Premessa: più che una recensione, una storia d’amore.
Ho visto Arrival per la prima volta nel 2017, attorno al mese di maggio. Ero in una fase in cui, dopo un’adolescenza fatta di...
Premessa: più che una recensione, una storia d’amore.
Ho visto Arrival per la prima volta nel 2017, attorno al mese di maggio. Ero in una fase in cui, dopo un’adolescenza fatta di sporadici film visti di tanto in tanto per puro intrattenimento, avevo iniziato, dall’estate precedente, a guardarli con un occhio più attento, a informarmi su chi li avesse realizzati, a rimanere affascinato dai cult e dai classici che recuperavo; in poche parole, avevo iniziato ad innamorarmi del Cinema. In questo senso, il film a cui sarò eternamente grato, e che avrà sempre uno spazio speciale nel mio cuore, è Il silenzio degli innocenti, il mio primo, grande amore, il vero e proprio colpo di fulmine da cui è poi partito tutto il resto. In quei mesi avevo quindi cominciato a guardare diversi film, a scoprire autori come Tarantino e Nolan (siamo onesti, al giorno d’oggi se uno si approccia al Cinema, lo fa partendo da loro), a tornare fisicamente al cinema, con La La Land (altro film che, proprio per questo, amerò per sempre). E poi ho visto Arrival. Avrei tanto voluto vederlo al cinema, ma non avevo fatto in tempo; così, avevo aspettato che uscisse in blu-ray e, un giorno, mi ero recato dal mio “Blockbuster” di fiducia e ne avevo acquistato una copia usata, destinata fino a quel momento al noleggio: non so descriverlo, ma sento che questo dettaglio ha una sua parte nel legame che c’è tra me e questo film. Dopodiché, una di quelle sere, non la sera stessa, l’ho visto.
Ieri sera ho rivisto Arrival. Penso sia la quarta volta che lo vedo, o forse la quinta. Quello che so per certo, grazie al sempre amatissimo Letterboxd, è che non lo vedevo da praticamente tre anni, dal dicembre del 2018. Una parte di me aveva una certa paura a riguardarlo: in questi tre anni, complice anche una pandemia mondiale che ha costretto tutti noi a stare in casa per gran parte del tempo, ho avuto modo di espandere enormemente non solo la mia cultura cinematografica, ma anche la mia comprensione della tecnica, la mia capacità di analisi e il mio occhio critico per i film. E mi ero ritrovato a pensare, seguendo anche i pareri di alcuni critici che stimo molto, che Arrival avrebbe potuto non essere il grande film che pensavo fosse, che avrebbe potuto avere delle ingenuità di cui non mi ero accorto, ai tempi, in quanto ancora troppo ingenuo (non che ora non lo sia, anzi). Ma d’altronde, aveva senso continuare a fuggire per paura di distruggere un amore? Fare come quegli amanti che si rifugiano in un’illusione di felicità quando in realtà sono divorati dai dubbi e avrebbero disperatamente bisogno di un confronto, di una conferma? Non ne aveva, ovviamente. E così, mi sono fatto coraggio e, ieri sera, l’ho rivisto.
Ieri sera ho rivisto Arrival, e l’ho amato come la prima volta. No, non è vero, non l’ho amato come la prima volta; l’ho amato in maniera diversa, non tanto quantitativamente, ma qualitativamente. Se anni fa ero rimasto travolto dal soggetto, dalla filosofia che ne veniva veicolata, dai colpi di scena, dalla splendida fotografia e dal design delle navicelle, degli alieni e del loro linguaggio, questa volta ho avuto modo di apprezzarne al meglio altri aspetti. Per esempio, la finezza della regia di Villeneuve, con quel continuo movimento di macchina panoramico dall’alto verso il basso, un movimento circolare che richiama il linguaggio degli alieni e, soprattutto, la concezione del tempo che ne viene sottesa: non da sinistra a destra (o viceversa), ma sullo stesso piano, circolarmente; un eterno ritorno che si realizza sia nel movimento stesso, sia nella ripetizione, sul finale, della stessa inquadratura con cui si apre il film, all’interno della casa vuota della protagonista, sull’esterno visto dalla vetrata del soggiorno. Oppure la bellissima caratterizzazione iniziale della nostra protagonista, Louise Banks, esperta linguista, che ci viene presentata come una donna isolata, brillante ma autocentrata, tanto da non rendersi conto dell’arrivo degli alieni fino a quando non glielo fanno notare i suoi (pochi) studenti, talmente era presa dalla sua lezione; vive in una (bellissima) casa su un lago, lontana da tutto e da tutti, ed è parecchio orgogliosa di sé stessa, tanto da voler umiliare, agli occhi del colonnello che le si rivolge per decifrare i messaggi degli alieni, l’esperto che i militari prendono in considerazione al posto suo, facendogli tradurre un vocabolo in sanscrito. E poi, ma quanto sono belle quelle scene, girate con un occhio intimista e intriso di nostalgia che mi ricorda un po’ il Terrence Malick di La sottile linea rossa, un po’ flashback un po’ flashforward, dei ricordi di Louise con sua figlia? Parecchio. Certo, questa volta non ho potuto non notarne anche i difetti, tra forzature di sceneggiatura (l’attentato dei militari sa tanto di deus ex machina, per quanto Villeneuve tenti di giustificarlo il più possibile mettendone avvisaglie sparse qua e là; inoltre, la necessità di sfruttare i ricordi dal futuro come colpo di scena genera qualche problema, come il non-invecchiamento poco credibile di Louise e le sue reazioni di stupore non del tutto giustificate in presenza del capo di stato cinese), una certa leggerezza nell’analisi socio-politica (la Cina è vista come un vero e proprio nemico, almeno fino al finale) e una caratterizzazione scarsina dei personaggi secondari (d’altronde, il film è di Louise). Ma questo non mi impedisce di continuare ad amare questo film, seppure in maniera differente: se prima provavo un amore che è quello dei novelli innamorati, idealizzante e immaturo, che vede davanti a sé una perfezione che non esiste, ora mi sento come se fossi in una relazione più matura, in cui so che ciò che amo non è perfetto, e ciononostante lo amo con tutto me stesso e con una consapevolezza nuova, più stabile e meno preoccupata per il futuro. Non so se questo mio amore per Arrival durerà per sempre, ma non ne sono più preoccupato. D’altronde, lo dice il film stesso: il futuro è lì che ci aspetta, con le sue gioie e i suoi dolori; a noi, anche se non lo possiamo vedere in anticipo come Louise, non resta che accettarlo e vivere pienamente ogni momento. Quello che so per certo è che sarò eternamente grato a questo film, perché è anche grazie a lui se oggi amo così tanto il Cinema.
Ricordo che tra 6 anni rivedrò Arrival. E lo amerò, allora quanto allora.
Luca Porcino
6 anni fa
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