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Il tempo che ci vuole - Recensione: commovente autobiografia

Ne Il tempo che ci vuole Francesca Comencini si mette a nudo con estremo coraggio, raccontando il suo rapporto con il padre Luigi, a cui deve l'amore per il cinema e per la vita 

Il tempo che ci vuole è il nuovo film autobiografico di Francesca Comencini, in cui la regista racconta l'infanzia, l'adolescenza e l'età adulta vissute a fianco del padre Luigi, uno dei fondatori della commedia all'italiana degli anni '50, '60 e '70. 

 

Dopo le serie TV Gomorra, Luna Nera e Django Comencini torna all'amore per il grande schermo, scegliendo due attori fondamentali per la riuscita del film: nel ruolo di Luigi Comencini c'è infatti il vincitore di due David di Donatello Fabrizio Gifuni - anche produttore del film - e nei panni di Francesca adulta troviamo Romana Maggiora Vergano, già apprezzata in C'è ancora domani di Paola Cortellesi. 

Francesca bambina è invece interpreta dall'esordiente Anna Mangiocavallo.

 

L’opera prodotta da Kavac Film, IBC Movie, Minerva Pictures e OneArt con Rai Cinema, in coproduzione con la francese Les Films du Worso e distribuita da 01 Distribution, è stata presentata fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2024.  

 

[Il trailer de Il tempo che ci vuole]

 

 

Il tempo che ci vuole è un viaggio nella memoria che racconta di una devozione condivisa verso il Cinema e di un rapporto padre-figlia autentico, complesso, nudo nella sua verità. 

 

In un'elegante casa romana della medio-borghesia, la piccola Francesca trascorre l'infanzia a stretto contatto con il padre Luigi, che la rende partecipe delle sue letture immaginifiche a partire da Pinocchio, universo attraente e spaventoso al contempo, il cui personaggio preferito - conferma Francesca in una scena - non può che essere Lucignolo. 

Tra le pagine del romanzo Francesca esplora le sue paure, rappresentate visivamente dal ventre della balena, simbolo ricorrente nel film come monito alla centralità della fantasia, unica via per la salvezza.

La prima scelta stilistica e concettuale che Comencini opera ne Il tempo che ci vuole è quella di lavorare per sottrazione, minimizzando tutti gli elementi di "disturbo" nei confronti della storia.

 

Dal racconto, infatti, vengono escluse le sorelle e la madre, che nella sceneggiatura semplicemente non esistono: non vengono nominate e non compaiono mai.

Così facendo, l'obiettivo si restringe sulla relazione uno-a-uno tra lei e il padre. 

 

In un primo momento, lo spettatore potrebbe percepire un effetto di straniamento per la mancanza di un contesto familiare collettivo, ma subito dopo risulta evidente l'intenzione della regista, finalizzata non tanto a estromettere alcune figure, quanto piuttosto a rendere giustizia allo scopo precipuo del film: selezionare uno spazio d'azione e concentrarvi tutte le risorse, costruendo due punti di vista riconoscibili. 

Lo scambio tra padre e figlia è rappresentato come giocoso, di complicità, affetto e soprattutto assolutamente paritario

 

Come primo tratto distintivo, infatti, emerge la straordinaria capacità di Luigi di dialogare con i bambini, con Francesca e con i piccoli attori che dirige sul set dei suoi film, ponendosi in ascolto, credendo alle loro parole senza agire un potere paternalistico o di superiorità morale, ma anzi difendendoli dagli adulti che non li prendono sul serio. 

 

 

[Fabrizio Gifuni e Anna Mangiocavallo ne Il tempo che ci vuole]

 

 

A riprova di questo tipo di approccio ricordiamo I bambini e noi, il documentario che Luigi Comencini realizzò per la RAI nel 1970 andato in onda nel 1978 diviso in 6 episodi, con interviste a bambini di varie regioni italiane e diverse condizioni sociali, con particolare attenzione a quelli delle fasce più povere.

 

La dose di realtà che Luigi Comencini lascia entrare nel suo modo di raccontare le cose, al cinema o in TV, passa attraverso l'immaginario dell'infanzia, come se paradossalmente l'innocenza fantasiosa dei più piccoli abbia una carica di verità più intensa in grado di descrivere meglio il mondo.

Ne Il tempo che ci vuole Luigi è alle prese con la regia della trasposizione televisiva de Le Avventure di Pinocchio di Carlo Collodi.

 

Il set dove Francesca bambina vive il suo primo incontro con l'universo multiforme del Cinema fa da contraltare caotico all'intimità silenziosa della casa.

La vita dietro alla macchina da presa sembra esplodere: tutti urlano, si arrabbiano, si muovono concitati. 

 

Luigi resta invece saldo, un albero fermo nel vento. Richiama all'ordine con garbo, pretende rispetto verso ogni persona coinvolta, si diverte solo se tutti si sentono a proprio agio. 

Il tempo che ci vuole apre una finestra sul suo modo di lavorare, determinato e gentile, votato al Cinema ma prima ancora al riguardo verso gli altri: "Prima la vita, poi il Cinema" è il suo motto sul set, in cui ognuno ha un peso specifico necessario.  

 

Il suo è un Cinema nostalgico e popolare, che resta vicino ai sentimenti già a partire dalla fase di realizzazione, fino ad arrivare a quella finale per il pubblico. 

La passione di Luigi Comencini per il Cinema è testimoniata anche dal lavoro di recupero di moltissime pellicole altrimenti destinate al macero, salvate da giovane e donate alla Cineteca di Milano, di cui poi, in età adulta, assunse anche la direzione. 

 

Ne Il tempo che ci vuole la regista Francesca Comencini omaggia proprio la Storia della Cinematografia, spargendo inserti di alcuni film dei padri fondatori della Settima Arte, da Georges Méliès fino a Roberto Rossellini

 

 

[Fabrizio Gifuni è Luigi Comencini ne Il tempo che ci vuole]

 

 

L'interpretazione che Fabrizio Gifuni fa di Luigi Comencini ne Il tempo che ci vuole è a mio avviso convincente sotto ogni aspetto, per la capacità mimetica nel corpo - l'incedere dei passi, la gestualità, le espressioni del volto - e nell'atteggiamento, ostinato e garbato insieme.  

 

Quando Francesca diventa adolescente entra in scena Romana Maggiora Vergano, che veste bene le ombre scure tipiche della fase di passaggio tra l'infanzia e l'età adulta. 

È qui che Il tempo che ci vuole esprime tutto il coraggio della regista Francesca Comencini che, senza sconti, si rappresenta nel suo tormento: qui si intrecciano lo scontro generazionale privato, tra lei e suo padre, e quello sociale, tra il vecchio modello istituzionale e la nuova spinta rivoluzionaria. 

 

In Italia sono gli anni di piombo, con la strage di Piazza Fontana e il rapimento di Idalgo Macchiarini da parte delle Brigate Rosse. 

Sono gli anni del sequestro di Aldo Moro. 

 

Francesca è alla ricerca della propria identità, desiderosa di appartenere a qualcosa in cui riconoscersi tra simili. 

La fascinazione della lotta armata delle BR però agisce su di lei più in senso estetico che davvero politico; comincia a scrivere sul muro della sua camera lo slogan "Mordi e Fuggi! Punirne uno per punirne 100!", ma non arriva nemmeno a completare la frase.

 

Negli anni del terrorismo le idee di ribellione sono condite con la droga: l'eroina si diffonde tra i giovani come un morbo che ischeletrisce l'anima; Francesca ne diventa dipendente, affidando alle sostanze una risposta al suo disorientamento. 

Il futuro le sembra un guscio vuoto, si sente inadeguata, priva di una vocazione a cui dedicarsi. 

Con il padre, nei confronti del quale ha eretto un muro di separazione emotiva, prova a mascherare quel dolore, rifugiandosi nel silenzio e nella menzogna. 

 

La fotografia de Il tempo che ci vuole, affidata al vincitore di 7 David di Donatello Luca Bigazzi, coglie bene il sapore di quegli anni di rabbia e perdizione, tratteggiando con realismo un pezzo di Storia del Paese.

 

 

[Un frame da Il tempo che ci vuole]

 

 

Nell'alternarsi continuo dei due punti di vista, ora è quello del padre a essere messo sotto la lente di ingrandimento. 

 

Luigi viene estromesso dal suo ruolo paterno, impossibilitato nonostante i tentativi a trovare un canale di comunicazione con la figlia: è un uomo disarmato, indebolito dal morbo di Parkinson che progressivamente sta ammalando il suo corpo - la malattia non viene mai nominata nel film, in continuità con la scelta in sottrazione - un padre che si fida della figlia, che prova a non invadere il suo spazio, ma che si accorge di non avere più alcuna presa su di lei. 

 

Rispetto alla relazione padre-figlia, la storia de Il tempo che ci vuole transita dal particolare all'universale, muovendosi in una dimensione che si allarga all'esperienza collettiva. 

Pur avendo avuto negli anni un rapporto di reciprocità affettuoso e saldo, pur essendo stato Luigi un punto di riferimento per Francesca, sembra che la crescita porti con sé uno scontro inevitabile eppure, nel momento di distanza più estremo, la gentile ostinazione di Luigi ricuce con delicatezza gli strappi interiori.

 

Quando trova Francesca in bagno con la siringa, annichilito dalla paura di quello che le sta accadendo, apre un dialogo con lei profondamente sincero. 

Seduti sul pavimento del corridoio, mentre la macchina da presa li avvolge tutt'intorno, si guardano alla stessa altezza degli occhi: due esseri umani con al centro una fragilità condivisa. 

Luigi non la giudica, anzi consegna alla figlia il racconto della propria vulnerabilità, di quanto la paura lo abbia messo in crisi più volte anche nelle scelte professionali.   

Le dice anche che è solo nel continuo tentativo, negli sbagli e nelle cadute, che l'esistenza si manifesta più potente. 

 

Citando Samuel Beckett, Luigi elogia il fallimento: "sempre tentare e sempre fallire, e fallire sempre meglio"

 

Coerente con il principio "Prima la vita, poi il Cinema", Luigi capisce che la sua presenza è fondamentale per la sopravvivenza della figlia e che starle accanto è l'unico strumento che possiede per provare a farla uscire dalla dipendenza, così decide di portarla con sé a vivere a Parigi per "il tempo che ci vuole".

Per guarire, per ritrovarsi. 

 

Le dà una direzione: non una meta, ma una strada da percorrere. 

 

 

[Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano ne Il tempo che ci vuole]

 

 

Parigi si trasforma così in uno spazio sospeso, un terreno dove conta solo esserci, stare, insieme.

 

Le scelte di montaggio eleganti regalano una Parigi notturna e piovosa, poetica nella lunghe passeggiate che curano le ferite. 

È la città dove padre e figlia si ritrovano attraverso il linguaggio comune del Cinema: andare in sala diventa un rituale magico, una sorta di incantesimo capace di risanare le crepe del cuore. 

Sulla scorta della lezione del padre Francesca stessa impara a fare Cinema - nel film e nella vita vera - in una consonanza di intenti che, se nel genere privilegiato resta ben distinta, risulta evidente nell'ideale: tecnica e amore, determinazione e quiete, mestiere e umanità. 

 

Nel percorso di vita che Comencini ricostruisce ne Il tempo che ci vuole, si percepisce lo sguardo sincero della regista, che riesce a descriversi "da fuori" percorrendo un viaggio che scava "da dentro", con la schiettezza di chi ha risolto i conti con il passato, non senza dolore. 

Il film sembra arrivare in una fase di liberazione di Comencini, quando resta il sapore dolce dell'indulgenza verso di sé, quando l'ingombro del giudizio e dell'autocritica lasciano spazio al senso di gratitudine, alla ventata fresca della riconoscenza per chi è stato a fianco. 

 

Il tempo che ci vuole è il ritratto di un padre, di un uomo, di un essere umano e di come la sua presenza abbia definito, per somiglianza e per contrasto, l'identità della figlia. 

È una lettera d'amore e di riconoscenza per averle insegnato ad affrontare il comune terrore del fallimento, riempiendo di senso la parola "vicinanza" come antidoto al malessere esistenziale. 

 

"Dopo tanti anni passati a fare il suo stesso lavoro cercando di essere diversa da lui" - afferma Comencini - "ho voluto raccontare quanto ogni cosa che sono la devo a lui: ho voluto rendere omaggio a mio padre, al suo modo di fare Cinema, al suo modo di essere, all’importanza che la sua opera e il suo impegno hanno avuto per il nostro Cinema. 

 

All’importanza che la sua persona ha avuto per me."

 

 

 

[Un frame da Il tempo che ci vuole]

 

 

Il tempo che ci vuole ha il pregio di rimettere al centro la potenza del Cinema con l'intelligenza di chi lo riconosce come arte trasversale, senza snobismi o pose.

 

Il Cinema deve essere contaminato dalla vita, sporcarsi, mescolarsi con lo spirito del popolo, senza per questo rinunciare alla sua cifra culturale.  Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini è un film commovente nel senso che agita, muove dentro, ridefinisce le priorità dei sentimenti. 

 

Ci sono dentro vent'anni di memoria condivisa, in cui ognuno può leggerci un pezzo di Italia e di sé. 

 

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