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Dostoevskij - Recensione: Puzzle di colpa e bestialità

Dostoevskij dei Fratelli D’Innocenzo è un western-crime esistenziale che, con una fotografia intensa e distorta, ci mostra come il confine tra serie TV e Cinema sia diventato sempre più labile, confermando l’originalità dei due registi romani nel panorama cinematografico italiano

Damiano e Fabio D’Innocenzo, ormai riconosciuti come una delle punte di diamante del nuovo Cinema italiano, tornano a stupire con Dostoevskij.

 

La loro ultima fatica è un’opera di cinque ore che sfida i confini tra film e serie TV e si inserisce nel genere crime, ma lo fa attraverso una lente che lo fonde con elementi del western e del nuovo racconto periferico-naturalistico della nuova generazione del Cinema italiano, creando un affresco violento e crudo della psiche umana.

 

[Il trailer ufficiale di Dostoevskij]

 

 

Originariamente concepito come un western il progetto ha preso una direzione diversa, evolvendosi in un crime esistenziale che esplora le profondità oscure della mente.

 

Come racconta Damiano D’Innocenzo: "Quando abbiamo ripreso contatto con loro, abbiamo proposto di fare un western, ma loro volevano un crime ed è ciò che il pubblico vedrà".

Dostoevskij è quindi un prodotto che vive di commistioni, dove il protagonista, il poliziotto Enzo Vitello, interpretato da un intenso Filippo Timi, affronta un serial killer enigmatico, ma il vero nemico si rivela essere il suo stesso abisso interiore.

 

Dostoevskij si sviluppa come un intricato puzzle narrativo che sfida le convenzioni del genere crime in cui iI serial killer, da Vitello stesso rinominato Dostoevskij, lasciando lettere cariche di una visione nichilista accanto alle sue vittime, diventa il riflesso oscuro del detective, che più si addentra nell’indagine, più perde se stesso.

 

 

[La memoria del passato, prima delle conseguenze delle proprie bestialità è centrale in Dostoevskij: qui è ancora più sottolineata dalla calda luminosità e da una delle rare immagini amene del mondo rurale in cui si muove Vitello]

 

 

Il tema della colpa trasmessa dai padri ai figli, già esplorato dai D’Innocenzo in opere come Favolacce e America Latina, trova qui una nuova profondità e Vitello ne è l’incarnazione, lacerato tra il senso di colpa e una violenza repressa che minaccia di esplodere.

 

Così come tutto il racconto a ritroso che il protagonista ricostruisce del serial killer Dostoevskij è un esempio delle conseguenze che Vitello stesso ha avuto su sua figlia e che tutte le figure transitate attorno all’assassino abbiano avuto lo stesso effetto: le strutture, le istituzioni, i genitori, i mentori. 

Questo tema centrale viene rafforzato dalle complesse relazioni che Vitello instaura con i suoi colleghi, in particolare con Antonio, interpretato da Federico Vanni, e Fabio, interpretato da Gabriel Montesi, entrambi parte di un universo fatto di uomini colpevoli e fragili, che subiscono le conseguenze delle proprie azioni.

Il primo, una figura paterna corrotta, rappresenta l’autorità decaduta e complice, mentre Fabio, il nuovo arrivato, funge da ennesimo specchio del protagonista.

 

Da un lato l’amico di una vita il cui tradimento è imperdonabile, dall’altro un nuovo Vitello il cui Dostoeskij è il detective stesso che ricade negli stessi errori: rapporti fondamentali per comprendere il ciclo di violenza e autodistruzione che sembra impossibile da spezzare.

 

 

[Ambra (Carlotta Gamba), la figlia di Vitello, è la vera chiave di volta di Dostoevskij, nel suo rapporto con il padre e nella colpa non detta che serpeggia tra loro si annida tutto ciò che i due autori hanno voluto costruire nella loro opera]

 

 

L’uso della pellicola Super 16 millimetri non è solo un omaggio estetico, ma una scelta che amplifica il senso di desolazione e claustrofobia.

 

La fotografia di Matteo Cocco, alla sua prima esperienza con questo formato, è cruciale per trasmettere il disfacimento psicologico del protagonista. Le forti contrapposizioni di luce e ombra non solo creano un’atmosfera oppressiva, ma riflettono anche la condizione psicofisica di Vitello, dipendente dai farmaci.

Un utilizzo che allontana fortemente dalla raffinata nostalgia del ritorno al look della pellicola da A24 e che ci porta in una dimensione sporca, bestiale, claustrofobica e fisica. 

Il viaggio cromatico inizia in un contesto più buio, dove il detective sembra ancora relativamente inserito, ma mentre la trama avanza la luce diventa più aggressiva e alienante, rispecchiando il progressivo distacco di Vitello dalla realtà e dalla castrazione della sua bestialità. 

 

La presenza invasiva della luce, particolarmente nel secondo atto, diventa quasi un’aggressione visiva che simboleggia l’alienazione di Vitello dal mondo esterno.

 

 

[Gli autori di Dostoevskij Fabio e Damiano D'Innocenzo]

 

Lo spettatore, come il protagonista, è sopraffatto da una visione che diventa sempre più ostile, in una spirale di paranoia e disfacimento in cui gli insistiti voice-over vomitano tutta la complessità del detective. 

 

In Dostoevskij la sovrapposizione di voice-over e soliloqui interni al protagonista rafforza il legame intimo tra Vitello e lo spettatore: il dialogo interiore che si sviluppa soprattutto nelle sequenze notturne rende palpabile il tormento del protagonista, in un crescendo di tensione che richiama il Cinema noir classico e le suggestioni della New Wave del Cinema orientale. 

Il linguaggio di Dostoevskij gioca anche con inquadrature strette e grandangolari che distorcono Enzo Vitello, rendendo plastica la sua frustrazione e il suo processo di disintegrazione psicologica, facendo perdere lo spettatore allo stesso tempo nei pensieri del protagonista e nelle sue immagini distorte al limite della macro.

Questo uso insistito e straniante dei dettagli che permea tutta l’opera è inoltre la rappresentazione concreta dei pezzi del puzzle che Vitello cerca di mettere insieme, sia nel caso sia nella sua stessa esistenza, e ne costituisce uno dei pilastri.

 

Il film, attraverso queste scelte stilistiche, offre una perfetta aderenza tra la forma visiva e la percezione del protagonista, che si concentra su dettagli minuziosi come oggetti, parole, e piccole sporcizie, perdendo progressivamente la visione d’insieme.

 

Questa coincidenza tra forma e concetto all'interno dell’opera audiovisiva è fondamentale per evidenziare l’autorialità dei D’Innocenzo, che hanno approcciato Dostoevskij come un’opera seriale ma con la stessa marca stilistica e importanza autoriale di un'opera cinematografica.

 

 

[Così come la serie HBO True Detective, Dostoevskij ragiona profondamente sull'universo delle forze dell'ordine e sulla loro umanità]

 

Dostoevskij richiama inevitabilmente confronti con la prima stagione di True Detective.

 

Pur posizionandosi in un universo molto simile a quello southern gothic della prima stagione della celebre serie antologica di HBO, qui la dimensione seriale è molto meno rintracciabile e i D’Innocenzo sembrano abbracciare una dimensione più eterea, bestiale e psicanalitica rispetto alla linearità della serie con Matthew McConaughey.

Oltre a questo la fallibilità, la fragilità e la piccolezza di Vitello lo portano a essere un personaggio estremamente empatizzabile, ma allo stesso tempo deprecabile, fallibile e meno glam di Rustin Cohle.

 

Dostoevskij è a mio avviso un’opera coraggiosa e riflessiva che esplora le zone d’ombra dell’animo umano con un approccio visivo e narrativo innovativo, i Fratelli D’Innocenzo sono riusciti a confermarsi tra i pochi registi italiani capaci di dialogare con il pubblico internazionale senza perdere la loro identità artistica, sfornando quella che probabilmente è ad oggi la loro opera più completa.

 

Un viaggio oscuro e disturbante nella colpa, nelle conseguenze e nella bestialità umana. 

 

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