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[Il contenuto di questo articolo potrebbe non essere adatto a un pubblico di minori]
Il film parla del mondo della sessualità e dell'erotismo, non è un porno e ciò che si vede non è mai gratuito, ma senza dubbio non mancano le scene di nudo e di sesso quindi proseguite sapendo che la visione potrebbe risultare fastidiosa o inadatta ad alcuni di voi.
Film d'apertura del IV Fish & Chips - International Erotic Film Festival, Touch Me Not, vincitore dell'Orso d'oro e del premio alla Migliore Opera Prima al Festival di Berlino, è il manifesto di uno degli aspetti più interessanti e importanti di questo inconsueto festival del cinema erotico e della sessualità: un film senza filtri che non può lasciare indifferente lo spettatore e che analizza, in un contesto filmico di altissimo livello, il mondo della sessualità al giorno d'oggi, anche nei contesti meno classici e con punti di vista tutt'altro che banali.
Un contenitore in cui, come in questo caso, si sa quando prendersi sul serio e quando, viceversa, lasciarsi andare a un po' di sana autoironia ("Questi sono i miei capelli e non una parrucca!" l'ultima frase della presentazione del film, giusto per capirsi).
Touch Me Not è un film di finzione, non un documentario nonostante ne assuma per larghi tratti i canoni, su come viene vissuta la sessualità da persone con limiti fisici o mentali di vario tipo: passiamo da Laura che non sopporta il contatto fisico a Tudor completamente glabro e incapace di aprirsi agli altri, attorno a loro Christian con un grave disabilità e tante altre figure che li accompagnano e guidano nel loro viaggio.
Non li conosciamo, non ci vengono introdotti, ma vediamo una parte del loro percorso nel mondo dell'eros e attraverso questo impariamo a scoprirli, lentamente, palmo a palmo, senza censura: come nella prima inquadratura del film in cui viaggiamo, alla cieca, su un corpo maschile quasi tastandone centimetro per centimetro, pelo per pelo, scoprendone il sesso, senza limitazioni e senza alcuna rete di salvataggio, siamo esposti davanti al film tanto quanto le immagini che vediamo.
Nel suo essere quasi sperimentale e rarefatto nella costruzione, Touch Me Not è un film che dice moltissimo con la sua estetica così chiaramente definita.
Adina Pintilie mette in scena un film in cui il colore è centellinato in pochissimi dettagli e momenti e in cui domina il bianco degli ospedali e della solitudine di un letto vuoto, in questo contesto spesso guardiamo attraverso porte, grate, vetri e riflessi come se la vita che la regista romena sta mettendo in scena fosse costantemente in gabbia e alla ricerca di una via d'uscita dalla solitudine attraverso la loro riscoperta sessuale.
Non è un caso che uno dei pochissimi momenti cromaticamente atipici sia quello nel club in cui Tudor, dopo aver seguito la sua ex, si ritrova ad osservare un'orgia, qui le luci soffuse e i toni caldi prendono il sopravvento: siamo nel contesto di libertà totale che i due protagonisti (Christian ha già raggiunto questa libertà) stanno cercando.
Un film fortemente metacinematografico in cui ci viene mostrata costantemente la regista, non in veste di sola intervistatrice, ma prima con uno sguardo in camera diretto che ci scruta e ci impone una riflessione e poi con la sua stessa presenza in scena accanto ai protagonisti con cui interagisce.
Oltre a lei tutto il cinema diventa parte integrante della scena: le attrezzature, gli operatori, tutto è sempre in campo fino a diventare interlocutore stesso dei protagonisti (Adina che parla con Maria, Tudor con le cuffie che prende il posto della regista...) o protagonista egli stesso di alcune inquadrature.
Così come il corpo di cui abbiamo parlato all'inizio anche questo aspetto è già sottolineato nei primissimi minuti quando vediamo due tecnici montare un monitor in cui vediamo la giovane regista, e che sarà successivamente dall'altra parte dello sguardo degli intervistati e che tornerà protagonista nel finale.
Interessantissima, infatti, la chiusura del film quando, finito questo lungo discorso sulla sessualità, viene tolto il filtro su cui vedevamo proiettata la regista, come a simboleggiare la fine del suo discorso, e restiamo soli con Laura a riflettere su ciò che abbiamo appena visto, sul percorso che abbiamo intrapreso insieme ai protagonisti e la vediamo liberarsi completamente: prima dei vestiti, poi iniziando a ballare in totale libertà.
Un film così atipico, a tratti quasi documentaristico, di così anche difficile lettura in realtà è un film in cui la scrittura ha un ruolo fondamentale nel tenere le fila tra tutto e nel riuscire a non scadere nell'autoreferenzialità e nella verbosità.
Il modo in cui moltissimi piccoli dettagli ritornano ripetutamente nelle gestualità o nelle parole dei protagonisti fa capire quanto non sia un semplice mostrare delle storie, ma ci sia anzi un lavoro di costruzione e di pensiero alle spalle davvero mirabile.
Lo stringere i polsi ne è un esempio: non un gesto casuale, ma un gancio che riprende vari momenti del film e li collega in maniera fortissima.
Lo ritroviamo nell'incontro finale tra Tudor e Laura, prima nell'incontro tra lei e il padre e prima ancora ce ne viene spiegato il significato da uno dei "tutor" del percorso di riscoperta della protagonista.
Oltre a questo anche la capacità di scegliere quando perdersi in una lunga spiegazione o in una lunga intervista e quando invece lasciar spazio ai gesti e ai movimenti e all'eye contact di cui anche il film parla, senza bisogno di ulteriori parole.
Un film densissimo di argomenti e tematiche, dalla distruzione dell'assioma che vede la disabilità come limite, a una trattazione della rabbia verso se stessi e verso l'incapacità di reagire ai propri limiti, al sostegno tra esseri umani, al forte valore simbolico del tatuaggio, all'abbattimento dei pregiudizi verso ogni forma di realtà sessuale, ai cambiamenti dovuti all'età e ancora a moltissimo altro.
Un film così denso che non è difficile capire come mai abbia affascinato tanto i giurati di Berlino, ma che forse proprio in questo suo aspetto, che ne mostra la grandissima audacia, si ritrova anche in una delle sue pecche: vuole dire tantissimo, e in parte ci riesce, ma nel farlo si dilunga tanto risultando in alcune sue parti disomogeneo saltando da un tema all'altro.
"Difetto" che, a parer mio, non sempre è un difetto, ma che soprattutto quando si fa un film così lungo e così assertivo, pur capendone le ragioni lascia un pochino d'amaro in bocca.
Forse aprire qualche parentesi in meno avrebbe permesso di lasciare, giustamente, qualche discorso in più aperto indenne.
Chiudo consigliando moltissimo la visione di questo film (che arriverà in sala dal 14 febbraio, anche se immagino che non sarà facilissimo trovarlo) che di sicuro non piacerà a tutti ma che, nonostante la fatica che la visione richiede e l'impegno nel mettersi in gioco e nella riflessione senza cui non si possono guardarlo, indubbiamente vi lascerà qualcosa.
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1 commento
Fabrizio Cassandro
5 anni fa
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