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Tra la pandemia globale, l’assalto a Capitol Hill, incidenti diplomatici e misteriosi pipistrelli sembrava non ci saremmo arrivati, invece anche quest’anno assisteremo alla cerimonia dei Premi Oscar, che nel 2021 tornano per la 93ª edizione.
Le nomination sono state annunciate il 15 marzo scorso, ma la notte del 25 aprile in cui verranno assegnate le statuette sarà completamente diversa dalle cerimonie passate, per contingentare le presenze ed evitare assembramenti.
Nonostante questo… "The show must go on!"
[Priyanka Chopra e Nick Jonas annunciano le nomination per la 93ª edizione dei Premi Oscar]
Grazie ai festival e alle brevi riaperture delle sale possiamo godere di un’edizione sicuramente meno spettacolare, divertente, folgorante, ma in cui il potere della Settima Arte splenderà di luce propria.
Il Cinema riesce a infilarsi nei pertugi ristretti di una situazione scomoda, a resistere alle intemperie e a colorare di nuove storie un periodo altrimenti grigio e monotono.
Avremo meno abiti da invidiare, ma sicuramente non meno film.
In questa sede prendiamo in esame soltanto i cinque candidati all’Oscar per il Miglior Film Internazionale, una bellissima rosa di film provenienti da tutto il mondo: Danimarca, Hong Kong, Romania, Tunisia, Bosnia ed Erzegovina.
[Federico Fellini nel 1964 vince il terzo Oscar per il Miglior Film Internazionale con 8 1/2, dopo i precedenti trionfi de La strada e Le notti di Cabiria]
L'Oscar per il Miglior Film in Lingua Straniera - che nel 2020 ha cambiato nome diventando "Internazionale" - è stato istituito nel 1957: prima non esisteva nessuna distinzione, anche se tra il 1947 e il 1955 fu istituito un premio onorario per i film stranieri.
L'Italia, in barba ai detrattori del nostro Cinema, deteniene un record importante: 14 vittorie su 28 nomination.
La Francia detiene invece il record delle nomination, ben 37, ma ha vinto solo 12 volte.
Dopo più di sessant'anni c'è voluto un vento d'oriente dalla Corea del Sud per il trionfo di un film internazionale anche nella categoria Miglior Film: Parasite, di Bong Joon-ho.
Parasite è già uno spartiacque per la Storia del premio: si spera che la grande vetrina statunitense lasci spazio anche al Cinema internazionale attirando anche l'attenzione del grande pubblico, oltre che quella dei produttori e quella dei cinefili già avvezzi al circuito dei festival.
Dopo questo brevissimo excursus storico eccoci qui: cinque film, cinque stili registici completamente differenti, cinque storie diverse da raccontare, cinque nazioni.
Piccole recensioni senza spoiler per invitarvi a godere di cinque bellissimi film e magari... aiutarvi a fare un bel punteggio al ConcorsOscar 2021.
[I cinque film candidati come Miglior Film Internazionale: un melting pot di storia e culture]
Shàonián de nǐ
di Derek Tsang (Hong Kong)
Shàonián de nǐ è il secondo dramma giovanile, dopo Soul Mate, girato dal regista hongkonghese Derek Tsang e che in Italia è stato proiettato alla 22ª edizione online del Far East Film Festival.
[Il trailer di Shàonián de nǐ]
Il film, tratto dal romanzo young adult Shàonián de nǐ, rúcǐ měilì di Jiu Yuexi e ambientato nella fittizia cittadina di Anqiao, racconta la storia di una studentessa di nome Chien Nian, sottoposta a duplice tormento.
Da un lato ci sono i limitatissimi e durissimi test nazionali per entrare all’università, dall’altro le vessazioni da parte di alcune sue compagne di scuola che le fanno dell’esplicito bullismo, spesso anche estremo.
Prima di Chien Nian c’era stata un’altra ragazza, spinta allo sfinimento fino al suicidio, come a voler sottolineare la continuità, un sistema consequenziale in cui, una volta rotto un anello della catena, si procede presto a una rapida sostituzione.
Un mantello di ombrelli e un tappeto di divise azzurre e bianche paiono parificare ogni adolescente: d’altra parte non basta equiparare gli abiti a scuola per nascondere le proprie origini umili o per dissimulare un carattere schivo.
Chien Nian è totalmente immersa negli studi e spinta avanti dalla sua ambizione: se da un lato questo può risultare positivo, dall'altro emerge una figura tipica della società cinese in cui i ragazzi vengono spinti a una competitività estrema e disumanizzante.
Per la studentessa, nata nella povertà, superare quei rigorosissimi test diventa l’unico mezzo per sfuggire a un futuro incerto e nebuloso.
La polizia inefficace e la scuola assente spingono Chien Nian a rifugiarsi nella tenera amicizia con il teppistello Liu Beishan, che avrà modo di mostrare durante la pellicola la sua totale dedizione, proteggendola anche rischiando il suo stesso futuro.
[I due protagonisti di Shàonián de nǐ]
Liu Beishan, dietro un atteggiamento da duro, nasconde una grande vulnerabilità, a differenza di Chien Nian, minuta e risoluta: i due ragazzi, complementari come yin e yang, si muovono in un contesto urbano, tra strade anguste di periferia e lunghe notti piovose.
La rappresentazione canzonatoria delle forze dell’ordine e del darwinismo sociale nelle scuole ha spinto il governo cinese a ritardare sempre di più la distribuzione di Shàonián de nǐ e ad applicare due volte la censura.
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Collective
di Alexander Nanau (Romania)
Che anno per il Cinema romeno!
Dopo il trionfo di Radu Jude e il suo controverso Bad Luck Banging or Loony Porn al Festival del Cinema di Berlino, anche gli Oscar puntano i fari su questa nazione cinematograficamente in rapidissima ascesa.
Collective di Alexander Nanau riesce dove purtroppo ha fallito Notturno di Gianfranco Rosi: il documentario infatti è riuscito a scalare le shortlist e a trovarsi candidato sia per l’Oscar al Miglior Documentario sia per l’Oscar al Miglior Film Internazionale.
[Il trailer di Collective]
Il documentario, presentato alle 76ª Mostra del Cinema di Venezia, racconta delle conseguenze di un incendio in un locale chiamato Colectiv e dell'inchiesta giornalistica di Sport Gazette a riguardo: quella tragica notte del 2015 ha aperto un vaso di Pandora.
Alle 27 morti di quella notte se ne sono aggiunte altre decine.
In pochissimo tempo il bilancio delle vittime salirà a 64, la maggior parte delle quali ampliamente evitabili.
La regia invisibile di Nanau percorre una spirale infernale, ma drammaticamente vera, la cui origine è nell’incendio e la cui curva circonda le classi dirigenti.
Il sistema statale romeno si rivela marcio in ogni sua declinazione, avallato dall’omertà di - quasi - tutti i media e sostenuto dalla criminalità.
La corruzione rosica e marcisce la burocrazia, con un focus in particolare sul sistema sanitario.
[Il giornalista Cătălin Tolontan]
Nanau non si abbandona mai all’utilizzo di musica extradiegetica o a virtuosismi registici perché le immagini parlano da sole: l’orrore, visivo oltre che concettuale, a volte è talmente tanto da spingerci a distogliere lo sguardo, allo stesso modo la determinazione dei reporter, i dubbi, la rabbia, la voglia di ricominciare dei sopravvissuti, si esplicano senza bisogno di commenti aggiuntivi.
Ciò che più risalta di più è però lo sconforto di fronte a un sistema che tende a inglobare o a rigettare qualsiasi forma di dissenso; il film non manca, sul finale, di momenti drammatici la cui spontaneità è talmente limpida da creare un filo di empatia indissolubile tra lo spettatore e i protagonisti, in un modo che davvero raramente si è visto in un documentario con una regia così apparentemente algida.
Nanau è regista, direttore della fotografia e montatore di un documentario che sembra un thriller, ma che purtroppo non ha nessun elemento di finzione.
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Quo vadis, Aida?
di Jazmila Zbanic (Bosnia ed Erzegovina)
Ne Gli atti di Pietro, un aprocrifo del Nuovo Testamento, è narrato che durante la persecuzione scatenata da Nerone contro i cristiani Pietro ebbe una visione di Cristo mentre stava per lasciare Roma.
Durante questo incontro gli chiese “Quo vadis, Domine?”.
La risposta di Cristo fu “Vengo per essere crocifisso una seconda volta”.
Un millennio e qualche secolo più tardi, quasi ventisei anni fa - una goccia nell’Oceano-Storia dell’essere umano - si compieva il Massacro di Srebrenica, un vero e proprio genocidio a danno di 8000 musulmani bosniaci, in particolare di sesso maschile, da parte dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia e Erzegovina.
[Il trailer di Quo vadis, Aida?]
È in questo contesto che si muove Aida, la protagonista della pellicola diretta da Jazmila Zbanic: una donna di mezza età, con due figli giovani, che passa dall’insegnamento alla scuola elementare a fare la traduttrice per l’ONU in tempi di guerra.
La regista ha sulle spalle l'onere di rappresentare per la prima volta questo evento a dir poco drammatico del suo Paese.
Quo vadis, Aida? (Dove vai, Aida?)
Aida corre da un lato all’altro del campo, tra un impegno lavorativo e la volontà di mettere a sicuro la sua famiglia; non sa cosa sta accadendo, non sa nemmeno bene da cosa desideri metterli al sicuro, ma sembra percepire che le trattative per la pace non stiano andando davvero per il verso giusto.
La camera la insegue, in modo quasi documentaristico.
Aida è l’ennesima martire di un genocidio, una vittima che si sobbarca ancora l’ennesima onta dell’umanità: non sono solo i bosgnacchi a perire, ma è l’umanità stessa a sanguinare, è il cuore di ogni madre che vede la vita dei suoi figli appesa a un filo.
[Aida con i caschi blu olandesi dell'Onu]
A ogni tragedia corrispondono nuovi martiri e non ce n'è nemmeno uno che può essere dimenticato.
L’Europa indifferente e l’inganno del generale Ratko Mladic sono una stoccata alla schiena di Srebrenica: una città distrutta, una città tradita, una città privata dei suoi bambini, del suo futuro, dei suoi uomini, del suo passato, una città di vedove e fantasmi.
Jazmila Zbanic, dopo aver vinto l’Orso d’Oro nel 2006 con il suo esordio Il segreto di Esma, torna sotto i riflettori internazionali, sobbarcandosi l’onere di mettere in scena questa triste pagina della storia contemporanea.
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The man who sold his skin
di Kaouther Ben Hania (Tunisia)
Il primo film tunisino a essere candidato all’Oscar per il Miglior Film Internazionale è The man who sold his skin di Kaouther Ben Hania.
Non è l’unico primato di questo film: Kaouher Ben Hania è anche la prima donna musulmana a essere candidata al prestigioso premio.
Il film presentato alla 77ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia racconta di un rifugiato siriano il cui destino sarà passare da padrone in padrone: quale sarà il prezzo della libertà, se di libertà si può parlare?
[Il trailer di The man who sold his skin: tra gli attori spicca anche un nome noto al pubblico occidentale, quello di Monica Bellucci]
La storia di Sam Alì, il protagonista del film, è liberamente ispirata a Tim Steiner, l’uomo che ha venduto la sua schiena come opera d’arte, tela dipinta da Wim Delvoye e destinata a passare di proprietario in proprietario, da mostra a mostra, da museo a museo.
Il nostro protagonista però è nato “nel lato sbagliato del mondo”: vendere la sua pelle non è un’opportunità, non è una scelta consapevole, è un passe-partout per scappare all’arresto, alla povertà e raggiungere l’Europa dove la sua amata si è invischiata in un matrimonio di convenienza.
La vita in Siria è limitata solo ai primi minuti del film, da lì in poi quasi interamente ambientato nelle stanze eleganti, simmetriche e algide delle gallerie d’arte.
Sam è un pezzo da esposizione fagocitato dal mondo occidentale, strappato alla dittatura e gettato nella macchina del libero mercato.
[Il protagonista di The man who sold his skin]
Disumanizzato e svuotato, ma mai al punto da non riuscire più a reagire, la parabola di Sam è un’appassionante storia sul traffico di esseri umani, sulle conseguenze del materialismo portato alle sue estreme conseguenze, sull’ipocrisia di chi dovrebbe occuparsi d’arte, un campo la cui paradigmatica apertura mentale viene oscurata dalla megalomania degli artisti di successo e dei collezionisti più abbienti.
The man who sold his skin è anche un’appassionante storia d’amore che resiste al sole della Siria e al vento del Belgio, che si alza libero a distanze siderali, seppur imprigionato prima da un governo che ha occhi ovunque e poi da gabbie di neon e di oro.
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Un altro giro
di Thomas Vinterberg (Danimarca)
Dulcis in fundo: Un altro giro è probabilmente il film più atteso della cinquina.
L'opera di Thomas Vinterberg è stata presentata al Toronto International Film Festival ed è anche candidato per la Miglior Regia.
Brevissimamente la trama: quattro professori, al capo dei quali c’è Martin - interpretato da un Mads Mikkelsen in stato di grazia - decidono di testare su loro stessi la teoria di un filosofo norvegese secondo cui un costante stato di ebbrezza migliori la vita.
[Il trailer di Un altro giro]
Essere brilli di alcol, ma soprattutto essere brilli di vita: l'autore cattura e imprime la ricerca di un guizzo esistenziale che riesca a rendere la vita degna di essere vissuta.
È un flusso vitale che diventa sempre più flebile, sottile, labile con il passare del tempo.
La prestanza fisica e le speranze della gioventù si assottigliano in età adulta: le giornate si reiterano l’una dopo l’altra e i rapporti si adagiano sulla monotonia.
È un processo irreversibile?
L’alcol diventa un motore potente, capace di abbattere i freni inibitori e di restituire una visione gioiosa delle cose, lì dove è stata impolverata dalle incombenze della società; tanto magico quanto pericoloso, perché i rischi dell’abuso sono dietro l’angolo.
Un altro giro è un'ode al vizio come mezzo per recuperare se stessi, all'amicizia, all'importanza del coltivare rapporti.
D'altra parte, come qualsiasi vizio, nasconde in sé delle insidie e lo spettro della dipendenza.
Non era assolutamente banale scrivere un film sull'alcol senza crogiolarsi negli stilemi delle pubblicità progresso sull'alcolismo, ma Vinterberg riesce a mio avviso magistralmente nell'intento.
In un torpore soporifero di giornate che si reiterano sempre uguali Martin scopre di nuovo la voglia di ballare, di fare l’amore, di trasmettere il proprio sapere ai giovani studenti, di ricominciare dopo un fallimento.
[Come si fa a non amare il buon Mads Mikkelsen?]
Per gli appassionati del Cinema europeo il nome di Thomas Vinterberg non è certo un nome nuovo.
Dopo aver iniziato la sua carriera a braccetto con Lars von Trier, con cui ha fondato il movimento Dogma 95, la sua carriera è stata costellata di successi.
Nel 2014 il regista approda agli Oscar con Il sospetto, un altro fortunato sodalizio con Mads Mikkelsen.
Quell’anno però la statuetta si è colorata di bianco, rosso e verde, conquistata da La grande bellezza di Paolo Sorrentino.
Riuscirà Vinterberg a rifarsi quest’anno?
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Per chi tifate? Quale di questi film vi attira di più?
E, se li avete visti, chi premiereste?
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