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Donne ai primi passi, noto anche come Cuties o con il titolo originale Mignonnes, è il film di Maïmouma Doucouré premiato al Sundance Film Festival: distribuito dalla piattaforma più cattiva del mondo, è costato a Netflix 9 miliardi di dollari.
La pellicola è stata accusata di iper-sessualizzare le bambine sin dalle pose scelte per la locandina del mercato USA.
Anticipo innanzitutto che per chi scrive la profondità del messaggio non inficia la qualità di un film; d'altra parte è bene puntualizzare che pochissime sono le opere che esulano dal loro messaggio.
Di qui l'eterno dilemma: quanto il tema di un film ne preclude la visione?
[Il trailer italiano di Donne ai primi passi]
Per quanto riguarda Donne ai primi passi mi pare ben chiaro l'approccio del pubblico, in particolare quello statunitense: il film della giovane regista franco-senegalese è diventato un feticcio da immolare, il capro espiatorio da utilizzare per lavare la coscienza.
Cancellare questo film vuol dire salvare una generazione di bambini candidi dalla degenerazione del mondo moderno.
A questo punto, per chi non avesse seguito questa vicenda, è bene precisare che Donne ai primi passi non è un film arthouse nato da un rapporto sodomita tra Harmony Korine e Lars von Trier, ma un racconto di formazione che mostra il passaggio di una bambina all'età adulta: c'è il difficile compromesso tra culture diverse, la rivelazione della solidarietà femminile, la scoperta di se stessi e del proprio corpo tramite il ballo e la sensualità.
Se c'è qualcosa che emerge con prepotenza in Donne ai primi passi è proprio quanto l'immagine delle ragazzine diventi facilmente mercificabile e come questa compravendita delle immagini sia semplificata dai social media.
[Tremate tremate! Le streghe son tornate!]
Non so se fossi strana io, ma quando andavo alle scuole elementari ero solita accendere la radio, inserire un CD, spegnere le luci della mia cameretta e iniziare a ballare sulle note di Britney Spears, imitando le sue pose da scolaretta bricconcella con le treccine e canticchiando parole ben poco innocenti come "Give me a sign, hit me baby one more time."
Alle scuole medie la parola "sesso" correva poi di bocca in bocca a una velocità tale da far impallidire la luce e le lezioni erano disturbate da un continuo rumore di fondo, tra barzellette sconce e prototipi di fake news in salsa hot.
I ragazzini, o addirittura i bambini, sono incuriositi dalla sessualità: fa parte dell'ordine naturale delle cose ed è intrinseco nell'essere umano in quanto animale.
Se un viaggiatore del tempo avesse filmato tutto con uno smartphone probabilmente qualche opinionista avrebbe esposto la mia comunissima e noiosa età prepuberale in un programma televisivo alla mercé di psichiatri venduti al tubo catodico da decenni.
Fra le tragedie vissute da noi millennials fortunatamente non c'è quella della sovraesposizione mediatica.
[Della serie "si stava meglio quando si stava peggio": Britney Spears, il tipico idolo delle ragazzine nate negli anni '90]
Questo volo pindarico nel cielo dei fatti miei si ricollega banalmente a Donne ai primi passi; scandalizzarsi dei ragazzini solo perché emulano la sessualità degli adulti non solo non ha senso, ma travisa tutto quello il film vuole comunicare.
Essere sexy è un gioco innocuo fino a quando il loro modo di ballare ammiccante non le porterà a vincere un concorso.
Sono gli adulti a legittimare le protagoniste e a spingere Amy, la più fragile, in una spirale di menzogne e umiliazioni.
È bene ricordare a questo punto un altro film, un cult amato da chiunque abbia un cuoricino a battere tra le ossa del torace: Little Miss Sunshine di Jonathan Dayton e Valerie Faris.
Il film racconta la storia di Olive, una bambina con un sogno: diventare una reginetta di bellezza.
A questo scopo si allena e si prepara giorno e notte, allenata da un nonnino a dir poco tutto pepe, senza rendersi conto di non avere la fisicità stereotipata richiesta per essere una baby-star.
[Il trailer di Little Miss Sunshine con un cast stellare: Paul Dano, Toni Collette, Greg Kinnear, Steve Carrell, Bryan Cranston, Dean Norris ecc ecc]
Sfregando via il tono da commedia del film vediamo come Little Miss Sunshine scardini tutte le certezze della società medio-borghese statunitense: il culto del successo a tutti i costi, la supremazia culturale accademica, l'esaltazione del self-made man, la retorica del "volere è potere", persino la celebrazione della vecchiaia come simbolo di saggezza.
Nonostante la confezione buffa e colorata Little Miss Sunshine nasconde un messaggio ben più arguto, congeniato e in un certo senso più violento di Donne ai primi passi.
Pensiamo al momento in cui la buffa e grassottella Olive si esibisce sul palco, dopo le mini-Barbie biondissime, magrissime e abbronzatissime.
Le altre concorrenti si esibiscono in spettacolini classici e ripetitivi.
Il ballo di Olive ha degli espliciti riferimenti sessuali, una gestualità evidentemente erotica.
Il pubblico del concorso va in escandescenza, imbarazzato e incattivito.
Lo spettatore da casa invece ride e tifa per Olive, per il suo coraggio, per la sua unicità in mezzo a quei cloni.
A questo punto viene da chiederci perché questa disparità di trattamento da parte dell'opinione pubblica.
Il fatto che Little Miss Sunshine sia una commedia sopra le righe condita tutto sommato da una massiccia, ma apprezzatissima, dose di buoni sentimenti non vuol dire che si esaurisca nella linea comica: tutt'altro.
Siamo sicuri però che l'esibizione di Olive nella vita reale verrebbe accolta con un dolce sorriso?
Forse la maggioranza sogghignerebbe per il suo aspetto o si indignerebbe per il suo movimento pelvico.
Little Miss Sunshine è un film del 2006: cosa sarebbe successo se, ambientato nell'era degli smartphone, qualcuno l'avesse filmata e resa virale?
C'è forse stato bisogno di specificare con un disclaimer che, nonostante la danza scordinata e sexy, non era certo Olive la vera bambina oggetto?
Ovviamente no.
[Little Miss Sunshine: contro il bodyshaming dal 2006]
Allo stesso modo Donne ai primi passi non necessita di una scritta sovraimpressione che spieghi tutte le sue scelte di scrittura e di regia.
Se Maïmouma Doucouré ha scelto di fare dei primi piani sui glutei piatti di undicenni in leggins non lo ha fatto per sollazzare le fantasie erotiche di nessuno e, se questo è successo, non è certo colpa della regista.
Tutt'altro: dovrebbe mettere lo spettatore malpensante davanti alla propria malizia, o peggio.
Mettere a disagio l'utenza è una delle prime armi dell'arte per sensibilizzare su un tema.
Aggiungiamo poi che Amy, la protagonista principale di Donne ai primi passi, reagisce riappropriandosi in modo così deciso della propria sessualità in risposta alla rigida educazione islamica che tende a nascondere il corpo femminile, ritenuto la fonte principale del peccato.
Mostrarsi bella e disinibita diventa una sfida al contesto in cui è cresciuta.
Olive viene maggiormente compresa perché è più facile sentirci simili a lei: buffe in mezzo a ragazze che ci sembrano perfette e rotondette in mezzo a modelli statuari.
La storia di Amy è più lontana e la mancanza di empatia dimostra quanto i perbenisti siano carenti in intelligenza emotiva.
Abbiamo parlato di Olive e di Amy, di Little Miss Sunshine e di Donne ai primi passi, per arrivare a un assunto: la sessualità nei ragazzini è naturale e una sana scoperta del proprio corpo, delle sue possibilità e dei suoi limiti (anche sessuali) non può che essere auspicabile.
Non c'è da meravigliarsi se c'è chi ritienga l'educazione sessuale superflua o addirittura una forma di depravazione quando ci sono migliaia di persone pronte a firmare petizioni per boicottare Netflix.
[Non è un freak e nemmeno una parodia: è una vera bambina di Little Miss America e ha tra i 7 e i 9 anni di età]
Nell'occhio del ciclone non c'è solo Donne ai primi passi, ma anche un cartone animato: Big Mouth.
Si tratta di una sitcom animata dove si parla liberamente di masturbazione, accettazione di se stessi, del proprio corpo, dei cambiamenti, bisessualità, omosessualità, contraccezione, senza trascurare problemi familiari e depressione.
I ragazzini in piena fase di sviluppo - brufolosi e un po' deformi come si è in quegli anni - vengono accompagnati durante la crescita da delle creature chiamate Mostri degli Ormoni.
Non c'è da meravigliarsi se sia stata subito presa di mira dalla comunità alt-right di 4chan e altri forum decisamente discutibili.
[Andrew, uno dei protagonisti di Big Mouth, con il suo Mostro degli Ormoni di nome Maurice]
Fahrenheit 451 - sia il romanzo sia la bellissima trasposizione cinematografica di François Truffaut - ci ha insegnato cosa significhi bruciare libri, non c'è bisogno di un altro esempio che ci spieghi cosa comporti bruciare pellicole.
Viene dunque spontaneo chiedersi: è peggio un balletto erotico fatto tra amichette per gioco dopo la scuola o essere esposti al pubblico ludibrio come carne dal macellaio?
Non parliamo solo di ragazzine oscenamente truccate durante i concorsi di bellezza ma anche di baby-influencer e baby star, ragazzini di età inferiore ai 14 anni gettati davanti ai riflettori dei talk show come sacchi di patate, magari in quanto inventori di qualche tormentone beota su TikTok o in quanto pretesto di genitori famosi che non vogliono essere dimenticati dallo showbusiness.
Fin quando però non viene esplicitato il fattore sessuale va tutto bene; si accetta anche un sistema che cannibalizza gli spazi intimi dei bambini, per poi vomitarli nell'oblio quando non servono più.
L'importante è che si salvino le apparenze e che ci si nasconda dietro il ditino dell'assenza di sessualizzazione.
Ne sa qualcosa non solo l'innominabile regina del trash televisivo nostrano, ma anche la TV di Stato in prima serata quando mostra piccoli talenti dimenarsi nella sinuosa ed esplicitamente erotica danza del ventre.
[Matty il biondo, 11 anni e già star del web: quanto durerà prima di essere sostituito da un altro piccolo fenomeno?]
L'accusa più ridicola mossa alla regista di Donne ai primi passi è quella di pedofilia.
A prescindere dalla sacrosanta sensibilità personale mi pare che solo discutere di una calunnia di tale portata sia paradossale.
Secondo le frange più conservatrici, il solo essersi avvalsa del corpo di ragazzine così piccole è aspramente condannabile, non comprendendo che il realismo della messinscena risulta spesso fondamentale nella trasmissione di un'idea.
Le uniche persone a cui deve essere ben spiegato il messaggio di certi film sono proprio le attrici protagoniste che si prestano a interpretare alcune scene sicuramente scomode; agli spettatori mi pare serva soltanto un bignami di comprensione delle immagini, perché è inaccettabile che nell'era dei social media si sia ancora totalmente incapaci di comprendere alcune scelte estetiche e registiche senza un ausilio testuale.
Non che il film debba necessariamente piacere o debbano piacere i modi con cui certi temi delicatissimi vengano esposti.
È bene parlarne, è bene anche discordare.
È male però farne una caccia alle streghe, accusando una giovane regista dai metodi nemmeno troppo anticonformisti di qualcosa di così agghiacciante come la pedofilia o l'istigazione a questa.
Anche solo rimanendo all'interno dei confini francesi, nel 2001 è stato distribuito A mia sorella! di Catherine Breillat.
Per i non addetti ai lavori: la sessualità e le perversioni sono sempre stati temi cardini nella filmografia di questa regista francese, oggi ultrasettantenne.
[Il trailer di A mia sorella! di Catherine Breillat]
A mia sorella! racconta la storia di Anaïs, una dodicenne altoborghese in sovrappeso con un rapporto complicato con il cibo e con la sua patinatissima famiglia, in particolare con sua sorella Elena con la quale intrattiene un tira e molla di odio, invidia, amore, stima.
Anaïs ingaggia con Elena una competizione che non può vincere: Elena è bella, elegante e persino il suo modo romantico di intendere la sessualità rientra nelle aspettative.
Lei, oltre a non essere esteticamente attraente, è anche tormentata da pensieri sessuali, praticamente sull'orlo della depravazione.
Repressa, inascoltata e infelice, Anaïs si nutre delle esperienze di Elena e, alla fine, si libererà dalle catene imposte e auto-imposte in un modo violento e agghiacciante.
[Anaïs Pingot, la protagonista di A mia sorella!]
Anche Fantasie di una tredicenne, film - addirittura - del 1972 del regista ceco Jaromil Jireš, utilizza la metafora del vampirismo per parlare della crescita sessuale di una ragazza di nome Valerie.
L'attrice scelta è una vera e propria ninfetta, termine coniato da Vladimir Nabokov per parlare della sua Lolita e descrivere ragazzine che, parafrasando, hanno un fascino ultraterreno, quasi demoniaco, in grado di irretire uomini fragili (miei poveri, piccoli fiocchi di neve).
Non c'è miglior film che questo per descrivere proprio la natura sovrannaturale della ninfetta; la bellissima Valerie, oltre a venire ripresa nuda più di una volta, si lascia trascinare spesso e volentieri in una spirale orgiastica e incestuosa dai caratteri fantasy e orrorifici.
[Il trailer di Fantasie di una tredicenne, tratto dal romanzo il cui titolo originale è Valeria e la serttimana delle meraviglia]
I film di Jaromil Jireš e Catherine Breillat non sono opere pornografiche e ancor meno istigano alla pedofilia.
Per quanto siano stati entrambi film tagliuzzati, censurati, criticati, non hanno certamente smosso l'opinione pubblica come Donne ai primi passi.
Bastano solo le sinossi per capire che A mia sorella! e Fantasie di una tredicenne sono stati sicuramente più provocatori.
I film di Breillat e Jireš sono due pellicole che parlano di come la perversione si insinui in contesti repressivi, sono film che raccontano di come la sessualità sia un seme intrinseco nell'essere umano fin dalla tenera età.
[Valerie, la protagonista di Fantasie di una tredicenne]
Sta all'adulto accompagnare i ragazzini alla scoperta di loro stessi; non zittirli, non idealizzarli, non reprimerli, non ignorarli.
Ignorare questa componente dell'essere umano potrebbe provocare l'effetto opposto.
L'Arte, in questo caso il Cinema, serve anche a scandagliare delle componenti dell'animo umano che non emergono con la stessa potenza tramite un taglio documentaristico o accademico.
È chiaro che il rischio di incorrere nella pornografia della violenza e nell'estetizzazione della molestia diventa tanto più sottile quanto più l'argomento diventa delicato.
Non si tratta di libertinismo: si tratta di ragionevolezza, di non lasciarsi trascinare da un progressismo talmente spinto da fare il giro e ricongiungersi al conservatorismo più oscurantista.
L'Arte va capita, analizzata, amata, ma anche discussa, criticata e contestualizzata.
Quel che è certo è che sicuramente non va cancellata.