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In a Silent Way: un documentario sullo spirito dei Talk e Talk e su Mark Hollis senza poter usare la loro musica.
"Il percorso era diventato più importante del risultato"
Da una delle interviste sui Talk Talk nel documentario In a Silent Way
Queste parole basterebbero per descrivere il documentario del regista belga Gwenaël Breës: il film infatti non solo racconta il percorso artistico dei Talk Talk e in particolare del cantante Mark Hollis, durante la realizzazione dei loro ultimi due album - Spirit of Eden (1988) e Laughing Stock (1991) - ma anche l'epopea che si cela dietro la produzione di questo documentario e lo spirito che li accomuna.
[Trailer di In a Silent Way]
In a Silent Way inizia raccontando quello che è stato il cruccio principale della sua realizzazione: il divieto di usare pezzi e qualsiasi riferimento all'immagine dei Talk Talk, e del frontman in particolare, per la realizzazione del film.
Uno scoglio che da solo basterebbe a far affondare la nave sognata da Breës, grandissimo fan della band synth-pop inglese che viene da molti riconosciuta come la madre del post-rock.
In particolare il regista ha un rapporto quasi religioso con Spirit of Eden, così come lo aveva Hollis stesso, e con tutti gli ultimi lavori dei Talk Talk.
"That's unnecessary strong"
Una delle reazioni alla lettera di diffida a proseguire con In a Silent Way
Da questo inconveniente nasce un'opera che ha una doppia natura: da un lato l'esaltazione della mente dietro al progetto, del suo processo di ricerca e il racconto di ciò che è stata la sua musica, dall'altra la realizzazione di un documentario così punk sin dalla sua genesi.
Il regista sembra proprio aver detto "Non ci danno la musica e noi lo facciamo lo stesso".
[Un dettaglio della cover di Spirit of Eden, album dei Talk Talk, vero faro di In a Silent Way]
L'intento, come l'autore stesso ha spiegato durante la presentazione in questa edizione di Seeyousound, era decisamente più alto e voleva essere la rappresentazione della loro musica e di ciò che ha significato per lui, un tributo a un'opera per lui importantissima, ma il cantante, da sempre restio a far parlare altro rispetto alla sua musica, non ne ha voluto sapere.
Questo risulta essere uno degli elementi più interessanti del film, che nasce proprio dai suoi limiti.
Il grande minutaggio che l'autore belga dedica alla ricerca di suoni del suo microfonista e al racconto del suo rapporto con il crepuscolo dei Talk Talk ci racconta perfettamente il processo creativo che accomuna, almeno nelle volontà di Breës, In a Silent Way e Spirit of Eden: rompere gli schemi e le regole per restituire qualcosa di più vero e profondo di ciò che il canone consentirebbe.
Il vuoto lasciato dalla musica infatti rieccheggia nelle sequenze del microfonista del film, che con il suo boom raccoglie suoni di ambiente, delle foglie e mille altri rumori che poi comporranno insieme a immagini di luoghi vuoti, di foglie e della natura incontaminata gran parte di In a Silent Way.
[La presentazione di In a Silent Way con Gwenaël Breës a Seeyousound]
A poco a poco tutto questo diventa sempre più presente e lampante.
Tanto più il film avanza, tanto si svuota delle immagini di repertorio delle varie ospitate negli studi televisivi (prima tra tutte quella in un programma condotto da Mike Bongiorno) e della presenza dei giovani volti dei quattro musicisti per lasciar spazio al focus che ha ossessionato il frontman negli ultimi anni all'interno della band: la creazione di un mondo musicale che trovasse nel caos, nella casualità della ricerca e nella natura una nuova via, silente e ieratica.
Un parallelo perfetto tra forma e contenuto che restituisce da un lato la libertà che questo processo sottende, dall'altra la narrazione lacunosa di questo documentario che segue il progressivo allontanamento dai riflettori della band.
Che dietro al mondo dei Talk Talk ci fosse qualcosa in più Breës lo mette in chiaro costantemente sfruttando anche un'intervista in cui Hollis parla proprio di Jean-Paul Sartre tra i suoi riferimenti, non un nome a caso visto quanto abbiamo detto, ma questa è forse uno dei difetti principali del film: non fosse per il rapporto con l'autore, pochissimo ci viene detto sul perché riscoprire la band inglese.
[Il boom operator di In a Silent Way, il più presente nel film di Mark Hollis]
Il frontman però odiava i riflettori e si rivedeva perfettamente nelle parole di Frank Zappa: "Parlare di musica è come ballare a proposito dell'architettura".
Il film ci mostra benissimo questo progressivo allontanamento dalla scena e dalla città alla ricerca della natura in un perfetto parallelismo con la parabola di Hollis che tra dipendenze, depressione e un'ossessione sempre maggiore per la ricerca artistica si è completamente chiuso in se stesso.
Nella sua reticenza si inserisce il tema del ricordo, infatti In a Silent Way spesso accosta la grandezza del rapporto tra Breës e la musica dei Talk Talk e il modo in cui il pubblico inglese li ha completamente dimenticati, così come uno dei simboli che il regista belga semina all'interno del film: lo studio in cui furono registrati i loro album e i grandi successi dei Clash e dei Sex Pistols che ormai è stato venduto e dimenticato a cui viene dedicata una lunga intervista.
Il primo tentativo di ovviare all'assenza di musica da parte dell'autore in questo senso è emblematico: mettere insieme una band che non conosceva le opere dei Talk Talk e dati gli stessi obbiettivi e qualche linea tematica provare a ricreare qualcosa che avesse la stessa anima.
Il tutto è reso ancora più vicino alla spontaneità che ha mosso la produzione di Hollis dal fatto che, proprio quando Breës, a un punto avanzato della realizzazione di In a Silent Way e nonostante tutti i rifiuti del cantante, stava per mandargli parte del girato prima di iniziare il montaggio, nella speranza di una qualche licenza rispetto ai primi no, il frontman è mancato rendendo ancora più nette le restrizioni.
Questo ha modificato ulteriormente i piani del film e ha riportato il cantante dei Talk Talk - probabilmente malvolentieri - all'interno del film in un in memoriam finale.
[Phill Brown, famoso audio engineer che ha lavorato con Traffic, Led Zeppelin, David Bowie, Cat Stevens, Bob Marley e i Talk Talk, nell'intervista in In a Silent Way]
Nonostante tutte le difficoltà il film riesce nel suo intento di raccontare un processo creativo unico fatto di luci stroboscopiche, un luogo isolato e il solo fluire della musica che ha generato Spirit of Eden e Laughing Stock e forse, nonostante tutto, Hollis un pochino sarebbe stato felice del risultato.
Proprio nella sua faziosità e nella sua lacunosità però In a Silent Way trova anche alcune delle sue più grandi pecche, risultando talvolta troppo chiuso sulla visione di Breës di quel processo e soffermandosi eccessivamente sul suo rapporto affettivo con la band: questo tra l'altro viene spesso fatto attraverso dei voice-over troppo lunghi e che portano un po' lo spettatore fuori dalle ottime idee che il film mette in campo.
Anche alcuni dei momenti in cui il regista si mostra all'interno del film sembrano accessori e non abbastanza legati al resto dell'opera, in una spinta autoreferenziale di cui probabilmente In a Silent Way non sentiva la necessità.
Allo stesso modo la prima parte del film risulta troppo legata a un documentario di interviste e proprio in queste manca di quella vena visiva e artistica trovata nelle sue parti più slegate dal racconto.
Nonostante tutto è un'opera che lascia più di uno spunto interessante e che sembra inserirsi perfettamente in questa edizione di Seeyousound, festival che, interrotto nel 2020 per colpa della COVID-19, ora si ritrova, limitato come l'autore di In a Silent Way, nella sua nuova veste online, ma che cerca di sfruttarla per creare qualcosa dello stesso valore, se non superiore.