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Il maestro giardiniere, il nuovo film di Paul Schrader, si apre esibendo dei fiori che sbocciano uno dopo l'altro; il loro schiudersi raggiunge il momento di massima apertura e poi si consuma nel nero, in dissolvenze che occultano il decadimento materiale.
Vediamo che ciò che vive ha un fine interno che ne orienta lo sviluppo.
Il riferimento è al concetto aristotelico di entelechia ¹, in merito al quale si rimanda al sistema di note, che trovate in calce, per non appesantire il discorso con digressioni strettamente filosofiche comunque indispensabili per avvicinarsi al problema.
[Il trailer de Il maestro giardiniere]
Compreso e reinterpretato radicalmente, questo concetto potrebbe condurre (e ha condotto ²) a vedere dall'alto il processo di sviluppo, a focalizzarsi sulla totalità come luogo di manifestazione della verità.
In tal modo si presuppone la possibilità di guadagnare una posizione di indiscutibile vantaggio, di comprendere in maniera oggettiva e conquistare la pienezza della libertà ³: in campo cinematografico il corrispettivo è potenzialmente doppio, riguarda il narratore onnisciente sul piano eminentemente narrativo (la focalizzazione zero, secondo la terminologia di Gérard Genette) e l'oggettiva irreale su quello visuale - il termine è di Francesco Casetti e Federico Di Chio, e va segnalato come quest'inquadratura non sia trasparente come le restanti oggettive.
Il perché del discorso sulla finalità - e qui occorre tenere distinte le nozioni di teleologia e determinismo - è presto detto, e ovviamente non trova come appiglio i soli titoli di testa.
Superati questi, in cui lo sbocciare rende palese la propria origine digitale, il meccani(ci)smo che lo anima, Il maestro giardiniere si ri-apre su un uomo, Narvel, che scrive.
Mentre la penna scorre sentiamo la voce fuori campo e stranamente l'argomento è il giardinaggio; stranamente (almeno in apparenza) perché ciò che vediamo sembra evocare contemporaneamente Edward Hopper e Robert Bresson, consueto convitato di pietra, facendo intravedere problemi di ben altra portata (almeno in apparenza, ancora).
La gestione illuminotecnica - con la conseguente ricerca volumetrica - e la solitudine suggerita rimandano al primo, il cui saltuario accostamento rispetto alla pittura metafisica merita un minimo di attenzione, anche pretestuosa.
Plurivoca anche guardando a Giorgio de Chirico e già etimologicamente (quasi-)casuale, la nozione di metafisica può riferirsi a una trascendenza pensata secondo un asse verticale ⁴ oppure, con Martin Heidegger, alla domanda "perché c'è l'ente e non il nulla", da non interpretare in maniera teoreticistica.
Nel caso di Schrader e di Bresson, nonostante il quesito non sia esplicitamente quello heideggeriano, il punto di vista è il secondo.
Dalla ricchezza dell'inquadratura iniziale può emergere anche un discorso sulla luce che coinvolge Caravaggio ⁵: nelle sue opere questa nasce rigorosamente fuori dal quadro, fuori campo (e fuori quadro?); non per questo, specie insistendo sugli aspetti volumetrici, si impone obbligatoriamente una lettura metafisica di tipo verticale.
La luce è vocazione, chiamata divina, Grazia; proprio la Grazia e la seconda venuta di Cristo (parusia) si toccano sul piano della temporalità, in quanto entrambe si concretizzano solo al momento opportuno (kairos ⁶).
Lungi dal qualificarsi come arbitrario e soggettivistico, il momento opportuno può essere una folgorazione di tipo esterno, quasi letterale, oppure un qualcosa da inverare praticamente, da accogliere e far germogliare.
Convergono qui il rifiuto del teoreticismo e il tema del libero arbitrio (in toto ma anche in rapporto alla salvezza), e San Paolo rappresenta un crocevia ineludibile ⁷.
Essere autenticamente pronti non significa solo preparare il terreno, ma agire pienamente nel presente e inverare le speranze (impostando un rapporto corretto nei confronti del futuro): non è un caso che il filosofo Walter Benjamin abbia raccolto la temporalità cairologica paolina e il messianismo ebraico in quel suo messianismo rivoluzionario che scarta la sterilità delle utopie (e il determinismo anti-umano del Marx più maturo).
[Joel Edgerton è Narvel ne Il maestro giardiniere]
Ne Il maestro giardiniere la tensione iniziale tra rimando hopperiano e rimando caravaggesco illumina retrospettivamente il resto del film.
Riporto le parole più rilevanti che Narvel pronuncia (e che si suppone corrispondano a quelle scritte) in una stanza in cui l'unica fonte di luce è interna al quadro ma impossibile - in entrambe le inquadrature in questione - da vedere direttamente: banalmente, dalla nostra prospettiva il paralume della lampada copre il bulbo.
"The formal garden imposes geometric strictures on plants […].
Informal gardens […] adhered to the shapes and contours of nature. A third type, the wild garden, only appears to be wild. [...]
Gardening is a belief in the future; a belief that things will happen according to plan, that change will come in its due time".
"Il giardino formale impone alle piante delle restrizioni geometriche [...].
I giardini informali [...] si attengono alle forme e ai contorni della natura. Un terzo tipo, il giardino selvaggio, è solo apparentemente selvaggio. [...]
Il giardinaggio è una fede nel futuro; una fede che le cose accadranno secondo i piani, che il cambiamento arriverà a tempo debito".
Questo discorso solo apparentemente di natura tecnico-settoriale esprime, al di là delle differenze (superficiali) tra le tipologie di giardino, un approccio di tipo pienamente tecnico: ognuna di quelle relazioni è impositiva nel proprio principio.
Il tempo debito non è affatto cairologico: deriva da un calcolo dei tempi cronologici delle piante e vi si adegua (adaequatio rei et intellectus); compreso il passato e rinvenute delle leggi, presente e futuro non possono che sottomettersi al dominio della logica e della causalità.
Come attività umana (téchne), il giardinaggio prevede ovviamente una "manipolazione del mondo naturale": appoggiandosi a una similitudine tutt'altro che casuale, il giardino non è l'Eden del libero mercato autoregolantesi, quanto semmai il frutto di una precisa ingegnerizzazione.
Fare giardinaggio è creare le condizioni in cui la natura può fare il suo corso (?): il giardiniere Narvel sa fin troppo bene che il fertilizzante sbagliato può impoverire la terra.
La scissione borghese tra estetica e utilità pratica del giardino, ora divenuto status symbol, rende ancor più evidente la razionalità ordinatrice; il meccanicismo pieno è intrinsecamente smentito dal punto di vista del giardiniere.
Perché interessa?
Non tanto per le pur relate valenze metaforiche tradizionali del giardino, quanto per l'etica implicata in questa dichiarata concezione del giardinaggio: che non si tratti solo di giardinaggio - come non si trattava solo di poker ne Il collezionista di carte - diventa ben presto lampante.
[Un frame da Il maestro giardiniere]
Narvel è tappezzato da tatuaggi neonazisti e rientra in un programma di protezione testimoni.
Dopo un passato a dir poco tumultuoso negli ambienti del suprematismo bianco, lavora come giardiniere da circa un decennio e cerca così di espiare le proprie colpe, di ricostruirsi (una vita); e già nella loro forma linguistica le parole iniziali tradiscono un autocontrollo sospetto: l'etica lavorativa, peraltro tradotta teoricamente, non è il semplice zelo del dipendente aziendalista.
La prima ingegnerizzazione, il plan originario, è rivolto a sé stesso: la disciplina è quella che si impone per cambiare ("ho creato questa vita, l'ho riempita di regole" dirà più tardi).
Il giardinaggio è allora un nuovo modo di vivere, un modo terragno per un uomo che esprime anche la necessità di avere con la terra un contatto sensoriale; è anche però una generalizzazione forse illegittima di una téchne applicata alla propria interiorità: è rilevante il fatto che Narvel si sia avvicinato al giardinaggio dopo aver letto un libro, com'è rilevante la repressione emotiva messa in atto in alcuni situazioni (come nell'incontro con il referente per il programma di protezione).
Le questioni di fondo sono allora le seguenti: quanto e come è possibile ingegnerizzare la propria vita e quanto è sensato il concepirsi come un fiore che tende univocamente al proprio sviluppo?
"Non puoi calcolare la natura" dice una collega a Narvel nei primi minuti, e sicuramente siamo ben lontani dagli slanci del Romanticismo: il significato è (anche) che probabilmente non è possibile interpretare in modo rigidamente deduttivo il giardinaggio né, tantomeno, la propria vita.
Prima di provare a tirare le fila, dopo il detour successivo a Hopper, spostiamo lo sguardo su Robert Bresson.
Personalmente, credo che il principale merito della produzione di Bresson sia la restituzione pienamente estetica dei concetti del giansenismo, predestinazione e Grazia in primis specie nel loro collegamento con il libero arbitrio e la soggettività.
Le due pellicole di Bresson più amate da Paul Schrader sono Il diario di un curato di campagna e Diario di un ladro, con il secondo che è divenuto la principale matrice (esplicita) di parecchi tratti del suo percorso artistico, da Taxi Driver a oggi.
In entrambi i titoli italiani appare il riferimento alla scrittura.
Nel primo film, tratto dall'omonimo romanzo di Georges Bernanos, un giovane prete affida al proprio diario e al gesto della scrittura la propria crisi di coscienza (si veda la nota 7): non a caso lo scrittore Julien Green ha potuto elogiare "un'opera tutta fatta di verità interiore".
Nel secondo film, ispirato a Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij, un borseggiatore scrive retrospettivamente delle proprie vicende e le travasa in un voice-over che scansa, a livello verbale, il presente (magari storico) e aggiunge una dimensione deterministica.
Le prime parole scritte e recitate sono: "so che di solito chi ha fatto queste cose non ne parla e chi ne parla non le ha fatte, tuttavia io le ho fatte".
Raggiungendo il punto culminante della propria ricerca, Bresson colloca nettamente a posteriori il momento coscienziale, esaspera la temporalità sempre al passato (rispetto allo hic et nunc) del racconto: il parlare segue il fare ⁸.
[Un frame da Il maestro giardiniere]
Di conseguenza, circa Il maestro giardiniere conviene soffermarsi sulla funzione rivestita dal diario di Narvel in relazione a queste possibilità, soprattutto tenendo conto di come Schrader lavori su Diario di un ladro, modificando il citazionismo rispetto a Il collezionista di carte.
In primo luogo è da sottolineare sia come la rigida leggerezza del percorso del borseggiatore si trasformi in dimostratività sia come, partendo da presupposti estetici e attoriali comunque differenti, il peso della predestinazione cambi.
Vedere come Schrader si autointerpreta può aiutare: come espresso a Sight and Sound, la questione della moralità "ha a che fare con l'enigma proprio al modo in cui sono stato cresciuto, l'enigma intrinseco al calvinismo [in ciò, naturalmente seguendo questa lettura, affine al giansenismo, ndr]: l'uomo è incapace di fare del bene, ma deve provarci. […]
Non ho mai compreso davvero pienamente questa combinazione di libero arbitrio e predestinazione".
Il problema etico summenzionato deve confrontarsi con un simile rompicapo non perché lo comanda Schrader, ma perché lo suggeriscono le parole di Narvel sul giardinaggio, le quali - è bene ricordarlo - seguono una successione di fiori che sbocciano meccanic(istic)amente: da quelle parole nasce il compito primario dello spettatore, cioè verificare la corrispondenza tra immagini e voice-over (qualcosa su cui recentemente ha riflettuto anche The Killer).
A partire dalla domanda sull'affidabilità dello pseudo-narratore, non onnisciente, si comprende come concepire la vita, se si può avanzare in maniera deduttiva.
Nel Vangelo secondo Matteo si può leggere un passaggio caro al pragmatista Charles Sanders Peirce:
"Li riconoscerete dai loro frutti. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi?".
Possiamo partire (solo?) dai frutti, dobbiamo partire dai frutti.
Certo non condannato alla libertà in senso sartriano, l'uomo schraderiano ha dentro di sé alcuni semi; e - ricorda Narvel - "ogni seme è una pianta in attesa di essere liberata" (non "di liberarsi"!), sì, ma al contempo, nelle giuste condizioni, può conservarsi quasi indefinitamente, può non svilupparsi.
Il seme suprematista è già cresciuto e non può essere dimenticato, né da sé né dagli altri, ma in quell'hortus conclusus che è la vita (terrena, terragna) le possibilità non sono terminate.
Le regole erette possono essere violate al momento opportuno, il giardinaggio può creare un ordine laddove è appropriato, si può risignificare la dimostratività, e sempre nel giusto frangente si può fare un passo a lato rispetto a Diario di un ladro.
Ma il tempo opportuno, la (possibilità della) Grazia, non è propriamente nelle nostre mani.
Nella penombra prodotta da un bulbo che non possiamo vedere direttamente, ma che non sta in alto, la luce è quella statica di Hopper, che circoscrivendo i corpi li allontana tristemente, o quella drammatico-drammaturgica - nel senso del movimento drammaturgico, del momento drammaturgico - di Caravaggio?
Note:
¹ Nella sua Metafisica, Aristotele pone in successione dynamis (potenza, potenzialità), energheia (essere in atto) e appunto entelechia, l'atto effettivamente compiuto, etimologicamente derivante dalla comunione di en (dentro) e telos (fine, finalità).
Questa è lo stato conclusivo del processo evolutivo, che solo attraverso indebite estensioni può essere accomunato pienamente al darwinismo (che già, nella sua versione sociale, incontra una distorsione rispetto al progetto originario).
Aristotele pensa poi a dinamiche di specie, a una necessità intesa nei termini della causalità lineare: il singolo ente incontra invece segnatamente l'endechomenon (contingenza), qualcosa che si può comprendere nei termini della possibilità.
È evidente che nel parametrare questi discorsi a Il maestro giardiniere si rendano obbligate, tanto a partire dal mezzo quanto in relazione alla effettiva ricerca di complessità teoretica, delle traduzioni che implicano semplificazioni e condensazioni.
² Un passo dalla Fenomenologia dello spirito di Georg W.F. Hegel (nella traduzione di Vincenzo Cicero): "la gemma scompare quando sboccia il fiore, e si potrebbe dire che ne viene confutata; allo stesso modo, […] il frutto subentra al posto del fiore come sua verità. […] la loro [di queste tre forme, ndr] natura fluida le rende momenti dell'unità organica, in cui non solo non entrano in contrasto, ma sono necessarie l'una quanto l'altra; e soltanto questa pari necessità costituisce la vita del Tutto".
È significativo notare come il riferimento - in un autore che pure si colloca esplicitamente nel solco di Aristotele - non sia rivolto alla sfera naturale ma, in chiave meta-critica, al processo di emergenza della verità (filosofica).
In questi primi vagiti si annuncia quella che forse è la proposta più estrema - e in qualche misura irricevibile - avanzata da Hegel, tutto fuorché immediata (a dispetto della formulazione) o relativista: siamo già, tutti e sempre, nella verità.
Riflettendo sul passo citato, Carlo Sini sottolinea come siano innanzitutto due le conseguenze da vagliare: la verità è (contro Kant) in movimento e "il vero è l'intero", con il secondo che è più della mera somma di quelle parti che pure lo costituiscono.
³ In Identità e differenza, Martin Heidegger interpreta il vedere di Hegel come un rappresentare: il procedimento del superamento hegeliano (Aufhebung: superare-conservando, nell'ottica dell'intero) è "innalzante-raccogliente", esprime obliquamente un rapporto di potere, di dominio.
Il nodo è il rapporto con il passato, ovviamente in senso non solo storico-storiografico: se Friedrich Schleiermacher persegue ad esempio - come osserva Hans-Georg Gadamer - una chimerica ricostruzione integrale del passato, Hegel comprende la collocazione storica del soggetto e imposta il guardare-indietro nei termini della mediazione (nozione in merito alla quale vale anche la pena rimarcare il superamento della necessità causale di Aristotele a favore di una visione triadica, che va al di là della lettura cronologica dello schema tesi-antitesi-sintesi).
Impostata la mediazione rappresentante, si otterrebbe - secondo l'Heidegger di Ontologia. Ermeneutica della effettività - lo "splendore della immediatezza della prossimità alla vita": in altra parole, la vita approderebbe compiutamente (ma per quanto tempo?) alla "sua autentica libertà".
Naturalmente Heidegger non adotta un simile approccio.
⁴ Il sopra del mondo delle idee platonico o del Dio cristiano (specie quello legato alle concezioni neoplatoniche di derivazione aristotelica) oppure il sotto di una struttura che innerverebbe/costituirebbe l'immanenza.
⁵ Ricordando il periodo di produzione di Taxi Driver, Martin Scorsese (in Caravaggio. Vita sacra e profana di Andrew Graham-Dixon) ha riconosciuto come per lui e Schrader sia Hopper sia Caravaggio abbiano rappresentato delle inesauribili fonti di ispirazione.
Per arrivare al cuore di ciò che interessa ora, conviene tenere insieme (esteticamente: forma e contenuto dissolti e ricondotti a unità) il chiaroscuro drammatico-drammaturgico - pre-cinematografico a detta di Scorsese - e la temporalità, la collocazione anche narrativa, delle scene dipinte: la Vocazione di San Matteo è esemplare tanto considerando i possibili legami con il milieu protestante quanto notando (in maniera solo parzialmente pretestuosa) come una riproduzione del quadro sia stata impiegata come immagine di copertina per il volume Il tempo che viene. Martin Heidegger dal kairos all'Ereignis di Sandro Gorgone.
In rapporto alla luce e al suo valore anche figurato, è inoltre possibile richiamare lo spinoso concetto heideggeriano di Lichtung, peraltro associato al chiaroscuro.
⁶ Il tempo cairologico differisce fondamentalmente dal tempo cronologico: chronos indica il tempo misurabile, quantitativo, non-umano, grazie a cui è possibile calcolare (scientificamente) senza possibilità di disaccordo, il tempo che domina la concezione occidentale moderna; kairos si riferisce invece al momento opportuno, un che di qualitativo intrinsecamente relazionato all'umano.
A proposito della parusia, nel Vangelo secondo Matteo Gesù dice: "siate pronti, perché il Figlio dell'uomo verrà nell'ora che non pensate".
⁷ San Paolo scrive agli Efesini: "siete stati salvati per grazia, mediante la fede, e ciò non viene da voi, è il dono di Dio, non per opere, perché nessuno si glori".
La gratuità del dono divino rimanda a quelle correnti del protestantesimo che insistono sul tema della predestinazione, caro al calvinismo e al giansenismo: più che le sottigliezze teologico-soteriologiche, ciò che conta sono però gli effetti concreti di simili credenze.
Il primo Heidegger si sofferma sulla lettura paolina del kairos: le comunità cristiane delle origini attendono infatti la parusia non in modo passivo, come un evento da posizionare in una linea cronologica come l'eschaton tradizionale, la fine (del tempo).
La seconda venuta già si sta compiendo nella vita dei credenti in quanto fenomeno esistenziale: la pienezza risultante, non statica, non ha nulla della chiusura del percorso dialettico hegeliano; quel compimento fa il paio con un modo di vivere, il che ovviamente non equivale né a lodare uno specifico conformismo né a riunire aprioristicamente le sorti di una comunità.
Secondo questa prospettiva la seconda venuta non può essere un eschaton simultaneo (intrinsecamente cronologico) per tutti.
Da ciò può tuttavia derivare un cattivo individualismo che Heidegger evita, ma non coglie - almeno in potenza - nella proposta paolina: come scrive Sandro Gorgone, Paolo dà il via a una "spiritualizzazione della promessa messianica, ovvero a una interiorizzazione del Regno […] una crisi di coscienza" che apre contestualmente la strada al solipsismo soggettivistico (e teoreticistico) cartesiano.
Nel complesso, il discorso riguarda la sfera religiosa solo finché si considera la fede o non si oltrepassa la superficie: Heidegger trova nella fede una specifica via di accesso a un fenomeno, la "effettività [o fatticità, ndr] della vita", che invero riguarda primariamente la radice (esistenziale) della filosofia; in questo modo - anche superando la dimensione della fede - conduce a una caratterizzazione del fenomeno-vita tanto pregnante da legittimare accostamenti rispetto al pensiero pragmatista.
⁸ Ne La ripetizione, Søren Kierkegaard distingue il ricordo dalla ripresa (o ripetizione: Gjentagelsen): "ciò che si ricorda è stato, ossia si riprende retrocedendo, mentre la vera ripresa è un ricordare procedendo", il che non coincide affatto con il superare-conservando hegeliano.
In Introduzione alla ricerca fenomenologica, Heidegger intende la filosofia innanzitutto come ripetizione della vita.
Visti i presupposti filosofici di Bresson e Schrader e la rilevanza del tema della scrittura (autobiografica), questi spunti possono rivelarsi assai proficui.
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