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Tratte da I delinquenti, le righe che seguono sono un collage di frasi liberamente tradotte della poesia Fui al río di Juan Laurentino Ortiz, pubblicata nel 1937 e citata nel film di Rodrigo Moreno, a sua volta ispirato alla pellicola Appena un delinquente di Hugo Fregonese, uscita nel 1949.
Sono andato al fiume e la corrente diceva cose che non capivo; volevo comprenderle ma non potevo; stavo ritornando - ero io quello che ritornava? - e di colpo ho sentito il fiume in me: me atravesaba un río, me atravesaba un río!
[Il trailer di I delinquenti]
Anche la poesia La Gran Salina di Ricardo Zelarayán è citata: ecco un altro collage di frasi liberamente tradotte.
Sto pensando ai treni merci che passano di notte per la Gran Salina; la parola mistero non spiega nulla, dovremmo rimpiazzare la parola mistero con quello che sento quando penso ai treni merci che passano di notte per la Gran Salina; però non mi spiego e nessuno finora è mai riuscito a spiegarmi perché mi sorprendo a pensare alla Gran Salina.
Due poesie perché I delinquenti ha un andamento poetico, perché si concede divagazioni, perché serviranno in vista di rimandi interni che mimeranno quelli del film di Moreno, perché non serviranno più, come una sigaretta dopo aver smesso di fumare; come una sigaretta che, dopo aver dichiarato di aver smesso di fumare, raggiunge la bocca e si accende.
Al momento il Cinema argentino è vitale come pochi altri: oltre a nomi affermati - almeno nel panorama critico e più cinefilo - come Lisandro Alonso, la punta di diamante è la casa di produzione Pampero Cine, madre di opere come La Flor di Mariano Llinás nel 2018 e Trenque Lauquen di Laura Citarella nel 2022, film dell'anno per i Cahiers du cinéma.
I delinquenti non è figlio legittimo di Pampero Cine ma si colloca inequivocabilmente in quel solco, come potrebbe peraltro indicare la presenza di Laura Paredes, moglie di Mariano Llinás, già interprete dalla botanica Laura in Trenque Lauquen (titolo che è un toponimo), ora nei panni della investigatrice assicurativa Laura Ortega; o, più che la sua presenza, il riallacciarsi a questo non-valzer di antroponimi.
Non è il solo danzar di nomi: i protagonisti sono gli impiegati bancari Morán e Román e tutti e due giungono ad amare Norma, sorella di Morna; Norma e Morna sono amiche del regista Ramón, e non si dà mai la compresenza di Morán, Román e Ramón, semmai di Román e Ramón in un primo tempo e di Morán e Ramón in un secondo tempo (secondo solo a livello di intreccio, primo osservando invece la fabula: si tratta insomma di un'analessi).
Qualora si osservasse anche la citazione diretta di un film come L'Argent di Robert Bresson e la più ampia rete intertestuale (e intermediale) intravista in apertura, si potrebbe frettolosamente concluderne - eventualmente pensando anche alla relazione con la base di Fregonese - che il gioco è un tipico esempio di Postmodernismo, anche se fuori tempo massimo.
Imbattendosi nella mancanza di quell'ironia metalinguistica, sul cui senso potenzialmente meta-storico ha scritto Umberto Eco nelle postille a Il nome della rosa, ci si potrebbe tuttavia ricredere e virare verso il Modernismo, come stessimo consultando un catalogo di etichette prêt-à-porter: questo soprattutto in forza dell'evidente devianza linguistica.
Nuovamente si sarebbe però costretti a rilevare altre mancanze (nostre o del film?), anzitutto riguardanti ciò che potremmo definire, nel quadro di un'ipotetica volontà di rottura, la partitura emozionale (guardando anche, appunto, al tentativo di comunicazione della volontà di rottura).
Né pienamente postmoderno, né pienamente moderno, né pienamente classico, e forse - come si accennava - in necessario ritardo su ogni fronte, I delinquenti si sottrae alla presa critica se questa si vuole (troppo) oggettivante: a una prima occhiata, rimane solo la debole possibilità di richiamarsi all'orizzonte Pampero, che non rende questa apparizione del tutto aliena ma che, al di là della registrazione di tratti solo formali (cioè materiali), non risolve la questione del senso.
[Un frame da I delinquenti]
Prima di approcciarla, capendo che forse non si tratta davvero (o solo, o - meglio - in primo luogo) di una questione, esponiamo alcuni esiti di quella registrazione astrattiva, non prima però di aver fornito una sinossi di origine paratestuale (per calcolata pigrizia di chi scrive, ma anche e soprattutto per volgere attenzioni a ciò che accompagna ufficialmente il film): secondo MUBI, "Morán elabora un piano per rubare denaro sufficiente a fuggire alla monotonia aziendale, confessare e scontare la pena mentre un suo collega nasconde il bottino.
Messo sotto pressione da un ispettore della banca, il complice Román incontra una donna misteriosa [Norma, n.d.r.] che lo trasformerà".
Elaborando la traccia di Fregonese, I delinquenti reca ovviamente con sé, come intuibile, una spinta politica di facile lettura, peraltro imperniata sul topos della dicotomia città/campagna: la comprensibile critica alla logica del neocapitalismo cela - o celebra - così fantasie passatiste ancor più reazionarie?
Come in un film di Douglas Sirk e tralasciando le intenzioni di Moreno (per esempio a proposito del finale, considerato - astraendo, appunto - dal punto di vista narrativo), il lavoro del film va individuato primariamente altrove; e già ricorrere al concetto di individuazione, e pertanto - in qualche modo - di oggettivazione, non è (o non dovrebbe essere così) pacifico.
Parliamo dei tratti formali summenzionati, e parliamone poco, segnalando soprattutto la presenza di una sorprendente varietà che non può essere ricondotta solo a una volontà di variatio che si vorrebbe erudita, eventualmente sterile in quanto operante presupponendo (e muovendosi a favore di) una scissione ingenua di forma e contenuto: split screen di una rara intelligenza, ponti sonori ai limiti della diegesi, dissolvenze incrociate insolitamente lunghe, ellissi inaspettate tra tagli e - ancora - dissolvenze, occasionali zoom in dal sapore retrò, alcune false soggettive, gran libertà nella ampiezza delle inquadrature (con alcuni campi lunghi e lunghissimi estremamente suggestivi) e nei movimenti di macchina (tra cui spiccano le panoramiche in esterni).
Tutto ciò si alterna e sembrerebbe allora latitare la coerenza di uno stile in ottica autorialista, eppure lo stile è lì da vedere (e - ironicamente - da vendere): senza pensare a un Cinema (che si vorrebbe) contenutistico le cui falle estetico-teoretiche sono più evidenti e mimano le credenze del senso comune, è la rigidità di uno schema imposto con un gesto verticale, di un Cinema ridotto dimostrativamente (e autoritariamente) a teorema formalista che invero replica sovente in contesti elitisti quegli stessi processi di convenzionalizzazione e commercializzazione che segnano già il mainstream, è questa rigidità - peraltro edificata sulle medesime credenze del senso comune, solo percorse nel verso opposto - che invece risulta assente.
È il motivo per cui il movimento associato soprattutto al Pampero Cine può essere autenticamente un movimento, se ha ancora un qualche senso impiegare questo concetto.
Il riferimento a una prefigurazione autoritaria del patto con lo spettatore è centrale, e sicuramente la mera variatio (come la compattezza granitica di uno stile davvero autoriale imperniato su pochi elementi) non sposta la possibile valutazione di un millimetro: il punto non è la forma, ma le relazioni tra forma e contenuto; meglio: la loro coalescenza (e la consapevolezza di tale coalescenza, che non chiamo identità solo perché è troppo arduo, al momento, non presuppore una separazione preventiva); meglio ancora: il riconoscimento che questa coalescenza (in-differente) non sta immobile dinnanzi allo spettatore (da intendere in un modo non soggettivistico) ma lo coinvolge in maniera costitutiva, è effettivamente creata solo in e da questa relazione, non è assoluta (ovvero ab-soluta, sciolta dalla relazione, dalle relazioni).
Ciò che conta è una postura, un ethos che ha a che fare con un incontro; e se estetica rimanda al greco aisthesis, associato al campo semantico della percezione, e se non consideriamo la percezione in modo solo scientistico, possiamo anzitutto interpretare la percezione (in senso lato: coinvolgiamo anche la sfera emozionale, strappandola alla soggettività privata) in chiave semiotico e pensarla come una collocazione preventiva che ha contemporaneamente a che fare con l'etica (ethos) e la logica (pensando al logos, non solo al significato consueto del termine): la traccia è quella indicata dal filosofo pragmati(ci)sta Charles Sanders Peirce - anche via Carlo Sini - e le tre dimensioni emergono allora solo come poli interni di una relazione triadica necessariamente dinamica.
Il che significa, almeno per quanto interessa qui (ovvero in una pratica di scrittura che frequenta il logos e muove dal logos): in un incontro, la collocazione preventiva estetica è sempre presa in una postura etica che dis-pone nei confronti del mondo e insieme dis-pone il mondo (fa mondo), con il tutto che al tempo stesso (!) risulta continuamente interpretato e modificato dalla logica appunto interpretante.
Insistendo sul concetto di incontro e tenendo ferma la pratica di scrittura come orizzonte di riferimento, potremmo ora parlare - chiarificando un termine che ho saltuariamente impiegato soprattutto per guardare alla coalescenza di forma e contenuto - di est-etica: la questione del senso prima citata, distinguendo il senso dal significato e riservando il secondo al polo del logos, trova qui casa e si mostra incertamente (eludendo la qui invero ineludibile prospettiva logica) nella sua (in-)differenza rispetto al concetto stesso di questione, quaestio.
[Un frame da I delinquenti]
Chiusa questa parentesi meta-critica, volgiamoci ancora verso I delinquenti.
Come si accennava a proposito della sinossi, il film vorrebbe esplicitamente riflettere sulla libertà ma - usando il titolo della canzone che chiude tanto il film quanto il disco Pappo's Blues del gruppo omonimo che gioca una parte nella forma materiale di un vinile - adónde está la libertad?
In campagna? Solo un parere reazionario o frettoloso potrebbe crederlo, e in parallelo solo un parametro di tipo contenutistico.
Procediamo per un tratto in negativo: al manifesto, Moreno ha dichiarato la sua avversione nei confronti del realismo (ingenuo), e soprattutto che "il male non è iniziato con Netflix ma prima, con i fratelli Dardenne e la loro scelta di girare con la macchina intorno ai propri personaggi dimenticando gli elementi fondamentali del Cinema: dissolvenza, taglio, split screen, musica…".
È un giudizio che non sembra condivisibile, almeno se espresso in questi termini: non è difficile immaginare e/o individuare esempi di un utilizzo realistico - ma il problema è proprio cosa si intende con realismo, e quanto il realismo sia costruito: ne ho scritto in riferimento a Francesco Rosi - di quegli elementi o esempi di un utilizzo non-realistico (o anti-realistico) degli elementi a cui fanno ricorso ai Dardenne, e ciò proprio perché non è possibile imporre a-priori (il che banalmente equivale a cristallizzare - e dunque ontologizzare in maniera forte, ma non esplicita - il presente) un significato alla forma, cioè alla materia.
Peraltro, vista la parziale vicinanza del movimento argentino alla Nouvelle Vague, bisognerebbe interrogare Moreno sul Neorealismo, posti il problema di coesione interna (e anche esterna: sul banco almeno paratesto, intertesto, spettatorialità e critica) che caratterizza la definizione di ogni corrente, le differenti letture degli autori neorealisti offerte dai giovani turchi dei Cahiers du cinéma e soprattutto il rapporto tra i Dardenne e Roberto Rossellini (e il Godard prima critico e poi regista).
Per il Moreno che si auto-interpreta la libertà sta comunque manifestamente in quegli elementi formali; ciò vuol dire allora che I delinquenti mi porta (meglio: porta me in quanto porta la mia comunità interpretativa, poiché il nodo concerne anche il superamento di uno sguardo individualizzante che confina questo genere di discussioni nella supposta insindacabilità - infine fintamente irrilevante - del giudizio privato) a rifiutare quest'auto-interpretazione, senza che si tratti (o che debba trattarsi) di una scelta coraggiosa, perché è il rispondere autenticamente al film il solo compito dello spettatore.
Il primo passo da compiere è comprendere la carica ludica che percorre il film, imboccando un sentiero che accompagna infine al tema del tempo: un passaggio di una canzone dei Pappo's Blues rinvia al "tempo debito", tempo cairologico su cui già mi sono soffermato a proposito de Il maestro giardiniere, al quale si collega idealmente anche una pretestuosa discussione sui giardini che sarà accostata più tardi.
Oltre ai saltuari accenni pienamente grotteschi, si diceva che il gustoso carosello di rimandi interni non è ironico in direzione postmoderna: il fine non è denunciare causticamente (e nichilisticamente) un nonsense esistenziale che autorizza il primato assoluto, ab-soluto, dell'autore-deus ex machina, escrescenza diretta o indiretta di una lettura filologicamente e filosoficamente discutibile delle tesi di stampo etico-valoriale espresse ad esempio da Friedrich Nietzsche (soprattutto sui punti del nichilismo attivo e della "trasvalutazione di tutti i valori", in aggiunta al frequente fraintendimento relativo alla sua interpretazione - aforisma 481 de La volontà di potenza su tutti - del concetto stesso di interpretazione).
Per la nostra comprensione un crocevia è la vis combinatoria di Jorge Luis Borges, a cui vale la pena far riferimento chiamando al contempo in causa Italo Calvino e Umberto Eco: lo scivoloso - perché non-necessario - posizionamento del primo nei ranghi ideali del Modernismo o del Postmodernismo, la progressione del secondo tra fiabe, strutturalismo (Le città invisibili) e Se una notte d'inverno un viaggiatore (anti-romanzo e meta-romanzo tradizionalmente definito postmodernista) e il rapporto tra il terzo e il Postmodernismo (Il nome della rosa e postille) sono spunti di riflessione parecchio utili, evidenziando appunto come I delinquenti si sottragga (anch'esso?) alle categorie menzionate.
E mancando una struttura rigida così come l'istanza autoriale che o vuole spezzare e rinnovare il linguaggio (in apparenza seriamente o seriosamente: siamo dalla parti di un Modernismo che invero sa anche essere coraggiosamente giocoso) o vuole rimasticarlo (in apparenza giocosamente: siamo dalle parti di un Postmodernismo che invero poggia su basi nichilistiche e su una lettura reazionaria del passato), si pone un discorso di tipo metafisico, in senso lato; non è poi inutile riflettere sulla relazione tra autorialità e metafisica in Robert Bresson: è possibile correre con la mente proprio a L'Argent anche prima della citazione esplicita pensando al destino del denaro (falso: a monte Tolstoj) e al correlato (e/o conseguente) destino degli individui.
[Un frame da I delinquenti]
Il discorso metafisico e quello sul gioco combinatorio non devono essere tuttavia interpretati intellettualisticamente a-priori: nello stesso tempo va infatti vagliata la partitura emozionale suggerita dal film.
I delinquenti si apre piuttosto in medias res e si avvicina ambiguamente ai due protagonisti, conservando una distanza est-etica che né estrania e rende entomologi né favorisce immedesimazioni al grado massimo; di conseguenza il gioco combinatorio né cala con (voluto) sadismo dal (nostro) cielo né cala con (supposto) sadismo dal cielo: il senso non è strutturato secondo un asse verticale, e la musica è sovente investita di una responsabilità cruciale.
Un primo punto di approdo potrebbe essere rappresentato dalla categoria di realismo magico, la quale tuttavia convince poco soprattutto circa la concezione del magico e - si potrebbe aggiungere, ricordando anche La Gran Salina - del mistero: oltre alla poesia, un'indicazione per la via da seguire può essere anche il riferimento a una zona oggetto di apparizioni aliene che però non si verificano (almeno scopertamente), quella montagna che funge da autentico epicentro concettuale.
In quella zona e in tempi diversi Román e Morán incontrano Norma, polo del triangolo (fantasma) la cui sorte è assai significativa soprattutto contemplando le aspettative intertestuali più comuni.
Uno dei termini di paragone più adatti per I delinquenti può essere forse il Cinema di Jacques Rivette, est-etica e logica prese insieme: se "il cinema in quanto tale è morto" ma "forse non del tutto" e però anche perché qualcuno sa ancora non essere così derivativo.
In effetti la riuscita del film di Moreno si gioca qui: sono poche le opere in grado di essere così innocenti nella sperimentazione, così superficiali per profondità (cito il medesimo aforisma nicciano che avevo dedicato a Il grande carro di Philippe Garrel).
Ma parliamo di giardini: il regista Ramón preferisce il giardino giapponese a quello inglese poiché ha un respiro cosmologico che risulta invece soffocato dalla spinta imitativa del secondo (immagine della ratio europea); le pietre sono montagne in miniatura, stanno per le montagne, sono segni delle montagne, signa (termine-concetto che rimanda a una lettura appunto cosmologica delle costellazioni).
La mobilitazione est-etica che segna I delinquenti, naturalmente estendentesi anche al di là del film in quanto tale, ha in qualche maniera una portata cosmologica, non-metafisica.
Innocenza e carica ludica; divagazioni operate in senso diegetico (come una partita di calcio) o extra-diegetico (come la ricognizione di edifici urbani o di rocce) e superamento di gerarchizzazioni visive e narrative ormai stantie; mancanza di sfoghi lirico-sentimentalistici e connotazione positiva di una parzialità e un'incompletezza (come quella di una filastrocca) che invero si mostrano nella loro paradossale compiutezza.
Proprio questo è lo spazio della libertà, di questa libertà, spazio che ben accoglie anche il concetto di dépense coniato da Georges Bataille, di quello spreco non-utilitaristico (e non anti-utilitaristico) che può condurre in un mondo di possibilità in cui siamo (implicati - o giocati?), che siamo, e non che ingenuamente si parano dinnanzi agli occhi.
Cambiare ossessivamente posto-postura come Román fa al cinema può restituire un barlume di senso solo cogliendo il valore cosmologico, mondiale e non mistico, della sinfonia per oboe composta da Astor Piazzolla che solca e trasforma incessantemente e inspiegabilmente il significato; solo facendosi attraversare da un fiume (di immagini).
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