Come nasce una rivoluzione?
Lenin sosteneva che per prima cosa bisogna sognare.
E Jordan Peele sogna, e lo fa in grande.
Perché “Us” si dimostra la conferma di un...
Come nasce una rivoluzione?
Lenin sosteneva che per prima cosa bisogna sognare.
E Jordan Peele sogna, e lo fa in grande.
Perché “Us” si dimostra la conferma di un genere che rivoluziona il genere, e la definitiva affermazione di un regista che sa portare un’ondata di nuovo in un’era dove a prevalere è un horror basato su jumpscare e tematiche monòtone (oltre che monotòne).
In questo caso la novità arriva con un film pieno di simbolismi, con una narrazione che (come letto in altri articoli) si narra più per immagini che per dialoghi, e con la dimostrazione che anche nella banalità di un semplice paio di forbici può nascondersi un significato più profondo.
Lo stesso film si mostra, fin dalle sue prime scene, come una metaforica tana segreta di bianconigli, da scoprire (letteralmente ed allegoricamente) nel corso della visione stessa.
Il tema del doppio e del conflitto con sé stessi qui vengono narrati, ma mai interpretati da parte del regista: l’interpretazione è data allo spettatore, la necessità di dare una spiegazione (o di trovare un significato a ciò che si vede) nasce a causa dell’inquietudine che si prova in certe scene, che spingono chi guarda ad immedesimarsi nella situazione.
Un primo punto di forza si può trovare dunque nella sua narrazione “intuitiva” e criptica, che perde punti proprio nei momenti in cui “lo spiegone” diventa palese: ho personalmente trovato banale la scelta di mostrare con una scena lo scambio di persona che avviene tra Red ed Adelaide, quando sarebbe stato più coerente con lo stile narrativo lasciare il dubbio e l’interpretazione nello spettatore (magari con una scena proprio, un attimo prima dei titoli di coda, che ricalcava le orme del finale di Inception).
Ma il successo dell’opera si trova anche in almeno altri due punti: nelle impeccabili “doppie” interpretazioni dei protagonisti e nel mix che si trova tra ironia e terrore.
Nel primo caso, il cast è capace di essere contemporaneamente vittima e carnefice, di dare prova di saper provare terrore ma di saperne anche incutere; in quest’ultimo caso il merito è anche dello stesso Peele, che sconvolge lo stereotipo del “mostro spaventoso perché sovrannaturale o mascherato”, dedicandosi ad una cura di dettagli come tic, sorrisi sinistri, timbri vocali e sguardi macabri per rivoluzionare lo standard di orrore. Ed è evidente come il merito maggiore va a Lupita Nyong'o, che riesce a coprire una duplice parte, conducendo la pellicola più per merito della sua perfomance che del suo personaggio (anzi, dei “suoi” personaggi).
L’altro attore che si distingue è Winston Duke, anche se in questo caso è più per merito del suo “Gabe”: nonostante l’ottima interpretazione, la figura del padre di famiglia è ottima, più che per fini narrativi, perché serve a smorzare i toni quando si raggiunge un clima troppo teso; più di una volta in sala è scappata la risata in seguito ad una battuta fuori luogo, nella maggior parte dei casi fatta proprio dal personaggio di Gabe. Nasce così uno stile peculiare che dona ai momenti di tensione la giusta enfasi, ma non perde l’occasione di alleggerire la narrazione con un’ironia a volte palese, altre volte sottile (ho trovato divertente, per esempio, la scelta di far morire per primi “i bianchi” in questo film, come forma di riscatto contro lo stereotipo comune del “nero ucciso per primo”). Questa scelta poteva essere rischiosa, perché risulta difficile bilanciare ironia e terrore, ma la pellicola lo fa in modo egregio, senza risultare troppo invadente o fuori luogo.
In un’opera che sarebbe risultata eccellente già per sceneggiatura ed interpretazioni, Peele dà il colpo di grazia con una regia di tutto rispetto: come già detto, sono tante le scene in cui il film riesce a parlare di sé, in una pellicola dove risultano più iconiche le immagini ed i simboli che i dialoghi.
Ho trovato molto ad effetto le scene in cui le famiglie, riprese nella loro interezza, sono affiancate da enormi ombre che si proiettano su di esse, dove l’allegoria gioca un ruolo cardine; ma è senza dubbio nello scontro finale tra Adelaide ed il suo doppelgänger che, per me, si raggiunge l’apice artistico del film: proprio nel momento in cui ci si è addentrati completamente nella già citata “tana dei bianconigli”, nel massimo climax della pellicola, la regia di Peele si mostra come un “Paese delle Meraviglie”, nella scena dello scontro con il doppio. Durante il combattimento si alternano scene di furia omicida ad altre di calma e dolce danza, sposandosi tra loro in maniera egregia e dando la sensazione che la rotazione tra queste due tipologie di scene dia vita a sua volta ad un ballo assassino, in cui Peele è il principale coreografo.
Dopo questa visione, confido che questo autore continui a sorprendere con le sue opere, magari con la speranza che dia vita ad un genere tutto suo.
Film consigliato a chi cerca un horror più “inquietante” che “spaventoso”.
Contiene spoiler