli effetti incredibilmente innovativi per l’epoca, riesce a mostrare la realtà storica delle sale di tortura e a unirla inquietantemente con il sogno (o l’incubo) degli inquisitori e delle loro vittime: parti demoniaci, voli su manici di scopa, messe nere a cui partecipano uomini e animali antropomorfi.
Uniamo a tutto ciò il discorso anticlericale del regista (che tra le altre cose ritaglia per se stesso il ruolo di Satana) secondo cui la narrazione religiosa ha sedimentato nella memoria culturale, tramite la sua iconografia e le sue mistificazioni, la credenza nell’irrazionalità della donna, temuta e perseguitata come strega e come isterica.
Sicuramente uno dei titoli più ricordati del periodo del muto, pioniere del cinema surrealista e tra i primi capolavori dell’horror.
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Madre Giovanna degli Angeli (1961),
di Jerzy Kawalerowicz
Padre Jozef Suryn (Mieczyslaw Voit) è un prete incaricato di recarsi in un convento di suore per fare luce su dei casi di possessione demoniaca. L’esorcista inviato prima di lui è stato bruciato sul rogo dopo essere stato accusato di aver tentato le suore, diffondendo il peccato tra di loro e colpendo sopratutto la superiora, Madre Giovanna degli Angeli (Lucyna Winnicka), che dice di essere posseduta da otto demoni.
Definito da Martin Scorsese come uno dei migliori rappresentanti del Cinema polacco, questo capolavoro di Jerzy Kawalerowicz trae spunto dal caso dei diavoli di Loudun che ispirò anche Ken Russell nel suo controverso I diavoli.
Ma mentre il film di Russell, uscito appena dieci anni dopo, ha mantenuto nel tempo la sua fama a causa delle polemiche che lo accompagnarono (e del suo indubbio valore cinematografico), l’opera di Kawalerowicz sembra essere stata dimenticata, nonostante il Premio della giuria che gli venne riconosciuto al Festival di Cannes.
[Lucyna Winnicka, moglie del regista, in una scena del film]
Madre Giovanna degli Angeli è un horror minimalista ed essenziale, ispirato nelle atmosfere e nella messa in scena da Ingmar Bergman e Carl Theodor Dreyer, che attraverso il pretesto della possessione racconta la relazione tra padre Jozef e madre Giovanna, tra cui nasce una silenziosa tensione sessuale, e il loro rapporto con i dogmi a cui si sono votati.
Il conflitto interiore dei protagonisti li vede divisi tra una promessa di vita eterna assicurata dall’amore per Dio unito alla conduzione di un’esistenza retta e la consapevolezza che il diavolo tentatore ha già fatto breccia nel loro cuore per la loro stessa natura di peccatori, nonostante una vita terrena fatta di sacrifici e penitenze.
Quindi “se non si può essere santi, meglio essere dannati”.
Il film di Kawalerowicz si scaglia contro i dogmi della religione suggerendo che i loro stessi principi siano inumani, perché costringono le persone a trovare una ragione diabolica per giustificare il loro amore.
I demoni che infestano le suore diventano la manifestazione dei loro desideri peccaminosi, e il contrasto tra bene/verità e male/bugie viene sublimato in un fantastico bianco e nero in cui la posseduta madre Giovanna appare con una tonaca bianca, simbolo di purezza, mentre il contrito padre Jozef viene mostrato spesso avvolto nell’oscurità, ossessionato dai suoi dubbi e dalla sua debolezza al cospetto dei suoi demoni personali.
Madre Giovanna degli Angeli non vi regalerà gli spaventi a cui ci ha abituato il filone dei film sugli esorcismi, ma grazie a delle fantastiche prove attoriali e a una regia immersiva e ipnotica fatta di soggettive e di sguardi che rompono la quarta parete riesce a creare una atmosfera inquietante con momenti di grande tensione.
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The Wicker Man (1973),
di Robin Hardy
Neil Howie (Edward Woodward) è un sergente della polizia britannica ferventemente cattolico che si reca nella piccola e arida isola di Summerisle per indagare sulla scomparsa di Rowan Morrison, una ragazza di 13 anni di cui, secondo una lettera a lui indirizzata, non si hanno più notizie da mesi.
Giunto nel posto Howie entra a contatto con gli abitanti del posto per ottenere delle informazioni, ma capisce di avere a che fare con una cultura selvaggia e oscura.
The Wicker Man è un horror dalle mille sfaccettature: è un giallo investigativo, è un musical, ma più di tutto è un trattato antropologico.
Gli abitanti dell'isola di Summerisle, governati da un Christopher Lee in stato di grazia, crescono secondo un indottrinamento culturale che ha radici antiche che precedono il colonialismo religioso cattolico, un paganesimo naturalistico che rigetta le normali convenzioni di vita e morte, di etico e di amorale.
[Le donne di Summerisle in una scena del film]
Essi, più di Howie, sono i veri protagonisti della vicenda, perché ad interessare lo spettatore, più della scomparsa della bambina, è il funzionamento di una società così morbosa e lercia.
E in tutto ciò ovviamente il contrasto con la religione cristiana è evidente, al punto che si passa velocemente dal rifiutare lo stupido dogmatismo cattolico (Howie è sessualmente represso), al rimanere sconcertati per la brutalità del paganesimo fino al non saper più distinguere quale sia davvero la fede, se non giusta, almeno portatrice di messaggi positivi, e forse l'intento del regista è dirci che non c'è.
L'uomo di Vimini, con il suo strepitoso e inaspettato finale mantiene tutt'oggi immutata la sua carica orrorifica e ipnotica, fatta di ambiguità, distorsione e di aberrazioni che forse non lo sono più di altre comunemente accettate nella società in cui viviamo.
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Qualcuno simpatico tra i lettori forse tirerà fuori il remake di Wicker Man con Nicolas Cage datato 2006, nel qual caso noi consigliamo di apporlo nel medesimo loco di The Nun di cui si parlava sopra: il sacco dell'umido.
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