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Here - Recensione doppia: perché sì e perché no

Le nostre opinioni su Here erano talmente distanti che abbiamo voluto presentarvele entrambe: una è positiva, l'altra no

Here è il nuovo film di Robert Zemeckis che riunisce gran parte di cast e troupe che realizzò assieme a lui Forrest Gump, ancora oggi il suo film di maggior successo in termini di critica e incassi: ritroviamo infatti i protagonisti Tom Hanks e Robin Wright, Eric Roth alla sceneggiatura, Don Burgess alla fotografia e Alan Silvestri alle musiche. 

 

Abbiamo avuto l'opportunità di vederlo in anteprima e le reazioni non potevano essere più distanti: quella che state per leggere è dunque una recensione doppia, dove avrete modo di comprendere le ragioni che hanno spinto Marco Lovisato ad amare Here e quelle che hanno portato Teo Youssoufian a ritenerlo uno dei film meno riusciti del regista. 

 

[Il trailer di Here]

 

 

Here: perché no.

 

Robert Zemeckis è da sempre noto anche per le sue incursioni nel mondo della tecnologia e della narrazione visiva. 

 

Nel 1988 rivoluzionò il Cinema facendo dialogare come mai prima di allora personaggi disegnati e interpreti in carne e ossa: Chi ha incastrato Roger Rabbit è uno di quei film che hanno segnato una strada precisa nel mondo del Cinema; l'anno dopo uscì Ritorno al futuro - Parte II, che fu il primo film a essere girato con un sistema di motion control che permetteva a Michael J. Fox di interpretare più personaggi che coesistevano sullo schermo, anche mediante una manipolazione digitale delle immagini.

Zemeckis si innamorò del digitale al punto di utilizzarlo pesantemente nei successivi La morte ti fa bella, Forrest Gump e Contact in un'epoca in cui la CGI non era ancora onnipresente come oggi. 

 

Non contento delle innovazioni che aiutava a far crescere decise poi di lanciarsi in un altro tipo di esperimento: mentre aspettava che Tom Hanks ingrassasse quasi 25 chili per poter girare le prime sequenze di Cast Away approfittò della lunga pausa per girare Le verità nascoste, riuscendo dunque a girare un film mentre il precedente non era ancora concluso. 

Il 2004 fu l'anno di Polar Express, il primo film di sempre a essere girato interamente in CGI grazie al performing capture, un procedimento in grado di "digitalizzare" i movimenti e le espressioni di attori e attrici e trasformarli in personaggi al computer. 

 

Poteva dunque essere solo lui il cineasta giusto per portare sul grande schermo il graphic novel di Richard McGuire che ha come caratteristica principale quella di raccontare una storia di migliaia, milioni di anni facendolo esclusivamente da un unico punto di vista: ciò che funziona sulla carta però funziona anche per il Cinema? 

 

A mio avviso no. 

 

 

[Una scena di Here]

 

Here porta indietro la Settima Arte di oltre un secolo, ai tempi in cui ancora nessuno aveva avuto l'idea di spostare la macchina da presa per cambiare inquadratura, creando così un distacco netto tra ciò che era il Teatro e ciò che sarebbe diventato il Cinema.

 

Gli spettatori potevano finalmente vedere il volto di attrici e attori riempire il telo e diventare giganti, "bigger than life" e per la prima volta si scorgevano le emozioni, le rughe, i minimi cambi di espressione, tutte cose che fino a quel momento, con il Cinema che era ancora semplice "teatro filmato", non esistevano. 

Un film costruito interamente su un'unica inquadratura deve trovare altrove il suo dinamismo e ciò può avvenire mediante il cosiddetto montaggio interno, dove a muovere l'azione non è la macchina da presa né il découpage bensì i personaggi che agiscono all'interno del quadro: in Here tutto ciò avviene secondo me in misura minima e visibilmente forzata dall'idea tecnica che sta alla base del film, che costringe i protagonisti a sposarsi in casa a favore di inquadratura, di posizionare il telo per un proiettore in modo che se ne veda una parte perché è importante mostrare anche la famiglia che lo guarda, di interagire sempre e comunque davanti alla macchina da presa, eliminando totalmente il fuoricampo e ciò che non succede all'interno di quelle quattro mura. 

 

Personalmente non amo quando un concept tecnico schiavizza la storia che viene raccontata, perché spesso ho l'impressione che ciò che viene narrato diventi ostaggio di quell'idea che passa dall'essere un'interessante e originale messa in scena a diventare una gabbia, all'interno della quale il regista e il direttore della fotografia devono necessariamente stare per non tradirla. Riconosco che questa sia una mia avversione e non ho certo l'arroganza di pensare che chiunque debba viverla come la vivo io; il medesimo problema l'ho riscontrato anni fa con 1917 di Sam Mendes, dove a mio avviso la storia rappresentata troppo spesso veniva messa in scena in un modo obbligato dal finto piano sequenza che a monte era stato scelto per raccontarla. 

 

La storia di Here si sviluppa attraverso milioni di anni, dai dinosauri ai giorni nostri passando per i nativi americani, Benjamin Franklin, l'inventore della poltrona reclinabile e un pilota: tutte queste storie secondarie però non vengono mai approfondite e fungono semplicemente come contrappunto alla storia principale, quella della famiglia del personaggio di Paul Bettany - che ritengo l'interprete più ammirevole nel film - e di suo figlio interpretato da Tom Hanks

 

L'idea di mostrarci delle finestre che si aprono su un altro tempo, mentre lo spazio resta fermo, è affascinante e mi ha ricordato l'apertura delle finestre su un personal computer, situazione che riprende il lato estetico di Here, con lo schermo del PC che resta immobile mentre a muoversi sono gli spazi che di volta in volta si aprono per farci vedere più cose contemporaneamente: purtroppo questa idea nel film viene sfruttata fin dall'inizio semplicemente come una transizione da un'epoca all'altra, senza dar modo allo spettatore di avere una visione d'insieme e anzi ogni volta indirizzando il suo sguardo dove vuole chi ha realizzato l'opera, castrando così la libertà di chi guarda di scegliere cosa guardare, vivendo contemporaneamente più di un'epoca storica alla volta. 

 

Oltre alla palese ed evidente intenzione di mostrarci che in un luogo e soprattutto in una casa si avvicendano storie umane ed emozioni differenti non ho del tutto compreso il motivo che ha portato Zemeckis e i suoi collaboratori ad aprire queste "finestre temporali" se poi vengono abbandonate senza un vero approfondimento e un reale motivo di esistere: perché insistere su Franklin se poi la situazione non si chiude? 

Chi sono le persone afroamericane che discutono di come reagire a un fermo delle forze dell'ordine? Perché mostrarci la coppia inventore/pin-up? 

Cosa aveva di importante da raccontare la storia dell'appassionato pilota di aerei? 

Mi è sembrato che si volesse dare l'idea di una connessione tra le epoche diverse, andando al di là della mera rappresentazione di vite diverse in anni diversi, ma in realtà non c'è nulla di connesso e quelle vite restano sempre in secondo piano, poco ispirate nella scrittura e nella messa in scena. 

 

Nonostante un cast di attori di talento i personaggi di Here sono a mio avviso privi di spessore, delle figurine semplici la cui evoluzione emotiva è troncata da una narrazione che non riesce mai a decollare; la storia di Richard e Margaret, la loro vita in questa casa e le loro vicissitudini familiari, è priva di qualsiasi profondità.

La loro relazione è dipinta in modo superficiale e l'uso di tecniche come il ringiovanimento digitale dei personaggi, lungi dal risultare affascinante, finisce per distrarre e aggiungere una patina innaturale ai volti di attori e attrici, che sembrano esattamente ciò che sono: degli artifici e non degli interpreti, la cui voce di volta in volta ringiovanita e invecchiata suona posticcia così come risultano posticci tutti gli animali creati in CGI che il film ci mostra, dai dinosauri ai colibrì.  

 

Il tentativo di Zemeckis di infondere la sua opera con un messaggio universale sul passaggio del tempo e sul destino mi è parsa più un'operazione di marketing che una vera esplorazione dei temi: al posto di costruire una riflessione autentica il film si aggrappa a cliché e a forzate espressioni di nostalgia, come se cercasse di imitare l'approccio emotivo di Forrest Gump ma senza la stessa efficacia. 

 

Le scene che sulla carta dovrebbero essere toccanti mi sono risultate prevedibili e appesantite da un sentimentalismo tanto evidente quanto artificioso.

 

 

[Una scena di Here]

 

 

Here è a mio avviso un film che si perde nei suoi stessi tentativi di essere pertinente e profondo. 

 

La sua struttura narrativa, che avrebbe potuto offrire qualcosa di interessante, crolla sotto il peso della sua pretesa di essere significante; penso che Zemeckis volesse stupirci con una riflessione sulla vita, il tempo e la memoria, ma il risultato è un film che mi ha annoiato dopo pochi minuti per via del quadro immobile e dei "picture in picture" che si ripetono uguali e la cui novità mostra presto la corda. 

 

Più che un film ho avuto troppe volte l'impressione di guardare una sitcom, dove però di "com"(media) c'è ben poco, una rappresentazione congelata non solo nell'inquadratura ma anche in tutto il resto, dove la gabbia dell'idea di base è riuscita suo malgrado a imprigionare qualsiasi emozione vera, coperta dal digitale e dalla forzatura di non spostare mai il punto di vista, con il risultato di essere gelido, distante e non avermi mai emozionato né coinvolto.

Il poco che il film ha da dire sulla vita assomiglia a una serie di frasi che da ragazzini si scrivono sul diario: sii sempre te stesso, dai importanza al tempo che passa perché non ritornerà, chi non risica non rosica. 

 

Ciò di cui è pieno Here è invece un sentimentalismo da melassa che si può trovare nei romanzi Harmony, dove le storie sono esili e semplificate al midollo per portare avanti messaggi generali che parlano di amore universale, di rivalsa o di sogni che vanno rincorsi: non si contano le battute che nel film ho vissuto come banalità e frasi da foglietto dei Baci Perugina, recitate però come se fossero delle grandi e rivelatrici verità sul mondo e sull'umanità. 

Un film che vuole raccontarci la vita privato di qualsiasi cosa che assomigli alla vita stessa, senza pulsione, senza trasporto ma solo tanto calcolo e matematica, per mantenere la stessa inquadratura infarcendola di scenografie diverse, dimenticandosi completamente del fatto che si stava raccontando la vita di persone diverse. 

 

L'unica emozione che ho provato è stata negli ultimi secondi di film, dove succede una cosa che mi era mancata per i precedenti 100 minuti (e che non spoilero) e che mi ha fatto capire davvero il motivo per cui Here non mi è piaciuto per niente: mi è mancato il Cinema. 

 

[a cura di Teo Youssoufian]

 

[Here: i primi 8 minuti del film]

 

 

Here: perché sì.

 

Sono buffe le traiettorie della testa: è da quando ho visto per la prima volta Here, il nuovo film di Robert Zemeckis, che ho in mente la canzone omonima dei Pavement.

Non c'entra apparentemente niente, eppure la continuo ad associare al film, forse per il suo tono nostalgico e il messaggio escatologico. 

 

"Come join us in a prayer, 

We'll be waiting, waiting where, 

Everything's ending here."

 

Sembra strano l'accostamento tra la ballad della band indie e il nuovo melodramma del più curioso sperimentatore del mainstream hollywoodiano, ma più ci penso più mi accorgo di leggere delle assonanze.

Fragili, non ragionate, aleggianti, trovate dal cuore più che dalla testa

 

L'originalità di Here, tratto dall'omonimo e innovativo graphic novel di Richard McGuire, è tutta racchiusa nella sua geniale gimmick: l'idea di catturare uno specifico luogo nel mondo (dunque nell'universo, dunque negli Stati Uniti - where else?), cristallizzarlo e osservare le storie che vi sono transitate nel corso del Tempo.

 

La "T" maiuscola è d'obbligo, in quanto film e graphic novel prendono in considerazione l'alba dei tempi e lasciano presagire un futuro la cui fine coincide con quella del pianeta stesso.

 

 

[Una tavola tratta da Here, il graphic novel di Richard McGuire dal quale è tratto il nuovo film di Robert Zemeckis]

 

Robert Zemeckis, da sempre affascinato dalle nuove possibilità tecnologiche, accetta la sfida di tradurre in immagine cinematografica le ricche tavole di McGuire, nel quale l'autore cercava di risolvere l'enigma della rappresentazione sincronica di spazio e tempo tramite il particolare stratagemma di inserire diverse finestre all'interno della stessa tavola: in questo modo McGuire poteva offrire al lettore la possibilità di visualizzare simultaneamente diversi momenti nel tempo nello stesso luogo, creando un equivalente fumettistico di quello che il grande critico francese André Bazin definì il "montaggio interno", cioè l'arte di catturare l'azione (quindi il ritmo stesso della vita) in un'unica inquadratura, senza dover ricorrerere a raccordi di montaggio.

 

Raramente nella Storia del Cinema qualcuno è riuscito a catturare con altrettanta maestria il fluire del tempo e della vita, riuscendo a trovare la chiave artistica adatta a non sacrificare la componente emozionale all'altare della tecnica fine a se stessa .

 

Le tecnologie all'avanguardia (come realtà aumentata, motion capture e de-aging) sono presenti e si fanno sentire, ma non risultano mai fastidiose e, anche nei risultati più posticci (la resa di alcuni animali e i close-up di Tom Hanks e Robin Wright in particolare denunciano una certa artificialità), la narrazione rimane immersiva. 

 

Per questo motivo il Cinema di Zemeckis dà la sensazione che l'ambizione non si traduca mai in presunzione. Quella del regista 72enne sembra una sana curiosità di quanto possa spingere i limiti del medium, una volontà di abbattere le pareti che lo mette in dialogo con i suoi stessi personaggi, i loro sogni, le loro aspirazioni. Cavernicoli, coloni, soldati, inventori, sognatori, persone comuni: in quel lotto di terra, puntino impercettibile del cosmo, si svolgono vicende umane tanto importanti in quanto vessillo della capacità umana di creare storie, porsi obiettivi e rendersi grandi in un universo indifferente. 

In Here i sognatori vengono premiati, come accade all'inventore della poltrona reclinabile, ma anche puniti dalla loro stessa hybris, come nel caso del pilota che di smettere di volare proprio non ha intenzione.

Tra i riquadri di Here si muovono anche persone che ai sogni ci devono rinunciare, come nel caso dei personaggi di Paul Bettany e Kelly Reilly, e personaggi che si accorgono troppo tardi di non averli saputi realizzare, come i due protagonisti.

 

Tanta è la connessione tra il regista e i suoi personaggi che in Here Zemeckis porta in scena la propria famiglia, sia artistica, col ritorno del team di Forrest Gump formato dagli attori Tom Hanks e Robin Wright, dal compositore Alan Silvestri e dallo sceneggiatore Eric Roth, sia personale, con la presenza della moglie Leslie e dalla figlia Zsa Zsa.

 

A proposito di Forrest Gump: è forse inevitabile mettere a confronto Here con il film del 1994, un’altra opera profondamente legata alla percezione del tempo e al modo in cui la storia personale si intreccia e dialoghi con la Storia. Se però Forrest Gump era un elogio ottimistico dell'uomo comune e della resilienza statunitense, Here ne rappresenta il controcampo: una riflessione amara, talvolta pessimista, sull'inesorabilità del tempo e sulle scelte che ci definiscono.

 

 

[Una scena di Here]

 

Attraverso le finestre picture-in-picture, nei molteplici quadri nel quadro, si dipanano storie di ambizione e delusione, ingiustizie sociali, guerre e morte. 

 

È particolarmente sorprendente, per un autore come Zemeckis di solito non noto come osservatore sociale (anche se La morte ti fa bella è forse la cosa più simile allo spirito di The Substance che sia mai stata prodotta), il commento sull'esperienza afroamericana contemporanea, con rimandi espliciti alle drammatiche vicende che hanno portato al movimento Black Lives Matter. 

Here è un film pieno di morte proprio perché brulicante di vita: non nasconde la fine, ma la rappresenta come una conseguenza naturale, ineluttabile. Non solo la fine della vita, ma anche quella delle illusioni, dei sogni, intrappolati dalla sedentarietà, dalla scelta di un luogo che diventa sì casa, ma anche sarcofago. 

 

Chi evolve è chi quel luogo lo lascia; chi vi rimane deve fare i conti col fallimento personale. I due protagonisti ne sono un esempio: il giovane Hanks è un promettente artista, la giovane Wright è una ragazza sensibile, intelligente e curiosa. Scegliendo di formare una famiglia e mettere al mondo una figlia, entrambi si sacrificano per perpetuare l'infinito ciclo della vita, rinunciando a uscire da quella finestra che rimane la costante visiva e simbolica del film. È una finestra che scelgono come stella polare, lo stesso punto di riferimento condiviso dagli spettatori. 

La stasi della macchina da presa, pur generando un contrasto giocoso con il dinamismo delle vite che osserva, richiama un'amarezza sottile: quella delle occasioni perdute. Tanto più dolorosa quanto più tardi si realizza che si poteva agire, invece di restare immobili.

 

È qui, secondo me, che risiede il cuore drammatico di Here: spesso l'unico antidoto alla paralisi esistenziale è l'azione, per quanto difficile possa essere buttarsi, abbandonare il nido e volare come il curioso colibrì che compare nel film. Quando finalmente, dopo quasi due ore, la mdp si muove, per Hanks e Wright è troppo tardi.

Ciò che rimane è la possibilità di apprezzare le piccole cose: un ricordo felice, un'occasione speciale, l'accettazione di non aver vissuto la vita che si voleva ma, almeno, di aver vissuto. Pienamente, a modo proprio, in punta di piedi.

 

Quando Zemeckis muove finalmente la camera, nella camera (un trucco tutto suo: McGuire non lo poteva fare...), in quel momento ci com-muoviamo, ci muoviamo insieme.

Siamo testimoni non di una diversa storia, ma della Storia. Il film compie il suo miracolo, rispondendo a quella prayer che continua a richiamarmi la canzone dei Pavement, una preghiera che solo il Cinema può esaudire.

 

Tra Here di Robert Zemeckis e Megalopolis di Francis Ford Coppola possiamo parlare forse di Cinema Boomer e affermare che non è mai stato così bene, se non fosse per il contrasto tra la visione di questi grandi sognatore e l'accoglienza a volte spietata di critica e pubblico.

Quello che rimane sono due film puri, pieni di bontà, senza un grammo di cattiveria addosso. Al di là dell'accoglienza critica, al di là dei loro aspetti, abbiamo forse paura di tanta purezza al cinema. Abbiamo paura di quel sentimento che ci muove.

Quello che potrebbe venire considerato "corny" o "cringe" in realtà spicca per una sincerità senza pari, strabordante, quasi che il film non riesca a contenerla. 

 

Everything's ending here, cantavano i Pavement, ma anche tutto ricomincia.

Here è una preghiera al Cinema, alla sua capacità di essere una finestra su un mondo che ci promette un nuovo inizio nella consapevolezza del proprio posto nel mondo. È una finestra che condividiamo tutti, spettatori e attori di un flusso che raramente riusciamo a controllare, perché troppo travolgente o spaventoso nelle opportunità che si celano nel fuori campo.

 

Ecco che mi viene in mente un'altra canzone, che stavolta ha a che fare con una casa. 

 

"Our house it has a crowd, 

There’s always something happening 

And it’s usually quite loud."

 

La cantavano i Madness, che si traduce con Follia. 

 

Una parola che mi sembra calzante per un film del quale forse ancora non capiamo la portata, ma non preoccupatevi: per citare Marty McFly, un altro grande ottimista del Cinema di Zemeckis, “ai vostri figli piacerà”

 

[a cura di Marco Lovisato]

___ 

 

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