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A Quiet Place - Recensione: silenzio in sala

Un film che decide di eliminare quasi completamente i dialoghi tra gli attori è già di per sé un film che merita di essere visto

Un film che decide di eliminare quasi completamente i dialoghi tra gli attori è già di per sé un film che merita di essere visto.

 

John Krasinski dirige, scrive e produce A Quiet Place - il suo secondo lungometraggio - coinvolge la moglie Emily Blunt nel cast e crea un film che nonostante alcune cadute di tono a mio avviso regge bene la tensione.

 

Gran prova da parte di tutti, col reparto audio che si deve essere divertito parecchio a lavorarci su sia in presa diretta che in sound design; protagonisti che personalmente ho trovato perfetti per 3/4 (il figlio maschio è una spanna sotto la sorella e i genitori) ed è davvero rarissimo un thriller horror che rinuncia agli ormai insopportabili jump scare e prova ad essere originale.

 

 

 

La chiave del film non è ovviamente ciò che vediamo, ma ciò che ci viene raccontato.

 

La famiglia, il ruolo del genitore, il dramma per la perdita di un figlio e il senso di colpa che non se ne andrà mai; senza però concessioni al dialogo melassa - nemmeno con il linguaggio dei segni usato nel film - e lasciandoci interpretare molto più attraverso i volti che con le battute.

 

Volendo ci si potrebbe trovare anche un discorso sull'egoismo estremo della genitorialità.

Perché facciamo un figlio?

 

Per donare una nuova persona all'umanità oppure per noi stessi? 

 

 



Quanto può essere arrogante e vanitoso mettere al mondo un figlio mentre il mondo è vittima e schiavo di creature aliene che non ci permettono di condurre una normale esistenza?

 

Perché alcuni di noi sentono così forte questa necessità anche quando ci sono alternative che, in alcuni casi, si rendono praticamente obbligatorie? 

 

Da questo punto di vista si potrebbe quasi definire quella di A Quiet Place come una sceneggiatura anti-abortista: la Blunt nel film chiede "chi siamo, se non siamo in grado di proteggerli" e personalmente in quel passaggio ci ho trovato la tesi su cui si basa tutto il film. 

 

Quella culla "insonorizzata" è l'emblema delle paure di tutti i padri e di tutte le madri, che da quando nasciamo devono combattere con il desiderio di vederci felici e realizzati - ma per forza di cose cresciuti e lontani da loro - e una voglia di proteggerci così disperata che ci terrebbero volentieri sotto la proverbiale campana di vetro.

 

Oppure, appunto, in una scatola dove niente può sentirci e farci del male.

 

 



Mentre scrivo mi viene in mente che forse nelle intenzioni degli autori si nasconde anche un discorso meta-cinematografico, con quel silenzio insistito che obbliga la sala in cui viene proiettato il film a rimanere in silenzio anch'essa per non perdere un rumore, un respiro, un suono, e facendo quindi partecipare lo spettatore attivamente alla narrazione perché lo immedesima per forza nella storia. 

 

Ottenendo tra l'altro, nella migliore delle ipotesi, una sala finalmente educata durante la visione del film.

 

Ci sono un paio di snodi riusciti secondo me poco bene, atti a portare avanti il plot nella maniera più comoda e che magari potevano essere gestiti meglio, ma in generale lo metterei nella categoria "horror belli e originali del XXI secolo" assieme a Babadook e The Vvitch, ad esempio.

 

Per un film "piccolo" girato da un attore che ha poca esperienza dietro la macchina da presa… non è affatto male. 

 

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