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Do Not Expect Too Much from the End of the World - Recensione: la propaganda perde il pelo ma non il vizio

Tra rimandi a classici del Cinema e riverberi dei social media, Radu Jude mette in scena un ritratto grottesco della società ultraliberista 

Do Not Expect Too Much From the End of the World è l'ultima fatica del regista rumeno Radu Jude, (Sesso sfortunto o follie porno) con Ilinca Manolache e la partecipazione di Nina Hoss, purtroppo arrivata solo in una manciata di sale. 

 

Premiato al Festival di Locarno e amato dai Cahiers du Cinéma, che lo hanno inserito al 7° posto tra i migliori film del 2023, Do Not Expect Too Much From the End of the World è Cinema a misura di popolo, perché è proprio la gente comune a dover fare i conti con la fine del mondo.

 

Ma che cos’è in fondo la fine del mondo? Qual è il mondo di cui parla Radu Jude in Do Not Expect Too Much From the End of the World? In questo intreccio cross-mediale l’autore mette in scena le assurdità dell'economia capitalista. 

 

[Il trailer di Do Not Expect Too Much From the End of the World, nei cinema grazie a Cat People]

 

 

Il teatro della fine è la Romania, terra d’origine del regista e crocevia tra blocco orientale e occidentale.

 

Uno spazio di confine che assorbe le asperità di due poli opposti, segnato da un perenne disequilibrio politico e sociale e, oggi, scomodo vicino di un conflitto bellico che rischia di trascinare via con sé la società così come la conosciamo o, perlomeno, di fungere già da pretesto per la speculazione finanziaria, a discapito delle finanze dei cittadini.

 

È in questa zona di confine per antonomasia, anche solo geograficamente parlando, che si muove la giovane Angela (Ilinca Manolache), la protagonista di Do Not Expect Too Much From the End of the World che lavora nel reparto produzione di video sulla sicurezza sul lavoro per conto di una multinazionale che ha la sua sede centrale a Vienna.

Il compito di Angela è trovare i candidati giusti, capaci di incarnare lo spirito dell’operaio affidabile, affabile e instancabile: persone segnate, spesso irrimediabilmente, da incidenti sul luogo di lavoro, pronte ad accollarsi la colpa del misfatto in cambio di poche centinaia di euro. 

Angela intervista queste vittime, troppo povere, stanche e disilluse per perseguire una causa legale nei confronti dell’azienda madre, e le riprende ovviamente tramite cellulare.

 

È un paradosso che non lascia scampo: Angela lavora tra le sedici e le diciassette ore al giorno con un contratto di collaborazione - e i suoi improvvisi attacchi di sonno in auto giocano con la possibilità di un finale amaro - si barcamena tra lavoretti casuali, riuscendo a ritagliarsi qualche momento per del sesso meccanico e una visita al cimitero, simboli di quell’amore e morte attorno a cui l’umanità si avviluppa da sempre.

 

 

[Ilinca Manolache in Do Not Expect Too Much From the End of the World]

 

 

Nella società dello spettacolo descritta da Guy Debord e messa in scena con perizia da Jude, il reale si sostituisce alla finzione e assume valore solo in relazione alle prospettive di spettacolarizzazione.

 

In un bianco e nero elegante e granuloso, in uno snodo di piani sequenza, Do Not Expect Too Much From the End of the World delinea una realtà da cui non c’è una via d’uscita, tramite il registro di una soffocante commedia dai toni apocalittici. 

Nel mondo di Do Not Expect Too Much From the End of the World la speranza è soggiogata dalla produttività, dove i padroni non sono che faccioni - di orwelliana memoria - di nobile discendenza visibili in call su Zoom, non c’è tempo di accumulare né domande né speranze: è la fine del mondo.

 

Eppure, in un certo senso, una via d’uscita c’è, nelle inquadrature verticali di TikTok dal filtro deformante in cui Angela si diletta nel tempo libero, in una sguaiatissima parodia di sedicenti guru come Andrew Tate, con la quale la protagonista di Do Not Expect Too Much From the End of the World accumula views, anche se non abbastanza per affrancarsi dalle dinamiche di lavoro dell’economia capitalista. 

 

La rabbia informe e sfinita di Angela è personificata dal populismo e dalla misoginia di Bobita, alter ego che rappresenta una fuga dalla realtà nella sua prospettiva parossistica e iperbolica, prima catturata dalla fotocamera del cellulare e poi distorta dai filtri dell’app, nel disperato tentativo di emergere nel caos chimerico dell’algoritmo.

 

 

 

 

[Bobita e Uwe Boll in Do Not Expect Too Much From the End of the World]

 

La protagonista di Do Not Expect Too Much From the End of the World si muove in auto, nel traffico sfiancante di Bucarest, accompagnata da una colonna sonora variegata, ulteriore via di fuga dalla realtà ma anche un mezzo per ancorarvisi, per sfuggire alla stanchezza. 

 

Tramite la prospettiva del road-movie di Do Not Expect Too Much From the End of the World le avventure di Angela si accavallano con quelle di un’altra Angela, la tassista interpretata da Dorina Lazar nel cult movie romeno Angela merge mai departe (letteralmente "Angela prosegue"), film di Lucian Bratu del 1981.

 

Tramite l'elemento del viaggio in auto Jude mette in dialogo passato e presente, la Romania comunista di Nicolae Ceaușescu e quella capitalista ormai parte dell’Unione Europea: non è un caso che il primo capitolo del film (comprensivo delle prime due ore) sia intitolato A) Angela: un dialogo una conversazione con un film del 1981.

In questo gioco di rimandi e corrispondenze, Do Not Expect Too Much From the End of the World suggerisce un cambio di padrone ma non di sostanza, che rimane l’assoggettamento collettivo a un’idea propagandistica.

 

Nel secondo capitolo del film, dal titolo B) Ovidiu: materia prima, in un piano sequenza di venti minuti Ovidiu, l’operaio vittima di infortunio sul posto di lavoro che Angela ha individuato come soggetto ideale per la missione demagogica dell'azienda, rivela le responsabilità della stessa società nel suo incidente per lo spot relativo alla sicurezza sul lavoro.

D’altro canto il regista, pur comprendendone l’assurdità, non può che assoggettarsi alle dinamiche della multinazionale che gli ha commissionato lo spot.

 

Nella società ultraliberista o ci si lascia assorbire dal sistema o si muore.

Riassuntivo ed emblematico è il momento in cui Ovidiu, durante le riprese, mantiene dei cartelli vuoti come nel celebre video della canzone Subterranean Homesick Blues di Bob Dylan: i testi verranno aggiunti in post-produzione, con il chiaro obiettivo di falsificare la testimonianza dell’operaio su sedia a rotelle. 

 

La fine del mondo è arrivata e ha l’aspetto di un’umanità soggiogata al capitale, imbellettata in pubblicità progresso commissionate dagli stessi colpevoli.

 

Con un linguaggio cinematografico che rimanda all’impegno politico di Jean-Luc Godard, al Neorealismo italianoal foto-reportage e che strizza l’occhio al mondo dei meme - stratificati, grotteschi ed effimeri - con Do Not Expect Too Much from the End of the World Radu Jude dirige un film che è al contempo sacro e profano, impegnato e scanzonato, iconoclasta come un rider che effettua consegne a domicilio spostandosi tra le tombe di un cimitero.

___ 

 

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