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Probabilmente, chi conosce il Cinema proposto da Bong Joon-ho da prima del recente exploit di Parasite, ultimo travolgente successo del regista sudcoreano, non sarà rimasto particolarmente sorpreso dal consenso quasi unanime raccolto dalla pellicola.
Per il semplice fatto che, osservando questo artista, la sua storia pregressa, la cifra stilistica dei suoi lavori (scritti e diretti) e dei suoi riferimenti cinematografici, era abbastanza semplice supporre che si trattasse di un predestinato del mondo del Cinema.
E il recente poker di Oscar portato a casa ne è l'ennesima dimostrazione.
Bong Joon-ho nasce il 14 settembre 1969 nella Città Metropolitana di Taegu.
Appassionato di Cinema sin dall'infanzia (ha dichiarato di aver visto per la prima volta Psyco di Alfred Hitchcock all'età di 8 anni!), durante gli anni all'università di Yonsei entra a far parte del Cineclub accademico, grazie al quale ha modo di conoscere pellicole di maestri come Henri-Georges Clouzot, John Schlesinger, Hou Hsiao-hsien e Shōhei Imamura.
[Non l'ho citato fra i suoi registi di riferimento, ma sono piuttosto sicuro che Bong Joon-ho apprezzi il Quentin...]
Laureatosi in Sociologia - percorso di studi che, come vedremo, lo influenzerà negli anni a venire - Bong, nel 1994, scrive e dirige i suoi primi cortometraggi: Peureimsogui gieokdeul e Ji-ri-myeol-lyeol, due drammi a sfondo sociale.
Dopo esperimenti iniziali dietro la macchina da presa, il regista di Taegu continua la propria esperienza nel mondo del Cinema come sceneggiatore, co-firmando gli script di Motel Catus (1997) - film a episodi diretto da Park Ki-yong - e l'action-thriller con sottomarini nucleari Yuryeong (1999) di Min Byung-chun.
Il 2000 è l'anno del primo lungometraggio, una commedia folle e amara, Barking dogs never bite.
Negli anni successivi, il Cinema di Bong Joon-ho si impone all'attenzione del pubblico e della critica con il trittico di produzioni sudcoreane Memories of murder (2003), The Host (2006) e Madeo (2009), inframezzate da Shaking Tokyo, episodio del film collettivo Tokyo! (2008), co-diretto assieme a Michel Gondry e Leos Carax.
[Un giovanissimo Bong Joon-ho sul set di Memories of murder]
Per chi non avesse familiarità con il Cinema sudcoreano è necessario sottolineare come la narrativa cinematografica del Paese dei cinque petali, specialmente negli ultimi anni, abbia una forte connotazione di denuncia sociale rispetto a tutte le "storture" proprie della penisola asiatica.
Che si parli di pastellose favole di (mala)sanità, servizi di informazione che minimizzano gli effetti di una pandemia zombie o cartoni animati caustici rispetto religione e polizia, poco importa: per i cineasti sudcoreani il Cinema è anche una potentissima arma per criticare ciò che non funziona nel loro sistema socio-culturale-governativo.
Come accade spesso anche nelle produzioni dei "cugini" nipponici, le pellicole della penisola rosso-blu cerchiata trasmettono all'occhio dello spettatore occidentale un disagio sociale profondo, dove la spaccatura fra le classi abbienti e quelle più povere è ormai giunta a una profondità incolmabile, dalla quale è impossibile emergere e dove la rassegnazione pare essere l'unica strada percorribile.
[Song Kang-ho in Parasite presta il volto a una lotta di classe impossibile da vincere]
In uno Stato dove le istituzioni non si curano del benessere del cittadino e i media sono pilotati e assoggettati al potere, l'immagine trasmessa - a prescidere dal "genere" dei film presi in visione - è quella di un popolo educato all'unità, al pensiero dominante di "tante teste per un solo, grande, organismo" (anche questo un assioma accostabile agli amici del Sol Levante), ma che nella mera realtà dei fatti - e dei frame proposti - si trasforma in un "tutti contro tutti", dove i poveri e i deboli si azzannano fra loro - più o meno incosapevolmente - mentre l'alta borghesia sorride, indisturbata, libera di fare i propri porci comodi.
Se c'è un regista/sceneggiatore che è riuscito a esemplificare questi concetti, declinandoli in una rosa di generi ampissima - dal dramma al moster movie - è proprio l'affamato Bong Joon-ho che, finalmente, sta conquistando un'attenzione artistica di scala mondiale grazie al suo ultimo, splendido, lavoro in pellicola.
[Bong Joon-ho "dona" la sua Palma d'Oro a Song Kang-ho, amico e collaboratore in tanti film]
Un autore di questo livello, dotato di un immaginario così fervido, variegato ed elegante, non poteva che emergere, generando curiosità da parte di addetti ai lavori troppo occupati a guardare a occidente e di un pubblico abituato a distribuzioni poco asian-friendly.
Un cineasta con un tale ascendente - in un contesto cinematografico di questo tipo, dove molti sono intenti a osservare solo ciò che viene partorito nel proprio emisfero - è di per sé una notizia oltre a creare felicità nel cuore di chi ama la Settima Arte in maniera trasversale, accogliendo il "nuovo" e il "diverso" come manna dal cielo.
Bong Joon-ho, insieme a Park Chan-Wook, Lee Chan-dong, Kim Ki-duk, Kim Ji-woon, Hong Sang-soo, Yeon Sang-ho (e altri ancora) è il rappresentante di una sorta di new wave sudcoreana con la quale, si spera, ci troveremo tutti a fare i conti molto presto.
In attesa di questo epocale evento semi-fantascientifico non ci resta che goderci il momento di gloria del Cinema sudcoreano e di uno dei suoi figli prediletti, Bong Joon-ho, scoprendo assieme la nascita e lo sviluppo della sua parabola in continua ascesa.
Mentre Far East Film Festival e Florence Korea Film Fest sparano i fuochi d'artificio.
[Avete scoperto che vi piace il cinema sudcoreano? Fatevi un giro in Toscana o in Friuli in primavera!]
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Barking Dogs Never Bite
(플란다스의 개, Flanders-ui Gae), 2000
scritto da Bong Joon-ho, Song Ji-ho, Derek Son Tae-woong
direttore della fotografia: Jo Yong-gyu
genere: commedia, drammatico
Ko Yun-ju (Lee Sung-jae) è un professore universitario senza cattedra e dal futuro incerto.
Costretto ad appoggiarsi unicamente alla moglie incinta e al suo stipendio per poter andare avanti, l'uomo vive in uno stato continuo di frustrazione e impotenza.
Oltre a essere sottoposto alle ripetute angherie della consorte, Ko è tormentato dall'abbaiare perpetuo dei cagnetti che vivono nel suo condominio.
In preda a un attacco di lucida follia prima, con coscienza e premeditazione in seguito, Yun-ju si adopererà per mettere fine al tormento arrecatogli dai piccoli quadrupedi dei vicini.
Le sparizioni improvvise degli animali coinvolgeranno anche la segretaria Park Hyun-nam (Bae Doo-na) - che investigherà sul caso - e il custode del palazzo con una grande passione per i cani (Byun Hee-bong).
Al netto di un montaggio non sempre efficace e alcune soluzioni narrative comode, Barking Dogs Never Bite è un'opera prima di pregevolissima fattura.
Soprattutto per l'intelligenza e la lucidità del suo regista, perfettamente in grado di sopperire con idee e tecnica alle mancanze - spesso fisiologiche - proprie del primo cimento cinematografico.
Se le disponibilità di budget sono limitate, Bong dimostra a chi osserva come sia possibile coinvolgere lo spettatore con una colonna sonora scandita da un jazz incalzante (ottime le musiche di Jo Seong-woo) o trascinarlo dentro a un'inquadratura grazie alle scenografie studiate da Hang Lee e incorniciate dagli "scuri" del DoP Jo Yong-gyu.
Se anche l'esperienza dietro la macchina da presa è limitata, Bong Joon-ho si affida e dirige - dandogli briglia sciolta - un eccezionale Byun Hee-bong e la giovane Bae Doo-na, attori che incroceranno nuovamente la strada del regista di Taegu.
I cambi di atmosfera, che zompettano sornioni dalla commedia grottesca al dramma, passando persino per l'horror, sono frequenti e orchestrati attraverso la giusta dose di ironia: il tenebroso (ma anche ultra comico) racconto dell'orrore attorno al fuoco sul mostro/fantasma Boiler Kim ne è la brillante e divertentissima dimostrazione.
[Barking Dogs Never Bite in frame. Clicca sull'immagine per visualizzare la gallery]
Barking Dogs Never Bite, pur essendo l'opera "più debole" di Bong, ha una caratteristica essenziale per carriera di qualsiasi cineasta: è un lavoro riconoscibile e facilmente ascrivibile al suo creatore.
Nella scrittura, nella messa in scena, nelle idee di ripresa e fotografia si riesce chiaramente a distinguere la mano e il senso estetico che permeeranno i successivi lavori del regista sudcoreano.
Il che non è cosa da poco.
n.b: va da sé che il film sia altamente sconsigliato per chi non tollera la rappresentazione di violenze su pucciosi animali indifesi.
Rotten Tomatoes - Media Critica: / (0 votanti)
Rotten Tomatoes - Media Pubblico 78% (1.300 votanti)
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Memories of murder
(살인의 추억; Sar-in-ui chu-eok), 2003
scritto da Bong Joon-ho, Kim Kwang-rim, Shim Sung-bo
direttore della fotografia: Kim Hyung-ku
genere: thriller, drammatico
Un paesino della desolata provincia sudcoreana è sconvolto da un serial-killer che, nelle notti di pioggia, violenta e uccide le sfortunate ragazze che incrociano il suo cammino.
Le forze di polizia sono completamente impreparate ad affrontare l'emergenza: non ci sono i mezzi tecnico-scientifici per portare avanti un'indagine così complessa e i poliziotti del paesino di campagna sono completamente inadeguati per il compito.
A dirigere le indagini c'è infatti il detective sempliciotto e ignorante Park Du-man (Song Kang-ho, che diverrà "l'attore feticcio" di Bong Joon-ho), al quale si aggiungerà in seguito il civile e pragmatico investigatore Seo Tae-yun (Kim Sang-kyung), giunto dalla Polizia metropolitana di Seul per aiutare i colleghi nella caccia all'assassino.
A coordinare le operazioni dall'alto c'è il comico sergente Gu Hee-bong, interpretato con maestria da Byun Hee-bong, altro collaboratore abituale di Bong Joon-ho.
Quella raccontata da Bong Joon-ho è una storia malinconica ma vivace, dotata di personaggi tratteggiati con grande nitidezza e dove l'ineluttabilità dello scorrere del tempo - che, noncurante, sciacqua via peccati e orrori passati - lascia in eredità solo echi sbiaditi e ricordi dolorosi.
La sceneggiatura, presentata attraverso una regia attenta e una fotografia splendida ma non sbandierata, ci mostra una popolazione in stato di semi-abbandono, dove i cittadini sono sì alla mercè di un mostro omicida, ma soprattutto di poliziotti ottusi e senza umanità che, per raggiungere lo scopo desiderato, sono capaci di intimidire, seviziare ed estrocere confessioni (che sanno benissimo essere fasulle) persino da ritardati mentali poco più che pubescenti.
La verità è una scelta opinabile che, comunque vada, il tempo si trascinerà via.
[Memories of murder in frame. Clicca sull'immagine per visualizzare la gallery]
La trama del film, tratta dal romanzo Come and see me di Kim Kwam-ring (anche sceneggiatore della pellicola), prende spunto da un fatto reale di cronaca nera: gli omicidi portati a schermo sono infatti quelli commessi da un serial-killer che falcidiò la cittadina Hwaseong fra il 1986 e il 1991.
Secondo il parere di chi scrive, Memories of murder è sicuramente uno dei migliori thriller dell'ultimo ventennio.
E, indovinate un po'?
In Italia è uscito direttamente in home video il 29 maggio 2007, a più di 4 anni di distanza dalla prima distribuzione.
Scelta lungimirante, non credete?
Rotten Tomatoes - Media Critica: 90% (40 votanti)
Rotten Tomatoes - Media Pubblico 94% (11.045 votanti)
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The Host
(괴물, Gwoemul), 2006
scritto da Bong Joon-ho, Won-jun Ha, Chul-hyun Baek
direttore della fotografia: Kim Hyung-ku
genere: horror, drammatico, fantascienza
Una coppia di anatomopatologi di Seul decide incautamente di "smaltire" 200 litri di formaldeide versandoli nel lavandino del loro laboratorio.
L'agente chimico finisce nel fiume Han generando un gigantesco mostro anfibio che, sbranando e rapendo vittime innocenti, comincerà a terrorizzare la capitale sudcoreana trovando riparo nelle sue fognature.
Fra le molte famiglie colpite dai tragici avvenimenti ci sono i Park, eterogeneo nucleo familiare formato dall'anziano capofamiglia Hie-bong (Byun Hee-bong al terzo film con Joon-ho), il primogenito pigro e fannullone Gang-du (Song Kang-ho, alla sua seconda collaborazione col regista) con il quale gestisce un chiosco sulle rive del fiume, la figlia Nam-joo (Bae Doo-na che ritorna dopo Barking Dogs Never Bite) atleta professionista di tiro con l'arco e Nam-il, uomo d'affari, nonché il più "inquadrato" dei tre fratelli.
Quando la figlia dell'inetto Gang-du, Hyun-seo (Go Ah-sung), data per morta tra le fauci del mostro si scoprirà invece essere in vita, i Park cominceranno a lottare (con grandi difficoltà) per avere la possibilità di salvarla.
The Host, dietro la maschera e le dinamiche action da moster movie e alcuni topoi visti e rivisti (il mostro non è quello con le zanne), in realtà, nasconde ben di più di una CGI all'epoca impressionante (per l'occhio contemporaneo abbastanza videoludica) e sequenze cariche di tensione per la presenza dell'orribile creatura.
Fra le pieghe del secondo lungometraggio di Bong Joon-ho, oltre all'iniziale stoccata ambientalista ("chi è causa del suo mal..."), si evidenziano alcune delle "storture" di cui si accenava in apertura dell'articolo.
Nello specifico, è chiaro il martellamento verso un governo incapace, praticamente incurante del bene del cittadino, che si esprime per mezzo di apparati televisivi e stampa che blaterano menzogne per gran parte della storia.
Non a caso l'ultima azione compiuta da Gang-du, uno dei protagonisti del film, è proprio quella di spegnere il televisore (se considerate questo uno spoiler fatevi ricoverare).
[The Host in frame. Clicca sull'immagine per visualizzare la gallery]
Una delle caratteristiche più pregevoli del film, oltre alle ottime performance del cast (dopo Barking Dogs Never Bite e Memories of murder, ancora una volta Byun Hee-bong sugli scudi) e alla buona fotografia di Kim Hyung-ku (qui, a differenza della prima collaborazione con Bong, siamo su un gusto leggermente più "americano"), sono i cambi di tono del film (protagonisti anche in Parasite), specialmente nello snodo di sceneggiatura - con tanto di sequenza semi horror - utile a mettere alla gogna anche il sistema sanitario e i suoi appartenenti.
La regia di Bong è - come sempre - ordinata, attenta nella sua incessante raccolta di dettagli e particolari brillanti e funzionale nelle sue dinamiche prettamente narrative, meno in quelle dove l'azione dovrebbe essere predominante (un piccolo difetto che, secondo il parere di chi scrive, si può notare anche nelle opere successive del regista, Snowpiercer in testa).
Rotten Tomatoes - Media Critica: 93% (155 votanti)
Rotten Tomatoes - Media Pubblico 72% (177.957 votanti)
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Tokyo!
(Episodio Shaking Tokyo), 2008
scritto da Bong Joon-ho
direttore della fotografia: Jun Fukamoto
genere: romantico, drammatico, fantastico
Tokyo! è un film collettivo del 2008 diviso in tre segmenti scritti e diretti da altrettanti registi: Michel Gondry, Leos Carax e Bong Joon-ho.
L'idea della produzione multi-nazione (Germania, Francia, Corea del Sud e Giappone) di far raccontare a tre non-giapponesi la mostruosa e caotica metropoli, descrivendone peculiarità e manie, risultò assolutamente vincente.
[Che trio! Da sinistra verso destra: Michel Gondry, Leos Carax, Bong Joon-ho]
L'insediamento di una coppia nipponica nella capitale, raccontato nel capitolo Interior Design, è visibilmente e genuinamente un prodotto di marca gondriana.
Il senso di "utilità civile" (e, conseguentemente, di inutilità) proprio della società giapponese, viene mostrato - assieme ai disagi emotivi e psicologici che essa produce - dal regista francese con quel tocco di poesia, magica e dolce (a tratti anche inquietante), che caratterizza la sua cinematografia.
Interior design è l'apriporta ideale per l'episodio diretto da Leos Carax, Merde, ossia la materializzazione di uno dei peggiori incubi del Paese del Sol Levante: il singolo - mostruoso, innaturale e non prevedibile - che vuole distruggere con frenesia (e apparente illogicità) l'unità del popolo giapponese.
Monsieur Merde (lo vedremo riapparire nel successivo film di Carax, Holy Motors) è infatti una creatura ferina che si nasconde nelle fognature di Tokyo, pronta a emergere mordendo, sbraitando e uccidendo cittadini indifesi con modalità sempre più assurde e crudeli.
Pur non essendo un lungometraggio, l'inserimento nell'articolo di Shaking Tokyo, terzo e ultimo segmento del film, oltre a essere funzionale alla segnalazione di un prodotto riuscito come Tokyo!, è interessante per osservare e comprendere come Bong Joon-ho si sia confrontato con uno dei temi sociali "caldi" - e prettamente giapponese, nonostante la recente esplosione del fenomeno anche in occidente - come quello degli hikikomori*.
Un ragazzo vive il suo stato di autoreclusione con una metodicità zen.
La macchina da presa si muove nella piccola casa di Tokyo dell'hikikomori con precisione, raccontandoci una quotidianità eterna fatta di pisolini sul water, pasti consumati in piedi e muraglie di libri e cartoni per pizza accatastati con una metodologia ossessivo-compulsiva.
L'auto-isolato senza nome vive una realtà fatta di una routine dove ogni cosa è cadenzata da uno schema prestabilito, e una rigida tabella dove il venerdì significa pizza-day.
Un giorno, dopo dieci anni che il suo sguardo non incontrava quello di un altro essere umano, la pony express della pizzeria catturerà la sua attenzione, risvegliando - come un terremoto - la sua capacità di amare, di essere umano e di confrontarsi col mondo esterno.
[Tokyo! in frame. Clicca sull'immagine per visualizzare la gallery]
Quella di Shaking Tokyo è una favola metropolitana moderna che, grazie alla fotografia delicata di Jun Fukamoto e alla scrittura intelligente di Bong, riesce a leggere - finalmente con un po' di speranza - una delle piaghe sociali (insieme al suicidio) più oscure e desolanti della storia del Giappone moderno.
*Gli Hikikomori (引きこもり o 引き籠も: letteralmente "isolarsi") sono coloro che decidono di ritirarsi dalla società civile rinchiudendosi in casa per vivere in solitudine assoluta.
Il fenomeno, patologico e con una sua sintomatologia (depressione, automisofobia, agorafobia, manie di persecuzione e comportamenti ossessivo-compulsivi) definita dallo psicologo Tamaki Saitō, è nato in Giappone negli anni '80 ed è ascrivibile a un disagio sociale diffuso prevalentemente fra i giovani.
Le cause sono alquanto varie: si va dal rifiuto della rigida cultura ed educazione tradizionale giapponese, problemi familiari, l'elevata competitività propria della nazione, la negazione della società di massa e il conseguente autoisolamento come affermazione del singolo.
Rotten Tomatoes - Media Critica: 76% (66 votanti)
Rotten Tomatoes - Media Pubblico 72% (12.110 votanti)
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Madre
(마더, Madeo), 2009
scritto da Bong Joon-ho, Won-jun Ha, Park Eun-kyo
direttore della fotografia: Hong Kyung-pyo
genere: thriller, drammatico
Yoon Do-joon (Won Bin) è un giovane affetto da un deficit mentale che lo porta ad essere spesso incompreso e bersagliato dagli insulti e dalle scorrettezze delle persone che ha attorno.
Il ragazzo, succube di una madre a cui è legato da un rapporto a dir poco morboso, vive le sue giornate bighellonando per il paesello di provincia dove hanno luogo le vicende insieme all'amico Jin-tae (Jin Ku).
[Bong Joon-ho sul set di Madeo - Madre]
La mattina di un giorno qualunque, viene ritrovato il corpo di una ragazza, brutalmente assassinata durante la notte.
Alcuni indizi circostanziali conducono fino a Do-Joon che, senza troppe cerimonie, viene tratto in arresto e condannato dai parenti della vittima, dalla stampa e dall'opinione pubblica.
Nonostante il caso venga sommariamente (e immediatamente) chiuso, la madre del ragazzo, Hye-ja (Kim Hye-ja), cercherà in ogni modo di trovare il vero colpevole scagionando di conseguenza il figlio innocente.
Fin dove si può spingere l'amore di una madre disperata?
Dopo aver osservato Memories of murder con gli occhi della meraviglia, per lo spettatore Madre può avere l'aspetto di una conferma, la schiacciante controprova di come thriller e dramma siano le vesti che "calzano" meglio sulle pellicole di di Joon-ho.
La tragedia quotidiana di una madre e un figlio, due emarginati, in lotta perenne contro un sistema dominato dagli abusi di potere, dalle meschinità dei propri concittadini e da divisioni sociali insanabili è raccontata con stile e forocia dalla macchina da presa di Bong.
Nel film, costruito su un'ideologica struttura circolare, c'è tanto.
Tantissimo.
C'è una denuncia straziante e quasi sommessa, c'è la fotografia di Hong Kyung-pyo - che sa quando andare a scavare nei dettagli e quando concedere il respiro di un CL o un CLL - oltre alle musiche di Lee Byung-woo che si abbinano con aderenza alle immagini proposte.
[Madre in frame. Clicca sull'immagine per visualizzare la gallery]
Ma, soprattutto, c'è la performace eccezionale di Kim Hye-ja che riesce a donare un'intensità pazzesca alla sua madre, in tutte le sue folli, tenere e dolorosissime sfaccettature.
Gli elementi sopracitati si amalgamano alla perfezione sotto la regia attenta e curata di Bong Joon-ho che, al suo quarto lungometraggio, riesce a scrivere e dirigere un gioiello di rara eleganza e bellezza.
Prima dell'arrivo di Parasite, medie alla mano, Madre - insieme a Memories of murder - rappresentava l'apice della filmografia del regista sudcoreano.
Ma le gerarchie, si sa, sono fatte per essere sovvertite.
Per nostra fortuna.
Rotten Tomatoes - Media Critica: 96% (114 votanti)
Rotten Tomatoes - Media Pubblico 89% (16.045 votanti)
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Snowpiercer
(설국열차, Seolgug-yeolcha), 2013
scritto da Bong Joon-ho, Kelly Masterson
direttore della fotografia: Hong Kyung-pyo
genere: azione, fantascienza, post-apocalittico, drammatico
Il 2013 è l'anno della prima co-produzione con gli Stati Uniti d'America di Bong Joon-ho.
Fattore ben visibile, nelle sue luci ma anche nelle sue ombre.
Al cast stellare di Bong, composto da professionisti di livello assoluto come Tilda Swinton, John Hurt, Ed Harris e Chris Evans, si aggiunge l'inseparabile collaboratore Song Kang-ho in un ruolo chiave del film.
[Bong Joon-ho operatore di macchina su uno dei vagoni del suo Snowpiercer]
Anno domini 2031: il mondo è morto, congelato sotto i gelidi venti di una nuova era glaciale.
Il genere umano è quasi estinto.
Quel "quasi" è rappresantato dal treno chiamato "Snowpiercer" la cui motrice - alimentata da un motore apparentemente eterno - trascina i vagoni in un moto perpetuo su una monorotaia che circumnaviga il globo terrestre.
La locomotiva e il suo percorso sono stati progettati e realizzati dal magnate multimilionario Wilford (Ed Harris) che - leggende narrano - aveva previsto l'arrivo della catastrofe.
Per i pochi sopravvissuti, la vita sul treno è un microcosmo che replica l'attuale sistema sociale di stampo capitalista dove i benestanti vivono nei vagoni di testa fra lusso, luce e comfort mentre i poveracci tirano a campare nella lercia oscurità delle carrozze posteriori, cibandosi - quando va bene - di disgustose barrette gelatinose dal contenuto misterioso.
Scoppierà la rivolta?
Tratto dal romanzo grafico del 1982 Le Transperceneige di Jacques Lob e Jean-Marc Rochette, Snowpiercer aveva l'aspetto del progetto ideale per Bong Joon-ho sia per i temi affrontati sia per l'universo narrativo fantastico da portare sullo schermo.
Il risultato finale è un qualcosa di estremamente difficile da analizzare in maniera sintetica dato che, al suo interno, ci sono molti fattori in contrasto fra loro.
Proviamo a procedere con ordine.
Il "sistema sociale in miniatura" del treno, nel suo aspetto descrittivo, è semplicemente sbalorditivo.
La sensazione di angustia, di sozzume e miseria dei vagoni poveri è catturata con forza dalla cinepresa di Bong, supportato dal buon lavoro fotografico di Hong Kyung-pyo (alla sua seconda collaborazione col regista dopo Madre); le dinamiche e le gerarchie che regolano la vita del treno sono esplicate attraverso la buona scrittura di alcuni personaggi - specialmente "i cattivi" super-caricati - che consente una discreta immersione all'interno degli avvenimenti.
Nello specifico, restano nella memoria le performance di Tilda Swinton (mostruosa in ogni senso) nei panni di Mason e quella del magnetico Ed Harris che impersona - con la consueta bravura - Wilford, il divino demiurgo del treno.
Tuttavia, quello affrontato dal film non è solo un discorso socio-politico: Snowpiercer parla di dogmi, di morale e di equilibri che si muovono sul filo del rasoio del caos.
Argomenti che si sviluppano in uno slow burn narrativo che incespica un po' nel primo e secondo atto per poi deflagrare con violenza nel finale.
[Snowpiercer in frame. Clicca sull'immagine per visualizzare la gallery]
A fare da contraltare agli aspetti più che positivi, ci sono una CGI cheap, una fotografia che, personalmente, mi ha trasmesso la sensazione di essere buona, anzi eccellente per ampi tratti, ma "ingabbiata" in molti altri, forse per soddisfare il gusto un po' yankee del pubblico occidentale.
Come nel caso di The Host, la composizione delle scene d'azione, con la complicità di un montaggio non sempre all'altezza e ralenti insistiti, risulta riuscita solo in minima parte.
A completare "le pecche" del film ci sono un Chris Evans (e qui è giusto sparare un bel: secondo me) protagonista non-troppo-convincente con il quale è difficile empatizzare e un color grading a tratti un po' troppo spinto.
Snowpiercer resta comunque un prodotto di buon livello, dotato di un immaginario visivo/descrittivo eccezionale, ma con delle défaillance strutturali e narrative che inficiano - in parte - il risultato complessivo.
Concludendo, non posso fare a meno di mostrare tutta la mia simpatia e comprensione a Bong e alla sua disillusa visione del destino dell'essere umano, racchiusa negli indifferenti - e nerissimi - bulbi oculari di un orso polare.
Rotten Tomatoes - Media Critica: 95% (243 votanti)
Rotten Tomatoes - Media Pubblico 72% (58.717 votanti)
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Okja
(id.), 2017
scritto da Bong Joon-ho, Jon Ronson
direttore della fotografia: Darius Khondji
genere: azione, avventura, drammatico
A quattro anni di distanza da Snowpiercer, Bong Joon-ho scrive (insieme al Jon Ronson de L'uomo che fissa le capre), dirige e firma il suo secondo film co-prodotto dagli States.
La pellicola, che vanta Brad Pitt fra i suoi produttori esecutivi, venne presentata in concorso - non senza polemiche - al 70° Festival del Cinema di Cannes e distribuita direttamente su Netflix il 28 giugno 2017.
[Bong Joon-ho spiega a Tilda Swinton come essere super cattiva in Okja]
2007: Lucy Mirando (Tilda Swinton) diventa l'amministratrice della Mirando Corporation, una multinazionale americana di dubbia fama con un'immagine pubblica tutta da ricostruire.
Con l'idea di ripulire la pessima reputazione della società di famiglia - lasciata in eredità da un padre mostro e una sorella gemella spietata - la Mirando istituisce un concorso, svelando al mondo la scoperta di un nuovo "supermaiale" da allevamento.
Ventotto esemplari di questi giganteschi animali a "impatto zero" vengono inviati in altrettante nazioni per essere allevati secondo le usanze locali.
Allo scadere di 10 anni, nel 2017, verrà dichiarato il vincitore: la migliore fra queste bestie bellissime, tenere e, più importante di tutto "fu*king tasty", diverrà apripista e capostipite di una nuova razza da macello, pronta a finire nei banchi frigo dei supermercati di tutto il mondo.
Al termine della competizione, il superpiglet selezionato sarà Okja, allevata - quasi allo stato brado - sulle montagne della Corea del Sud da Hee-Bong (Byun Hee-bong) e da sua nipote Mija (Ahn Seo-hyun).
La ragazzina, che ovviamente è all'oscuro del concorso, è cresciuta assieme alla mastodontica creatura diventandone la migliore amica.
All'insaputa di Mija, la dolce Okja viene prelevata dagli uomini della Mirando.
Scoperta l'orribile sorte che attende la sua maialina in America, la giovane farà di tutto per salvarla con l'aiuto di un gruppo di animalisti strampalati capitanati da Jay (Paul Dano).
Okja è una favola moderna dai toni comici e - a tratti - orrorifici che tocca alcuni argomenti con un'ottica molto interessante.
In primis, il tema della causa animalista, che viene sviscerato con modalità assolutamente non banali: gli esponenti più estremisti della causa, l'eccellente Paul Dano e i membri della sua sgangherata FLA (Fronte Liberazione Animali), fra i quali spiccano Lily Collins e lo Steven Yeun di The Walking Dead, vengono vivamente canzonati dalla sceneggiatura di Bong e Ronson.
Una scelta utile - probabilmente - a "scaricare" i toni drammatici presenti nel film.
Un altro ragionamento interessante di Okja è quello relativo al mondo della comunicazione e del marketing, dove tutto è apparenza, studiato a tavolino per essere dato in pasto alla stampa, ai social e orientare l'opinione pubblica.
[Il cast di Okja con il suo regista. Da sinistra: Jake Gyllenhaal, Ahn Seo-hyun, Tilda Swinton e Bong Joon-ho]
Il cast all star si disimpegna unanimamente con bravura nel dare vita a personaggi che risultano essere delle "icone di pensiero".
Tilda Swinton nei panni delle gemelle Mirando è semplicemente divina; Jake Gyllenhaal, che anima lo zoologo schizzato Wilcox, nonostante interpreti un personaggio monco - un looney tune ultracaratterizzato ma senza estensione - riesce nell'impresa di renderlo talmente strambo, plastico e controverso da essere irresistibile; Frank Dawson, membro del consiglio della Mirando, impersonato da Giancarlo Esposito è un ruolo molto à la Gustavo Fring... e noi tutti sappiamo quanto l'attore italoamericano sia dannatamente bravo a farlo; Paul Dano conferma ancora una volta le sue grandi capacità attoriali e la giovane protagonista Ahn Seo-hyun si dimostra più che all'altezza del compito.
La colonna sonora folk-balcanica di Jaeil Jung, con buona pace di Elio e le Storie Tese, non solo non ci ha rotto i c*glioni, ma funziona e si adegua alla perfezione ai ritmi narrativi della storia.
La fotografia del DoP iraniano Darius Khondji (Delicatessen, Seven, In Dreams), pur essendo di pregevole fattura, si discosta quasi completamente dai precedenti lavori di Bong che, con Okja, si piega definitivamente alle necessità estetiche dei palati americani.
Le uniche sequenze che sembrano respirare le atmosfere caratteristiche del regista di Taegu - forse non troppo casualmente - sono quelle che hanno luogo nella casa di Mija, nei boscosi e splendidi monti della Corea del Sud.
[Okja in frame. Clicca sull'immagine per visualizzare la gallery]
Okja è una produzione che gode di una buona amalgama tecnica e strutturale, per un risultato finale intelligente, riuscito e non scontato nella sua analisi del movimento animalista, per la quale vengono mostrati sì gli orrori dell'allevamento intensivo ma che contiene anche un pensiero, razionale e rassegnato che, per rubare le parole di un recente e straordinario Joe Pesci, potrebbe esprimersi con un "It is what it is".
Un assioma che potrebbe risultare pilatesco e al limite dell'ignavia ma che, in realtà, è solo lo stimolo per una nuova battaglia, come mostrato nella scena post-credits durante i titoli di coda.
Concludendo, il sesto lungometraggio di Bong Joon-ho è un lavoro sostanzialmente convincente e sentito, ma che perde in efficacia e coinvolgimento dopo la prima visione nonostante lo straziante finale che - molto probabilmente - strapperà comunque qualche singhiozzo sommesso allo spettatore (tana per me!).
Rotten Tomatoes - Media Critica: 86% (222 votanti)
Rotten Tomatoes - Media Pubblico 81% (10.214 votanti)
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Parasite
(기생충, Gisaengchung), 2019
scritto da Bong Joon-ho, Han Ji-won
direttore della fotografia: Hong Kyung-pyo
genere: commedia, thriller, drammatico
Parasite, distribuito nelle nostre sale dal 7 novembre 2019, segna il ritorno in patria di Bong Joon-ho dopo i precedenti Snowpiercer e Okja.
Un back to home totale, sia nel senso estetico sia nella tematica sociale affrontata.
[La splendida locandina made in UK per Parasite di Bong Joon-ho]
I Kim sono i membri di una famiglia povera che vive nei bassifondi di Seul: il padre Ki-taek (Song Kang-ho), la madre Chung-sook (Chang Hyae-jin), il figlio Ki-woo (Choi Woo-sik) e la figlia Kim-jung (Park So-dam) conducono una vita miserevole, arrabattandosi come possono fra il sussidio di disoccupazione del capofamiglia e lavoretti saltuari come piegatori di cartoni per pizza.
I Park, al contrario, sono una famiglia ricca e borghese che vive in una lussuosissima casa di design situata nelle zone alte della città.
Dong-ik (Lee Sun-kyun) è un professionista di successo, rigido negli atteggiamenti, sposato con una casalinga viziata (Jo Yeo-jeong) con la quale ha una figlia adolescente e un bambino iperattivo.
Il destino farà incrociare le strade dei due nuclei familiari legandone indissolubilmente i destini.
(Ci tengo a rispettare la volontà del regista svelando il meno possibile sugli sviluppi del film, nel caso chi legga non l'abbia ancora visto)
Parasite, oltre a essere la summa del pensiero paradigmatico-sociale di Bong, è uno di quei rari casi in cui il Cinema autoriale riesce ad essere talmente efficace, dinamico e intelligente da accogliere il consenso trasversale di critica e pubblico.
Prodotto con circa 11,5 milioni di dollari, il film ne ha incassati circa 130 al box office mondiale.
Vincitore della Palma d'Oro alla scorsa edizione del Festival del Cinema di Cannes e del Golden Globe al Miglior Film Straniero (senza considerare i premi della critica come i CFCA e i LAFCA awards), il settimo lungometraggio di Bong Joon-ho sembra correre spedito verso il palco del Dolby Theatre con l'intenzione di strappare il primo Oscar della Storia del Cinema sudcoreano.
Sulla qualità tecnica, stilistica e contenutistica del film c'è ben poco da dire: Parasite è una delle pellicole dell'anno, se non LA pellicola dell'anno.
La denuncia sociale di Bong - con i suoi puntualissimi picchi comici e drammatici - può essere sì interpretata con un'ottica globale, ma è decisamente la rappresentazione definitiva dei disagi della sua Corea.
[Bong Joon-ho sul set di Parasite con Choi Woo-sik e Jo Yeo-jeong]
Già: la Corea.
Sarà un caso, ma quando la macchina da presa di Joon-ho torna in patria, esplorandone i minuscoli crocicchi e le verticalità, sembra essere tutto così... perfetto.
I movimenti della MdP - gradito anche il ritorno di Hong Kyung-pyo alla fotografia - sono pennellate deliziose e ben scandite dal montaggio di Yang Ji-mo, la scelta delle inquadrature, dei campi prospettici e dei tagli utilizzati non è mai banale, ma sempre viva, dinamica e interessante.
Lo script, steso a quattro mani con Han Ji-won, è brillante e divertente, cupo e avvilente, schizofrenico ma ordinato.
Tanto da imboccare al cast una performance corale a dir poco eccellente.
[Parasite in frame. Clicca sull'immagine per visualizzare la gallery]
In Parasite si vedono, si percepiscono e si respirano la cura e l'eleganza (tanto decantate in questo articolo) della regia di Bong che, al settimo colpo sparato, è riuscito a tirare fuori dal cilindro quello che gli anni a venire potrebbero consegnare alla Storia del Cinema come capolavoro.
O, almeno, questa è la speranza/supposizione di chi scrive.
Rotten Tomatoes - Media Critica: 99% (349 votanti)
Rotten Tomatoes - Media Pubblico 93% (3.104 votanti)
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Al termine di questa lunga monografia possiamo affermare come il Cinema proposto da Bong Joon-ho sia un apparato multiforme, dotato di tonalità variegate, sensibilità e intelligenza rare nel panorama cinematografico mondiale.
Analisi sociale, scrittura brillante, eleganza stilistica e un'identità ben precisa: sono questi gli elementi che rendono Bong non un regista qualunque, ma un cineasta destinato a imporsi alla nostra attenzione per gli anni a venire.
또 만나요! Tto man-na-yo!
Bong Joon-ho
Palmarès
- Grand Bell Awards 2003: Miglior Film, Miglior Regista, Miglior Attore (Song Kang-ho)
- Festival di San Sebastián 2003: Conchiglia d'argento, Premio per il Miglior nuovo regista, Premio FIPRESCI
- Tokyo International Film Festival 2003: Premio per il Miglior film asiatico
- Torino Film Festival 2003: Premio Holden per la Sceneggiatura; Premio del pubblico
- Brussells International Festival of Fantasy 2007: Corvo d'Oro
- Festival del Cinema di Cannes 2019: Palma d'Oro
- Golden Globe 2020: Miglior Film Straniero
- BAFTA 2020: Miglior FIlm in Lingua Straniera
- BAFTA 2020: Miglior Sceneggiatura Originale
- Oscar 2020: Miglior Sceneggiatura Originale
- Oscar 2020: Miglior Film Internazionale
- Oscar 2020: Miglior Regia
- Oscar 2020: Miglior FIlm
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1 commento
Adriano Meis
4 anni fa
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