Articoli

#articoli
La seconda - tortuosa - metà della filmografia di Federico Fellini, a completare la disamina iniziata con la prima parte.
Boccaccio ‘70 (1962)
Piccola digressione dettata dalla cronologia
Per un fattore di logica interna all’articolo non ha molto senso dedicare un intero capitolo, seppur breve, all’episodio diretto da Federico Fellini nel film corale Boccaccio ’70 (affiancato dai tre atti di Mario Monicelli, Luchino Visconti e Vittorio De Sica), ma per rispettare la cronologia della filmografia sono stato costretto a farlo; capirete bene che, nella mia monografia, sia La dolce vita che 8½ meritavano un discorso e uno spazio dedicato.
Perciò eccomi qui a parlare di un prodotto felliniano che mal tollero, forse la summa di tutti quegli elementi cinematografici che non gradisco del regista.
Il Federico Fellini de I vitelloni, Il bidone e La dolce vita è improvvisamente assopito, al suo posto troneggia il clown che prenderà il sopravvento nella maggior parte delle pellicole che seguiranno.
Quest’opera è probabilmente il battesimo di quell’immaginario circense - nella sua accezione più parodistica, lontana dalla tensione spirituale de La strada e Le notti di Cabiria - per il quale viene comunemente e a mio avviso incomprensibilmente ricordato e acclamato Fellini.
In qualche modo è il punto di non ritorno dal quale è nato il sentimento che mi ha portato a scrivere questo articolo.
I primi anni ‘60 sono periodo di cambiamenti per il Cinema italiano.
Il colore, inaugurato in Italia nel ’52 da Totò a colori, prende sempre più piede; dopo anni di esperimenti e brevetti il Cinema scopre una nuova tecnica espressiva: lo zoom.
Questi due nuovi elementi sono motivo di un entusiasmo quasi epifanico per i registi dell’epoca.
Luchino Visconti comincia a utilizzare lo zoom - e potrebbe essere un eufemismo - almeno una volta in ogni scena di qualunque suo film, Michelangelo Antonioni vede nel colore un elemento narrativo fondamentale e lo indaga a fondo ne Il deserto rosso (1964).
Ad unirsi a questo clima di cambiamento La dolce vita, primo film italiano della durata di quasi 3 ore (Cabiria di Giovanni Pastrone fu rimontato nella versione estesa di 181 minuti solamente nel 2006) ha aperto la strada a una serie di progetti dalla durata (allora) non convenzionale.
Boccaccio ’70 - film a colori della durata di 208 minuti - in questo senso si fa contenitore e rappresentante di queste tre novità.
Le tentazioni del dottor Antonio è l’episodio che gira Federico Fellini per il film, il quale coincide con il secondo atto.
I due nuovi elementi (zoom e colore) risultano ai miei occhi d’accompagnamento, qualcosa che non aggiunge nulla alla narrazione, e vengono utilizzati in maniera quasi randomica.
Il tema del sesso e della censura, sulla scia de La dolce vita, torna ad essere motivo di turbamenti spirituali e religiosi, ma l’architettura felliniana in questo caso è fatta, sia figurativamente che concettualmente, di cartapesta.
Fellini, in qualche modo, mette in scena la parodia di se stesso, in un’ottica proto-infantile, semplicistica.
Le maschere grottesche, cuore vivo e pulsante de La dolce vita, sono ridotti in questo breve film a macchiette, a stilizzazioni di caratteri fumettistici (il Cinema non è fatto di carta, ma di celluloide).
L’immagine de Le tentazioni del dottor Antonio dovrebbe essere iconografica, simbolica, un rimando ad altri significati.
A me pare solo una matrioska nevrotica, fatta di fumo e dietrologia.
8½ (1963)
Lettera aperta ai venditori di ghiaccio alla fiera dell’acqua
“Non ho proprio niente da direee!
Ma voglio dirlo lo stesso.”
8½ non è solo il mio film preferito di Federico Fellini, è anche uno dei miei film preferiti in assoluto.
Ed io ho un grosso problema con i miei film preferiti: fatico a parlarne.
Non voglio assolutamente che qualcuno mi rovini (anche senza volerlo, e come io magari avrò fatto più volte nell’articolo) la magia del mistero che si cela dietro a un film che amo perché non comprendo.
“Ma non voglio parlare, tanto cosa c’è da dire?
Parlare delle intenzioni mi sembra sempre un atteggiamento molto goffo, tutto sommato abbastanza insincero e pericoloso.”
Federico Fellini su 8½
Il cinegiornale satirico Ieri oggi domani apostrofava l’ossessione di spiegare l’opera di Fellini così:
“Il popolare regista si è dichiarato soddisfattissimo delle accoglienze ricevute negli Stati Uniti, e del verdetto emesso dai giudici incaricati di assegnare i premi.
Quei giudici infatti hanno dimostrato di aver capito perfettamente tutti i significati e i simbolismi contenuti nel difficile film.
Federico Fellini dal canto suo, felice di aver finalmente trovato qualcuno in grado di capire 8½, ne ha subito approfittato e se l’è fatto spiegare.”
Cosa volete che vi dica?
Che Marcello Mastroianni è l’alter ego di Federico Fellini e Anouk Aimée è l’alter ego di Giulietta Masina?
Che il film nasce dal profondo sentimento di vuoto che invase il regista dopo La dolce vita?
Questo lo scoprireste facendo una ricerca su Google o vedendo direttamente il film.
Non vale la pena leggere un articolo tanto lungo per ritrovar scritta la stessa ridondante manfrina.
Cosa giustifica, nel 2021 come nel 1963, un discorso su un film come 8½? Forse l’asserzione che questo è il modo più sincero e meno filtrato di mettere in scena un’autobiografia?
Che molto probabilmente in 8½ i significati sono i significanti?
Qual è questa fantomatica metafora che si cela dietro ai “simboli” del film?
Possiamo, per una volta, fare uno sforzo intellettuale e provare a pensare che le immagini che scorrono sullo schermo rimandano solo e unicamente a loro stesse?
Ambasciatori dei significati, dell’ontologia delle icone, perché non provate a guardarli, questi film?
Per me 8½ è un flusso di coscienza joyciano, niente di più, niente di meno.
Sono sicuro che Federico Fellini non sapesse sinceramente cosa stesse realizzando e che non fosse pienamente cosciente dei significati ai quali rimandavano le sue visioni, checché ne voglia dire lui stesso a proposito della figura donna - amante - madre.
Fu lui stesso a dire di essersi tenuto lontano da quella che è una visione psicoanalitica del film, anche se l’eco di Carl Jung riverbera in ogni inquadratura.
Senza dubbio il rapporto che l’autore imbastì in quegli anni con lo psicanalista junghiano Ernst Bernhard ha avuto un ruolo preponderante nell’esplorazione onironautica del proprio inconscio.
In quanto tale, questo itinerario tra il letterario e il sensoriale è un percorso interno, ciclostilato tra veglia e sonno nelle illustrazioni dei sogni del cineasta, come imprigionato in una cassaforte psichica (e quindi inespugnabile).
Gli I Ching, e in modo forse più marcato il concetto di sincronicità, erano per Fellini dei tòpoi che chiamava in causa con molta onestà nelle interviste per smascherare quel sentimento acausale che l'ha portato ad abbandonarsi al crearsi del suo stesso film.
Non serve leggere il libro dei mutamenti o l'intera bibliografia di Jung per rendersi conto che la lotta dialettica tra casualità e causalità non è propria del linguaggio di 8½.
Federico Fellini aveva una cinepresa, un set e degli attori.
Immagini, suoni, espressioni, tempo scolpito (per citare Andrej Tarkovskij).
Non è prerogativa del Cinema tutto essere tanto personale e impalpabile (su La dolce vita si può discutere ampiamente sui rimandi esterni delle scene) ma in un film come 8½ è quantomeno ridicolo sforzarsi di imprigionare una singolarità all’interno di una definizione che è troppo logica (e quindi limitata) per lei.
Sarebbe come guardare Koyaanisqatsi convinti di visionare un documentario di National Geographic.
Alcune pellicole si possono spiegare - o meglio, se Christopher Nolan ci risparmiasse il suo aiuto sarebbe stimolante farlo - altre vanno vissute.
Le prime non sono peggio delle seconde, non sono più “alte”: sono diverse.
C’è tanto da capire in Notte e nebbia di Alain Resnais, c’è troppo da imparare in Dying at Grace di Allan King, spesso e volentieri bisognerebbe tentare lo sforzo di guardare Spring Breakers di Harmony Korine sotto una luce diversa.
Ma lasciate in pace 8½.
Giulietta degli spiriti, Tre passi nel delirio, Fellini Satyricon (1965-1969)
"Giulietta degli spiriti, una specie di parodia scialba di 8½, un film dominato dalla insopportabile pazienza negativa della Masina, un pasticcio colorato alle salse più scontate, un reader's digest della media-cultura medio - borghese italiana, è di una banalità e mediocrità sconfortanti.
In Giulietta tutto è ripetizione e maniera."
Goffredo Fofi
Al netto della spietatezza, a mio avviso eccessiva, le parole con cui Fofi descrive l’erede di 8½ su Quaderni piacentini, purtroppo, rispecchia in pieno la mia posizione sul film.
8½ più che mai diventa l’opera cerniera che unisce il primo Federico Fellini al burlone che tanto mi fa arrabbiare.
Giulietta degli spiriti ha la pretesa di comporre un dittico con il suo predecessore, tratteggiando il ritratto cinematografico di Giulietta Masina, la consorte del Maestro.
Il problema principale? Il ritratto si è trasformato in una caricatura.
Fatta salva la scena del teatrino e della messa in scena del rogo, la quale mi ha fatto pensare a un furbo occhiolino a La passione di Giovanna D’Arco di Carl T. Dreyer, tutto il film si articola su scene barocche e tronfie (nella maniera per me più fastidiosa) mettendo in scena un carnevale di vividi colori e virtuosismi in qualche modo fini a se stessi.
Laddove l’iconografia di 8½ mi appariva vacua e pregna di carica visiva ed emozionale, in questo caso la corsa a inscatolare il significato diventa snervante, e la pretesa di dare un vero peso agli spettri di Giulietta è dal mio punto di vista un tentativo più goffo che riuscito di rimandare a un immaginario fantasmagorico.
Laddove il faro per addentrarsi nella palude dell'inscocio di 8½ è stato Bernhard, per Giulietta degli spiriti Fellini si è invaghito della mente trascendente del professore Gustavo Rol, il quale è stato per lui un prezioso consulente sul set del lungometraggio.
Rol, conosciuto soprattutto per essere un sensitivo, ha fatto strada a Federico Fellini nel campo del paranormale.
E proprio come fantasmi che fluttuano per i saloni della villa di Giulietta, la camera ruota attorno ai personaggi, penetra i luoghi nei quali vivono in maniera anche interessante, ma i caratteri burleschi e le scenografie oniriche danno la costante e spiacevole sensazione di vaudeville filmato e non più di film sul vaudeville. Anche la fotografia si fa più didascalica che mai, imbastendo giochi di luce con pretese di pseudo credibilità più simili ad occhi di bue teatrali che a dialoghi chiaroscurali espressivi.
A mio avviso l’unica nota positiva dell'immagine del film è quell’accenno di perturbante che troverà la sua più chiara (ed efficace) espressione nel successivo Toby Dammit.
Nel 1968 esce in Italia Tre passi nel delirio, un film collettivo composto da tre episodi: il primo di Roger Vadim, il secondo di Louis Malle e l’ultimo di Federico Fellini.
Toby Dammit, il frammento felliniano, è per me uno degli argomenti di maggiore interesse nell’intera filmografia del regista.
Il film nella sua totalità non incontra del tutto i miei gusti: Vadim e Malle girano due episodi quasi buttati via e lo stesso Toby Dammit soffre comunque di quella goliardia carnevalesca di Giulietta degli spiriti.
Qualcosa però, in questo caso, ha fatto funzionare l’incantesimo, anche se in parte.
Certamente il sapiente intervento di Giuseppe Rotunno è stato decisivo nel donare nuova linfa vitale (o meglio, mortuale) al “Fellini a colori”.
Il compianto direttore della fotografia ha saputo dipingere una bellissima dicotomia cromatica, disponendo i caldi e i freddi in maniera perfettamente (s)bilanciata, costruendo l’atmosfera ideale per lo psicotico corteo funebre di Fellini.
L’overacting di Terence Stamp si sposa alla perfezione - a differenza della maschera ingenua e passiva della Masina - con il delirio del mondo che Federico Fellini mette in scena.
Le frenetiche carrellate iniziali, le nervose soggettive del protagonista e l’aria funerea delle comparse contribuiscono a restituire quella sensazione di spaesamento visivo che caratterizza il film.
Una cosa in particolare mi affascina di questa operazione, ed è il quadruplice passaggio (visivo) di testimone.
Fellini riprende la bambina di Operazione Paura di Mario Bava, Stanley Kubrick ruba la Ferrari fiammante (Durango 95) che squarcia la notte blu con i suoi fanali per il suo Arancia Meccanica e un ultimo riverbero di questo dialogo cinematografico può intravedersi nella palla rotolante di Una storia vera di David Lynch.
In Toby Dammit Fellini torna a guardare ai classici pilastri espressionisti, rifacendosi a un immaginario e a un sentimento di inquietudine che costituisce in ogni caso il punto di forza di alcune piccole perle sparse qua e là nella cronologia della sua carriera.
Di certo non è piccola (né tantomeno una perla) l’opera successiva: Fellini Satyricon.
Spinto dallo stesso impegno pasoliniano atto a voler dare nuove immagini ai grandi classici della letteratura antica, Federico Fellini si imbarca in un progetto che non ha precedenti (né successivi) nella sua filmografia.
Meno male, dico io.
Il Satyricon di Federico Fellini prende vita nelle immagini spettacolari fotografate nuovamente da Rotunno, all’interno del 2.35:1 (nuova ratio per Fellini) che rimanda all’immaginario kolossal del Cinema di quegli anni.
Oltre a una cura pittorica per l’inquadratura e i colori, questo film ai miei occhi non è altro che una brodaglia di situazioni, per giunta mal digerita. Il carattere eccessivamente teatrale del film depotenzia tutta la costruzione visiva, portando nuovamente la messa in scena di Fellini nella dimensione di teatro filmato.
A quanto pare la stessa opera di Petronio sarebbe impossibile da trasporre data la sua incompletezza che ne compromette la comprensibilità narrativa.
A Federico Fellini questo non importa.
Ciò che deriva da queste operazioni sono a mio avviso prodotti a metà, mal costruiti a causa della loro stessa natura frammentaria.
Ecco cosa penso: il Cinema in più occasioni deve avere il coraggio di fare un passo indietro; lasciamo la Terra di Mezzo tutta (un minuto di silenzio per Peter Jackson) su carta, lasciamo La Fondazione di Asimov su carta e già che ci siamo anche Dune (Alejandro Jodorowsky e David Lynch loro malgrado insegnano, ma ancora una volta Denis Villeneuve non accetta i consigli).
Poi fate come volete: sono per la libertà di parola e di espressione.
Spero solo un giorno di potervi dire “Ve l’avevo detto”; se ciò non dovesse avvenire sarò contentissimo di ricredermi, laddove JRR Tolkien dovesse scendere dall’alto dei cieli per trasformare Il Silmarillion in un romanzo (cosa che non è).
Allora sì: quello che fate (o volete fare) avrebbe senso.
Tanto si può adattare qualsiasi cosa, no?
Aspetto impaziente la trasposizione cinematografica de L'immagine-movimento e L'immagine-tempo di Gilles Deleuze, e spero vivamente non sia firmata Jean-Luc Godard.
Block-notes di un regista, I clowns, Roma (1969-1972)
Nonostante Block-notes di un regista sia cronologicamente precedente a Fellini Satyricon mi sono arrogato il diritto di spostarlo nel capitolo successivo di questa monografia.
Il motivo è lapalissiano.
Tra il 1969 e il 1972 Fellini inaugura un inaspettato e inedito paragrafo della sua produzione filmica: il documentario - o presunto tale, cosa che Fellini Satyricon non è al contrario de I clowns e - in qualche modo - Roma.
Nonostante L’amore in città avesse tutte le intenzioni di essere una rappresentazione della realtà fu proprio l’episodio di Federico Fellini (insieme a quello di Dino Risi e Alberto Lattuada) a rompere la premessa iniziale, mettendo in scena una vera e propria sceneggiatura (ispirata a fatti reali).
Nel 1969 il documentario è terra sconosciuta per Federico Fellini, e il primo esempio di questa deviazione linguistica è appunto Block-notes di un regista.
Il primo documentario di Fellini (prima produzione televisiva per il regista, contattato dalla newyorkese NBC) è sorprendentemente diretto, immediato sia nella forma che nel contenuto.
La promessa del titolo, innanzitutto, è rispettata: appunti visivi, campioni di personaggi, immagini, luoghi, luci si alternano in un caleidoscopio di idee.
Ancora una volta l’entropia felliniana trova terreno fertile, ma a differenza delle sue operazioni per me più astruse assume una giustificazione più solida.
Per la prima volta vediamo in atto lo spirito mitopoietico del cineasta, che in ogni caso ricostruisce gran parte della narrazione.
Cinema verità? No: cinema bugia, citando lo stesso Federico Fellini.
Block-notes di un regista è un autoritratto sincero, ma non realistico. Fellini questa volta usa la caricatura in modo quasi autocritico, confessando su pellicola sia le sue sfumature più dure che quelle più romantiche e patetiche.
È triste pensare che questo gioiellino sia con tutta probabilità il Fellini più dimenticato e passato in sordina, per me (e vi assicuro che non è questo il caso in cui voglio a tutti i costi fare il bastiancontrario) rimane uno dei suoi film migliori.
Non è la prima volta che mi trovo a difendere un’opera quasi ignorata di un regista celebratissimo, mi viene da sorridere a pensare a quante volte abbia dovuto discutere del fatto che sono fermamente convinto che Dionisio nel ’69 sia il miglior film di Brian De Palma con gente che molto probabilmente non l’aveva mai visto.
Forse il pubblico italiano si è diseducato a guardare i documentari; già solo una quarantina di anni fa la Rai ha dato voce a tantissime inchieste dei più acclamati autori italiani.
In questo senso, in un articolo su Federico Fellini - che in ogni caso, tirando le somme, con il Cinema documentario c’entra ben poco - mi ritrovo a dover celebrare Chiara Ferragni Unposted: da qualche parte bisognerà pur ricominciare, dico io.
Se da una parte Block-notes di un regista mi ha fatto auspicare ad un rinsavimento, I clowns conferma le mie perplessità sulla natura inutilmente barocca ed eccessivamente grottesca del secondo Federico Fellini.
Anche questo film si propone come un’ibridazione tra finzione e realtà, ma la manomissione del materiale filmico in questo caso diventa ridondante e autoreferenziale.
Da Lo Sceicco Bianco a 8½ (ed è un vizio che il caro Fellini si porta dietro da Il bidone) i temi musicali più famosi di Nino Rota (e non solo i suoi) risuonano “a rota”, guarda caso.
Per un’ora e mezza si ha la spiacevole sensazione che Federico Fellini stia ricostruendo le stesse atmosfere, gli stessi sapori e profumi dei suoi lavori precedenti, in un film che perde tutta la sua credibilità quando, affossato dalle grandi saghe felliniane, si propone di punto in bianco di ripercorrere la storia dei clown e dei circhi più celebri.
Il sentimento angoscioso di 8½ è diventato reale, Fellini non ha davvero quasi più niente da dire e quest’ultimo esempio si configura come una vera e propria seduta di (auto)analisi in cui ci invita, senza che nessuno glielo abbia chiesto.
Ma per fortuna (mia) nel 1972 esce nelle sale Roma.
Sono cosciente del fatto che stia per imbattermi in un gigantesco controsenso quando dico che Roma è un film che adoro.
Ci sono tutti gli stilemi del Fellini che non gradisco affatto, tutte le faccette, le maschere sornione e le parate carnevalesche.
Non mi importa di cadere in contraddizione e so di aver fatto un’affermazione in parte mendace quando ho definito Roma un documentario, ma permettete di spiegarmi meglio.
Il lungometraggio è un continuo dialogo tra il delirio festivo dei caratteri felliniani e le atmosfere sospese di una Roma fuori dal tempo e dallo spazio.
Questa pellicola è una contraddizione continua tra immagini e suoni, una lotta atavica tra lo spirituale e il folkloristico, il racconto dell’Italia a Roma e della sua inadeguatezza al fascino sublime delle sue forme.
In questo è un film profondamente reale, attendibile. La protagonista è sempre la città, negli oscuri antri delle case di borgata squarciati dalla sua luce violenta dell’esterno, negli spettacoli del varietà, tempio dell’arroganza e della miseria.
Roma è inafferrabile, Fellini la segue nella sua fuga continua con un’instancabile macchina da presa, che scivola nei pertugi più stretti tra gli ingorghi sul GRA e nelle profondità più recondite del suo sottosuolo, in sequenze che ricordano il Solaris di Andrej Tarkovskij nella penetrazione quasi erotica dei carrelli nei tunnel della metropolitana.
Non è più un insieme di quadri come La dolce vita, ma una galleria di statue in continua estensione di profondità, è un fluido nel quale l’occhio vigile della mdp si immerge e cambia costantemente direzione.
Ancora una volta Federico Fellini tiene d’occhio gli esempi del passato: le city symphonies inaugurate da Walter Ruttman, Jean Vigo, Joris Ivens e Dziga Vertov rivivono 50 anni dopo in quello che è un gruppo scultoreo spietato sul passato e sul presente dell’antica Roma.
Se Federico Fellini dirigesse lo stesso film oggi i protagonisti probabilmente sarebbero i trapper, i rich kid, le hypebae e gli influencer, nel 1972 (girato nel 1971) erano gli hippies, i sessantottini e i biker.
Amarcord (1973)
Federico, sei sicuro di ricordarti bene?
Sovente Amarcord viene citato come uno dei più appassionati autoritratti cinematografici di tutti i tempi; io rispetto ogni parere ma non sono assolutamente d’accordo.
Più che un ricordo distorto dagli occhi innocenti di un giovane ragazzo romagnolo, a me sembra una riuscitissima commedia sexy demenziale anni '70, quasi sulla scia - e non scherzo - di Quel gran pezzo dell'Ubalda tutta nuda tutta calda di Mariano Laurenti, guarda caso uscito solo un anno prima - e guarda un altro caso interpretato da Edwige Fenech, una delle attrici prese in considerazione da Fellini per il ruolo della Gradisca in Amarcord.
Chissà che ne direbbe Jung da un punto di vista sincronico di queste casualità.
Grasse risate, per me nulla di più.
Sarà un mio limite, ma ho sempre faticato a cogliere quel senso romantico e melanconico della pellicola.
Al contrario, la goliardia burlesca e fantasiosa del dottor Antonio torna imperterrita e più invadente che mai. L’intento picaresco del film è evidente, eppure si scorge in lontananza un tentativo di far emergere delle atmosfere idilliache, legate agli spensierati e magici anni dell’adolescenza.
Tentativo, a mio avviso, più che fallito.
Ho la spiacevole sensazione che questo teatrino di memorie nasconda la premessa "I giovani ai miei tempi, a Rimini...", probabilmente figlia dell'esecrazione di Fellini nei confronti della nuova faccia industriale e sfavillante della sua città natale.
Questa pietanza già surgelata che è per me Amarcord viene ulteriormente raffreddata dall’espediente più che mai letterario e arrugginito del narratore onnisciente, figura che trasforma ancora di più quello che vuole essere un album di ricordi in una favoletta morale per adulti italiani (nel senso provinciale che Stanis La Rochelle attribuirebbe a questa categoria) a cui piace crogiolarsi nel loro passato di taralllucci, vino e gnocca.
Tra gli appassionati occasionali, infatti, questo film non è altro che una raccolta di meme da citare in un commento sotto qualche post sui social network: alla fine ai miei occhi non è altro che un film per boomer.
Da parte mia, l’unica cosa che ho potuto fare per Amarcord in questo frangente è dedicargli un capitolo intero.
In questo modo spero di aver fatto trasparire tutto il sincero rispetto che nutro verso il culto che questo film ha creato, donandogli uno spazio esclusivo.
D’altronde non deve essere un caso se vinse il quarto Premio Oscar per il Miglior Film in Lingua Straniera firmato Federico Fellini.
In conclusione, per spiegarvi ancora meglio il sentimento che provo nei confronti di questa opera felliniana, vorrei citare (estrapolandolo dal suo contesto) un frammento di Autobiografia di uno spettatore di Italo Calvino, un brano che fa da introduzione al libro Quattro film dello stesso Fellini.
“[…]Dovrei allora parlare della commedia satirica di costume che per tutti gli Anni Settanta ha costituito la produzione media italiana tipo.
Nella più parte dei casi la trovo detestabile, perché quanto più la caricatura dei nostri comportamenti sociali vuol essere spietata tanto più si rivela compiaciuta e indulgente; in altri casi la trovo simpatica e bonaria, con un ottimismo che resta miracolosamente genuino, ma allora sento che non mi fa fare passi avanti nella conoscenza di noi stessi.
Insomma, guardarci direttamente allo specchio è difficile.
La vitalità italiana è giusto che incanti gli stranieri ma che lasci freddo me. […]”
Il Casanova di Federico Fellini e Prova d’orchestra (1976-1979)
Siamo nel 1976 quando, finalmente, Fellini porta nelle sale quella che rimane probabilmente la sua fatica più sudata: Il Casanova di Federico Fellini.
La seconda metà degli anni ’70 è terreno prolifico per i film in costume, solo un anno prima Stanley Kubrick aveva concluso il suo Barry Lyndon, film con il quale Il Casanova ha dovuto, in un modo o nell’altro, fare i conti.
Come nel capolavoro kubrickiano, si respira in ogni sequenza de Il Casanova l’intento di creare un’opera grande e prorompente. Ciò che penso io è che nel secondo caso questa aspettativa è stata in parte disattesa.
Non fraintendetemi: alla fine Il Casanova è un film che mi piace molto e trovo che, a differenza del cugino Satyricon, sia stato imbastito su di un testo che meglio si confà all’immaginario felliniano.
I cortei carnevaleschi (per definizione, questa volta) e gli amplessi bislacchi di Giacomo Casanova sono materiale perfetto per la messa in scena sfarzosa del regista.
Anche la fotografia del grande Giuseppe Rotunno trova la sua massima espressione in quella che è una rappresentazione più che mai pittorica della borghesia del XVIII secolo.
In questo senso Il Casanova è un film riuscitissimo.
Ciò che ancora una volta non mi convince del tutto è l’atmosfera da casa delle bambole che aleggia per tutta la durata del film, esplicitata più volte dalle enormi e sfarzose scenografie così volutamente contraffatte e irreali, che hanno per me un senso vero e proprio solo nella sequenza finale del sogno, dato appunto lo scarto tra veglia e onirismo.
Questa tendenza a rivelare il trucco sembra quasi una timida giustificazione per la natura grottesca (e a tratti soprannaturale) delle situazioni mostrate nel film.
A tutti gli effetti Il Casanova rimane però un grande film, grande nelle immagini, nelle interpretazioni, nei costumi (altro Oscar) e nella ricostruzione filmica seppur non propriamente realistica dell’Europa del 1700.
Il Casanova cede il posto a Prova d’orchestra nel 1979, un film poco considerato oggi come allora e dallo stesso Federico Fellini ingiustamente svalutato.
Personalmente Prova d’orchestra mi ha affascinato al pari dei miei Fellini preferiti, assicurandosi un posto d’onore nella cernita delle pellicole che apprezzo di più del regista.
Il carattere allegorico del lungometraggio, in questo caso, non è invadente e non pretende chissà quale sforzo intellettuale, ponendo allo spettatore dinnanzi a differenti livelli di lettura.
In un caso non è difficile immaginare che Fellini abbia riversato tutte le sue preoccupazioni da “direttore di set” nel direttore dell’orchestra, composta (non a caso) da personaggi profondamente felliniani, nelle loro espressioni e nelle loro azioni.
Una gabbia di matti, certo, ma forse il senso autocritico della pellicola spazza via quella patina di egocentrismo che nei film precedenti costituiva un filtro quanto meno importante.
La profonda difficoltà di reggere il timone della nave (che andrà, qualche anno più tardi) è un tema incarnato tanto dal direttore quanto da Fellini stesso, che ancora una volta mette in scena i turbamenti di un suo ipotetico alterego.
Torna il quesito principe che da 8½ tormenta le notti del regista: forse manca il silenzio, forse si stanno spendendo troppe parole, troppe note.
Quasi come una beffa a questo pensiero, a poche settimane dall’inizio della produzione, il sodalizio artistico con Nino Rota si sgretola di fronte allo sguardo inerme di Fellini, che viene a sapere ironicamente sul set di Prova d’orchestra che il musicista è spirato.
Facendo appello a un sentimento di rivolta che tanto ricorda quello studentesco del 1968, il cineasta mette in scena la sua personale manifestazione violenta, fatta di oscenità, di sconcezze, di grida e di patetismo.
Tòpoi che si ribellano al direttore, come bestie che attaccano il loro stesso padrone.
La sala prove (il set) diventa una prigione da sfondare, come la villa de L’angelo sterminatore di Luis Buñuel.
Uno spazio che si trasforma insieme ai suoi abitatori e si sgretola e decade tanto quanto i loro animi.
In ogni fotogramma del film e in quell’ultima palla da demolizione si intravedono i primi rossori di un cielo proiettato verso l’imbrunire: il crepuscolo artistico di un grande narratore.
La città delle donne, E la nave va, Ginger e Fred (1980-1986)
Conosciamoci meglio.
Prima di esprimere i miei dubbi a proposito de La città delle donne è doveroso premettere una cosa.
Provo un sincero sentimento di ripudio nei confronti di tutte quelle pellicole che sberleffano senza ritegno il loro spettatore. Chi ha visto questo film di Fellini dovrebbe aver già capito cosa mi turba.
Per tutti gli altri: non accetto di vedere un’ora e mezza (che in questo caso sono due e un quarto) di film solo per scoprire alla fine che si tratta di un sogno, di un’ipotesi, di un “ma se…”.
È una soluzione facile, fanciullesca.
Come ho più volte scritto sono apertissimo al confronto: vorrei infatti che un giorno tutti gli estimatori di Donnie Darko mi spiegassero come fanno a non sentirsi presi in giro da una narrazione che si auto-annichila con questo espediente desueto.
Qui il film non ti sta chiedendo di rivalutare tutto ciò che hai visto in un’altra ottica (come può essere il caso di Fight Club o I soliti sospetti), in questo caso il regista ti sta proprio dicendo che tutto ciò che hai appena visto è fuffa, frutto di un ingranaggio narrativo e nulla più.
Non si tratta di onirismo, di rimando al sogno; si tratta al contrario di banalizzare questo immaginario pretendendo di dargli esplicitamente una soluzione logica.
Neanche in Mulholland Drive, che è probabilmente il più esplicito esempio lynchiano di ribaltamento situazionale causato da un risveglio, c’è mai una vera risposta alla domanda iniziale, tutto vive nello stesso macrouniverso sinergico del film, nessuno ci prende a schiaffi da un’altrove.
Forse questo poteva funzionare 150 anni fa con Alice nel Paese delle Meraviglie, ma nel 1980 era già passata troppa acqua sotto ai ponti.
Cosa importa dunque se nelle due ore precedenti Fellini ha messo in piedi un film che si colloca nuovamente tra 8½ e Giulietta degli spiriti, divenendo una sorta di erede del primo, tristemente compromesso dall'eco del secondo?
Cosa vi posso raccontare di questo film, di questo viaggio barocco e surreale in cui sicuramente Fellini ha guardato attentamente a La clessidra di Wojciech Has?
Cosa importa se, alla fine, “era tutto un sogno”?
A me, nulla.
Perciò ecco cosa penso de La città delle donne: non saprei che cosa altro aggiungere.
Fellini continua poi imperterrito la sua supercazzo(r)a con E la nave va.
Negli ultimi anni della sua carriera il cineasta riminese si è lasciato decisamente andare dandosi più volte la zappa sui piedi, e in questo senso E la nave va compone ironicamente un dittico con La città delle donne.
Anche in questo caso, seppur la sequenza iniziale costituisca uno dei momenti di Cinema più alto e puro dell’intera filmografia felliniana, tutto cade in un espediente finale che svela il trucco (e uccide la magia) del film stesso.
Nella Storia del Cinema un solo regista è riuscito a farmi sorridere con il colpo di coda “era tutto un film”, e quel regista è Alejandro Jodorowsky nel finale de La montagna sacra, ma in questo caso la scelta viene comunque inserita in un discorso di svuotamento del significato e di costruzione di un'immagine più che mai rivolta a se stessa, quindi il film che filma se stesso è la conclusione perfetta del discorso.
Salvo alcuni specifici esempi, il metacinema ai miei occhi non è mai stato troppo interessante, è come l’immagine stessa dell’auto-masturbazione, specie se - come nel caso di E la nave va - è completamente ingiustificato.
Il film di per sé non lo trovo malaccio, forse un po’ stopposo e ripetitivo, ancora una volta con un narratore che si rivolge agli spettatori spezzando continuamente il flusso del discorso e senza una vera e propria identità visiva, anche se non è difficile scorgere nel finale (nella sua tragedia lirica) una plausibile fonte di ispirazione per James Cameron e il suo Titanic (1997).
In ultimo, per chiudere la parentesi “Fellini fa gli scherzoni”, vorrei porre l’accento su di un’altra mia perplessità: come già succedeva ne Il Casanova e in Amarcord, il mare di E la nave va viene rappresentato da un tessuto di plastica fatto svolazzare.
È un peccato che il mare, l’amico sempre presente tanto nella vita quanto nelle opere del regista, che finalmente diventa location principale di un’opera di Fellini, venga ancora una volta banalizzato con questa ostinazione a girare nel Teatro 5 di Cinecittà, anche quando il Teatro 5 non è il luogo adatto per girare.
Nel 1986 è il turno di Ginger e Fred, uno spietato quanto mellifluo ritratto di un’Italia in continua mutazione, messa in atto in ogni dove dalla frenesia orwelliana dello schermo televisivo.
La televisione italiana non è più quel mezzo di istruzione che fu negli anni ’50, bensì uno strumento di contraffazione e bombardamento d’immagini.
Con quest’opera Fellini si mette nuovamente a nudo, raccontando (se così mi permettete di asserire) una terza età di Guido Anselmi.
Come un resoconto dei tempi che furono ecco tornare i suoi tre alter ego principali: l’ingenua e spaesata Giulietta Masina, il beffardo Marcello Mastroianni e l’irriverente Franco Fabrizi.
Ginger e Fred è un saluto a quella spensieratezza, a quei profumi e a quella felicità che hanno lasciato il posto a un’Italia al neon, a un’indigestione di immagini e icone sempre più invadenti - questa volta in un'ottica più condivisibile e meno discriminatoria di Amarcord.
Sulla condanna del medium televisivo (e non più dei tempi correnti) Federico Fellini lavorerà moltissimo, tanto che nel 1992 Tatti Sanguineti raccolse materiale sufficiente a realizzare una raccolta lunga mezz'ora dei falsi spot girati dal regista per Ginger e Fred.
I simboli - pubblicitari - in ultima istanza vengono privati della loro stessa natura, lo sforzo è quello di appiattire ad un unico e immediato significato: il qui e ora.
Questa filosofia dell'immagine effimera, usa e getta, ironicamente ricorda il rapporto tra il trucco prostatico, la realtà e il sogno del precedente Brazil di Terry Gilliam, la quale visione cinematografica deve moltissimo all'immaginario fellininiano.
In questo tempo regalato, imprevisto (quanto il sovraccarico energetico del finale) che è Ginger e Fred, Fellini gira il suo film più romantico, ingiustamente dimenticato e poco citato in quello che dovrebbe essere un efficiente quadro d’insieme.
Il Cinema è certamente immagine, ma in primo luogo è tempo, una caratteristica decisamente esclusiva nel campo delle discipline artistiche.
In Ginger e Fred il tempo è più che mai presente, in uno scorrimento inarrestabile di momenti che non tornano, di spazi dimenticati e di buio.
Dal buio veniamo e al buio ritorniamo, in una realistica e perpetua confessione: Federico Fellini è iniziato con il buio della sala, e nel buio della sala sta per concludersi.
Intervista e La voce della luna (1987-1990)
Ahimé la conclusione, sempre più prossima, di questa epopea felliniana si traduce in un ottundimento di quello spirito mesmerico e poetico che ha caratterizzato gran parte della produzione del regista.
Intervista è per me quanto di più misero sia mai stato fatto da parte di un autore che il mondo ha voluto incoronare “mostro sacro” della cinematografia.
Quegli intenti autobiografici che apprezzavo molto nei primi lavori, meno nei secondi, si sono trasformati in manie di grandezza, in una gigantesca giostra di auto-erotismo e di feticismo quasi sadico nei confronti della decadenza delle forme, della giovinezza e degli anni passati.
Federico Fellini vuole dire al mondo che è giunto alla pericolosissima presa di coscienza di sapere di essere Federico Fellini.
Nino Rota, le marcette, il circo, il Teatro 5, gli alter ego, la bassa manovalanza romana.
Ok, ho capito.
Voi no?
Diciamo le cose come stanno: Intervista non è altro che un Fellini Show di due ore dove il regista (si) mette in mostra tramite una mendacità fin troppo sfacciata (il documentario Ciao Federico! di Gideon Bachmann ne è la prova schiacciante: le carezze agli attori le dava a pugno chiuso).
Due ore, queste, in cui vediamo costantemente Fellini seduto a brache calate sulla tavolozza del suo water a masturbarsi sulle glorie passate.
Il film che filma il film nel film: neanche Gaspar Noé è mai arrivato a tali livelli di autocelebrazione, in sequenze patetiche che spettacolarizzano in un’ottica schifosamente retorica una Anita Ekberg divorata dal tempo, che si specchia nel riflesso di un immagine che non esiste più e che è appunto un'ombra, un fanstama.
Eppure, facendo lo sforzo di guardare questo Intervista con occhi più clementi, questa doccia di celebrità e di mancanza di inventiva nasconde già l’angoscia de La voce della luna, il definitivo e sofferto addio al Cinema di Federico Fellini.
Seppur secondo me quest’ultima pellicola non sia fantastica e in qualche modo sveli senza più remore il definitivo spegnimento di quella vitalità visiva che mi aveva fatto sognare con La dolce vita e 8½, è un’operazione da non sottovalutare.
Quel sentimento antropologico, un po’ giocoso e vacuo, adesso è un monologo escatologico.
Lo sguardo dolceamaro dietro la macchina da presa è greve e ingrigito come un pachiderma.
Certo per me La voce della luna manca di sapidità, di espressione, ma ne rimango comunque affascinato, come se stessi guardando dritto negli occhi un uomo sul letto di morte, intento a lottare con tutte le sue forze per poter ancora esalare quegli ultimi, timidi respiri.
Si percepisce l’odore acre, cinereo della morte fin dalla prima sequenza: la notte non è più il principio dell’attesa dell’alba, ma l’anticamera dell'abbandono dell’esistenza.
Forse La voce della luna mi ha generato un sentimento di pietà - nel senso buono ed empatico del termine - nei confronti di un uomo che si aggrappa con tutte e dieci le unghie delle mani alla vita, ma senza più energie, scivolando com’è logico e fattuale in un oltre sconosciuto, spaventoso e affascinante allo stesso tempo.
Nonostante tutta questa onerosa fatica, sul finale Federico Fellini vuole regalarci la chiave di lettura più semplice e diretta alla sua opera omnia:
“Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire.”
È con queste parole che ci saluta - e invalida le mie e le vostre ciance - un pezzetto di Storia del Cinema, che piaccia (come a molti) o che non piaccia (come a me?).
________________
Conclusione
Delusi?
È probabile che la risposta alla stupida domanda iniziale, a fronte dell’itinerario analitico che ho percorso, sia questa: no, Federico Fellini non è da ridimensionare, non è sopravvalutato.
Purtroppo però, un po’ come l’illusorio calcolo logaritmico, il mio cervello non somma gli addendi con tale facilità.
Potremmo dire che quello che abbiamo davanti non sia né un bicchiere pieno né un bicchiere vuoto.
Io però sono molto più disturbato dalla metà vuota che incantato dalla metà piena.
Ecco la motivazione della mia perplessità nel sentire spesso glorificato a tutto tondo un regista che non ha mantenuto, per i miei gusti, una soddisfacente continuità.
________________
Bibliografia e filmografia
Per scrivere quest’articolo ho fatto riferimento a tre testi:
Fare un film di Federico Fellini
Storia del Cinema. Un’introduzione. di David Bordwell e Kristin Thompson
Cinema: cent’anni di Storia di René Prédal
Oltre ad alcuni film interessanti (e altri meno) sull'argomento:
Ciao Federico! di Gideon Bachmann
L’ultima sequenza di Mario Sesti
La tivù di Fellini di Tatti Sanguineti
In morte di Federico Fellini di Sergio Zavoli
Fellini a New York di Paolo Aleotti
Che strano chiamarsi Federico di Ettore Scola
Fellini fine mai di Eugenio Cappuccio
Fellini degli spiriti di Anselma Dell’Olio
Articoli
Articoli
Articoli