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Il 12 dicembre del 1903 nasceva a Tokyo Yasujirō Ozu, tra i registi più amati e influenti della Storia del Cinema.
Nella stessa data e città si sarebbe spento sessant’anni dopo: per chi volesse intraprendere un viaggio a Tokyo, a 50 chilometri dalla capitale del Giappone, nel tempio buddista di Engaku-ji, può trovare il luogo di sepoltura di uno dei più grandi artisti del Novecento.
La tomba di Ozu non ha nome, ma è facilmente riconoscibile: la gente porta ancora in tributo al regista bottiglie di sakè e sulla lapide vi è solo l'ideogramma giapponese mu, in italiano “nulla”, un tanto breve quanto ispirato epitaffio che ben riassume tutta la semplicità e modestia di un regista geniale che amava paragonarsi a un semplice "venditore di tofu".
[Yasujirō Ozu torna al cinema!]
A sessant’anni dalla morte di Ozu anche Tucker Film, legata a doppio filo al Cinema asiatico essendo la casa di distribuzione del Far East Film Festival di Udine, decide di recare omaggio al Maestro, non con del sakè ma con ben undici titoli restaurati scelti tra i film che Yasujirō Ozu ha realizzato dal secondo dopoguerra, dal 1948 al 1962, che potrete trovare in sala nel mese di dicembre: Gallina nel vento, Tarda primavera, Inizio d’estate, Il sapore del riso al tè verde, Viaggio a Tokyo, Crepuscolo di Tokyo, Fiori di equinozio, Buon giorno, Tardo autunno, Inizio di primavera e Il gusto del sakè.
Se diamo per buone (e lo facciamo) le parole del grande critico statunitense Roger Ebert, “Amare i film senza amare Yasujirō Ozu è impossibile", allora l’invito è quello di gustarsi in sala alcune tra le opere più importanti del Cinema mondiale.
Perché se Yasujirō Ozu ha fatto dell’essenzialità e della semplicità la propria missione artistica, la sua produzione è all’insegna della ricchezza non solo quantitativa (più di cinquanta film realizzati dal 1927 al 1962) ma anche relativa alla varietà di innovazioni che caratterizzano il suo stile e all’influenza esercitata su tutto il Cinema a venire.
Ozu stesso sarebbe stato piacevolmente sorpreso nello scoprire quanto il suo Cinema sia stato amato dalle generazioni successive, proprio lui che rappresentava, nel Giappone degli anni '20, il prototipo del cinefilo: avido consumatore di film fin da ragazzo, spesso viaggiava per chilometri nel fine settimana per raggiungere la sala dalla campagna.
Uno dei film che gli lasciarono una grande impressione fu Civilization di Thomas Ince, magniloquente saga cristiana così lontana da quello che sarebbe diventato lo stile distintivo di Yasujirō Ozu, ma che quel giorno lo ispirò a diventare regista. Nel 1923 fece il suo approdo come apprendista alla Shochiku, casa di produzione che, abitudinario com’era, non abbandonò mai se non in tre rare occasioni; il suo mentore fu Torajiro Saito, noto in Giappone come il “Dio della Commedia”, genere che tendenzialmente non verrebbe da associare al rigore stilistico di Ozu ma che invece caratterizzò in buona parte i primi anni della sua carriera.
Yasujirō Ozu amava Charlie Chaplin, Ernst Lubitsch e Harold Lloyd, ma il suo esordio nel 1927 fu con un tradizionale jidaigeki, il dramma in costume tipico del Cinema giapponese: Zange no yaiba, traducibile come “La spada della penitenza”.
Come molti di quelli realizzati da Ozu nel suo periodo muto il film purtroppo è andato perduto, ma rimane importante perché segna la prima collaborazione con il co-sceneggiatore Kogo Noda, con cui Ozu lavorerà per tutto il proseguimento della sua opera.
In questa prima fase della sua carriera Yasujirō Ozu realizzò anche diversi shomin-geki, genere dedicato alle storie di gente comune, ma il suo più grande successo arrivò proprio con una commedia: Sono nato, ma… del 1932, che racconta di due fratelli che decidono di indire uno sciopero della fame quando scoprono che il padre si rende ridicolo per compiacere il proprio capo.
Il film di Ozu venne lodato per il suo commentario sociale, ma già emergevano molti temi e cifre stilistiche che avrebbero caratterizzato il suo Cinema successivo: il rapporto genitori-figli, le contraddizioni della società giapponese e la rinuncia al cambiamento con l’accettazione zen dello stato delle cose, un elemento che differenzia narrativamente le opere di Yasujirō Ozu dagli amati film hollywoodiani, sempre tesi a un cambiamento, a una risoluzione, nonché la posizione inusuale della macchina da presa posta molto in basso, quasi ad altezza delle ginocchia.
[La commedia Sono nato, ma... (1932) rappresenta il primo film di successo di Yasujirō Ozu e il film con cui inaugura alcuni tratti distintivi del suo stile: in questo caso, la ripresa dal basso con la mdp posizionata quasi a fil di pavimento (o tatami)]
Come il suo idolo Charlie Chaplin, Yasujirō Ozu approdò al sonoro solo nel 1936 con il dramma Figlio unico, cinque anni dopo che la tecnologia fu usata per la prima volta in Giappone; questo periodo coincise con la coscrizione di Ozu nella seconda guerra sino-giapponese prima e nella Seconda Guerra Mondiale poi.
Tornato in Giappone Ozu continuò l’opera di radicale semplificazione del suo stile, abbandonando progressivamente dal suo linguaggio transizioni, dissolvenze e movimenti di macchina.
Uno dei primi esempi della maturità di Yasujirō Ozu è Gallina nel vento (1948), dramma familiare ambientato nel dopoguerra che racconta delle difficili condizioni del Giappone piegato dalla sconfitta.
È dell’anno successivo uno dei suoi più grandi capolavori, Tarda primavera (1949), che inaugura una serie di collaborazioni con la star Setsuko Hara, destinata a diventare la musa del regista che, pur di lavorare con l’attrice, “tradì” la Shochiku nel 1961, realizzando il film L'autunno della famiglia Kohayagawa con la Toho.
Tarda primavera inaugura una serie di film dedicata al tema del matrimonio e del rapporto tra i padri e i figli, in cui Setsuko Hara interpreta sempre un personaggio di nome Noriko: oltre a Tarda primavera anche Inizio d’estate (1951), che vede sempre una donna decidere per il matrimonio contro il volere della famiglia, e soprattutto Viaggio a Tokyo (1953), storia di una coppia di anziani che fanno visita ai figli in città solo per essere messi da parte e trattati come se fossero una seccatura.
Proprio Viaggio a Tokyo rappresenta l’apice e la maturità dell’opera di Yasujirō Ozu, ed è oggi considerato all’unanimità tra i film più importanti e influenti di tutti i tempi.
[Setsuko Hara e Chishu Ryu, gli attori più amati da Yasujirō Ozu, in una scena di Viaggio a Tokyo]
L’approdo di Ozu al colore coincide con un breve ritorno ai toni della commedia, prima con Fiori d’equinozio (1958) e poi con Buon giorno (1959), con quest’ultimo che serve anche come rivisitazione a più di vent’anni di distanza dei temi di Sono nato, ma….
La tendenza di Yasujirō Ozu a rivisitare le proprie opere continuò con Erbe fluttuanti (1959), rifacimento del film muto Storia di erbe fluttuanti del 1934, e con Tardo autunno (1960), che ripropone al femminile la storia di Tarda primavera.
Nel 1962, con Il gusto del sakè, Ozu era all’apice della propria parabola artistica; ma purtroppo un cancro alla gola stroncò il regista a soli sessant’anni, proprio nel giorno del suo compleanno.
[In questa scena tratta da Il gusto del sakè (1962), ultimo film di Yasujirō Ozu, ammiriamo tutta l'abilità del regista nella composizione dell'inquadratura, in cui sono presenti diversi altri quadri composti da insegne, porte e finestre: questo tipo di inquadratura serviva a Ozu per significare l'impossibilità per l'individuo di uscire dalle reti familiari e sociali]
La filmografia di Ozu è molto ricca ma caratterizzata da un percorso artistico ben preciso, che trova la propria espressione in alcune tematiche ricorrenti: la famiglia e, soprattutto, i rapporti tra moglie e marito e tra padri e figli; lo scontro tra tradizione e modernità in un Giappone in costante cambiamento; la quotidianità e l’essenziale immutabilità delle piccole cose, in contrasto con i mutamenti sociali e personali.
Yasujirō Ozu ha voluto rappresentare il cambiamento e il collasso della struttura sociale giapponese attraverso la rappresentazione di generazioni in conflitto, mostrando nella crescita dei figli e nel distanziamento dai genitori un cinico distacco dai valori tradizionali.
Ozu ha vissuto per tutta la vita con la madre, non si è mai laureato né sposato, non ha mai avuto figli e si teneva lontano dalla città per quanto potesse; eppure ha saputo raccontare come nessun altro i rapporti famigliari, le relazioni di coppia e la vita di impiegati e studenti.
Proprio questa assenza di biografismo nella sua opera si traduce in un’osservazione contemplativa della vita quotidiana, ben espressa dalla scelta di riprendere le proprie scene dal basso, ad altezza di tatami, in modo da avere al contempo i personaggi al centro, ma anche lo sfondo, le abitazioni, i bar, i luoghi di lavoro, catturati con l’uso di obiettivi da 50mm, i più vicini a rendere con fedeltà lo sguardo umano.
[Esempio di tatami shot tratto dal film Buon giorno (1959), in cui possiamo osservare come Yasujirō Ozu e il direttore della fotografia Yuharu Atsuta posizionino la macchina da presa all'altezza del pavimento, dando eguale importanza alla figura umana e all'ambiente in cui si trova]
Lo stile di Yasujirō Ozu è caratterizzato da una progressiva riduzione degli orpelli, una ricerca di essenzialità nel linguaggio cinematografico come nelle storie da lui raccontate, così diverse dal Cinema classico, tanto che il filosofo Gilles Deleuze, nel suo influente studio sul Cinema (L’immagine-movimento e L’immagine-tempo, pubblicati da Einaudi), riconosce nel regista giapponese i germi del passaggio a quel Cinema moderno che si affermerà dalla seconda metà degli anni '50 e che toccherà il proprio apice nella Nouvelle Vague francese.
Nell’opera di Ozu non troviamo però una decostruzione postmodernista del linguaggio, bensì una “quieta rivoluzione” che si esprime nella rottura di regole di buona condotta dello stile classico, come appunto il posizionamento della mdp ad altezza pavimento, per riprendere i soffitti degli interni creando una situazione di pari intimità e claustrofobia, e i frequenti scavalcamenti di campo, ben espressi dalla sua tendenza di riprendere i dialoghi non secondo il classico schema del campo-controcampo, ma facendo parlare i personaggi direttamente in camera, a stimolare la partecipazione emotiva dello spettatore.
La quieta rivoluzione di Yasujirō Ozu ben si esprime anche nell’uso del montaggio, che il regista non relega a collante di spezzoni narrativi ma che eleva a strumento di contemplazione, attraverso frequenti ellissi e stacchi che rompono la dinamica narrativa del film per concentrarsi su ambienti familiari e oggetti di uso quotidiano.
Il critico Noël Burch ha definito questi stacchi "pillow shots", paragonandoli alle “parole cuscino” della poesia classica giapponese: la loro funzione letteraria è la stessa che Yasujirō Ozu traduce in linguaggio cinematografico, ossia l’arricchimento del testo di un elemento simbolico, metaforico.
[Esempio di pillow shot tratto dal film C'era un padre (1942): Yasujirō Ozu era solito staccare dalla narrazione per inquadrare oggetti e ambienti quotidiani, caricandoli così simbolicamente di un'aura di persistenza e imperturbabilità in relazione ai drammi umani]
Nei “pillow shot” di Ozu vi è una portata fenomenologica e ontologica che parte dagli oggetti per svelare la profondità dell’Essere, secondo il concetto buddista del “mono no aware”, ossia l’accettazione del mondo e della vita così come sono, nella loro noia e frequente tristezza.
Spesso i film di Yasujirō Ozu finiscono nel modo in cui iniziano senza particolari cambiamenti di stato; gli iniziali moti di ribellione, utili a mettere in moto la macchina narrativa, si trasformano in una serena accettazione dello stato delle cose.
Basta leggere i titoli dei film di Ozu, spesso delle variazioni sul tema di stagioni e momenti della giornata, per farsi un’idea della filosofia che è alla base della sua opera: i suoi film, spesso accusati di essere “tutti uguali”, sono semplici racconti di vita quotidiana, senza particolari svolte drammatiche o colpi di scena, ma proprio per questo in grado di parlare un linguaggio universale.
Come affermò lo stesso regista: “Anche se agli altri possono sembrare uguali, per me ogni film che produco è una nuova espressione e faccio sempre ogni lavoro partendo da un nuovo interesse.
È come un pittore che dipinge sempre la stessa rosa.”
Il ritmo dei film di Ozu è lento perché lo è la vita osservata dall’esterno, ripetitiva e abitudinaria; come un po’ lo era Yasujirō Ozu stesso, a cominciare dalla scelta di legarsi a collaboratori abituali per lunghi periodi della carriera.
Ho già parlato di Kogo Noda e Setsuko Hara, vero cuore di tanti film di Ozu, ma devo almeno citare il direttore della fotografia Yuharu Atsuta, che ha contribuito a forgiare il distintivo stile di Yasujirō Ozu e a creare le sue iconiche inquadrature ad altezza di tatami e, soprattutto, Chishu Ryu, che ha recitato in 52 film del Maestro interpretando qualsiasi tipo di ruolo ma sempre fungendo da incarnazione della filosofia del regista: il suo sorriso malinconico rivolto alla macchina da presa è tra le immagini ricorrenti e più memorabili dell’opera di Ozu.
Chishu Ryu e Yasujirō Ozu erano anche molto amici nella vita fuori dal set e condividevano la passione per il baseball, il sakè e le sigarette.
[Chishu Ryu è un padre amorevole in Tarda primavera (1949): l'attore giapponese ha realizzato 52 film per il regista che ha lanciato la sua carriera, divenendo un'autentica icona del Cinema di Yasujirō Ozu]
Purtroppo Yasujirō Ozu ha raccolto solo parzialmente in vita gli elogi e i riconoscimenti che gli saranno attribuiti postumi, paradossalmente perché nello stesso Giappone veniva considerato “tradizionale” e incapace di tenere il passo con la modernizzazione della società e del Cinema stesso.
La sua influenza sul Cinema contemporaneo è oggi innegabile e servirebbe un libro intero solo per coprire tutti gli omaggi compiuti al regista dai suoi successori.
Lo statunitense Paul Schrader, ad esempio, riconosce Ozu tra le sue più grandi fonti di ispirazione, e il regista giapponese è uno dei tre Maestri del Cinema che Schrader riconosce come le massime espressioni dello stile trascendente nel Cinema, insieme a Carl Dreyer e Robert Bresson.
Wim Wenders nel 1985 si recò in Giappone per intervistare collaboratori di Yasujirō Ozu e visitare i suoi luoghi, alla ricerca di quella magia della quotidianità che solo il regista giapponese ha saputo catturare, realizzando il bel documentario Tokyo-Ga.
Nel 2003, in occasione del centanario della nascita, sia il regista iraniano Abbas Kiarostami sia il taiwanese Hou Hsiao-hsien rendono omaggio a Yasujirō Ozu con, rispettivamente, il documentario Five Dedicated to Ozu e il film Café Lumière.
Jim Jarmusch ha afferma di essersi ispirato a Yasujirō Ozu per il suo film di debutto Stranger Than Paradise - Più strano del Paradiso, mentre il suo amico e collega finlandese Aki Kaurismäki ha scherzosamente “incolpato” il regista per aver rovinato la sua carriera (e quella dei colleghi) ponendo l’asticella un po’ troppo in alto: “Signor Ozu, sono Aki Kaurismäki dalla Finlandia, ho fatto undici film pessimi, ed è tutta colpa tua".
Anche in patria Yasujirō Ozu è stato oggetto di riscoperta critica e ha influenzato con il suo stile tanti autori successivi, a partire da Takeshi Kitano che include una sua variante dei “pillow shot” a colmare di poesia storie di violenza, per arrivare a Hirokazu Kore'eda, che condivide con Ozu l’amore per le storie di vita quotidiana e il racconto dei rapporti familiari nel Giappone contemporaneo.
Ma il Cinema di Ozu ha ispirato anche i Maestri dell’animazione Hayao Miyazaki e Isao Takahata, che spesso ricorrono a ellissi e stacchi di montaggio sulla natura e sugli ambienti casalinghi, nello stile poetico del Maestro giapponese.
[Un video che illustra l'influenza del Cinema di Yasujirō Ozu sullo stile di animazione dello Studio Ghibli]
A sessant’anni dalla morte l’influenza di Yasujirō Ozu sul Cinema mondiale è ancora intatta, grazie a un’impareggiabile semplicità di linguaggio e a all’universalità delle storie raccontate.
Una persona che ha votato la propria carriera alla ricerca dell’essenzialità e che riposa sotto il simbolo del Nulla: è incredibile come il Cinema di Ozu abbia saputo parlare del “tutto” nascosto nelle complesse reti di relazioni della vita quotidiana, a confermare il sospetto che forse sono i momenti di silenzio, nel film come in sala, quelli più ricchi di un significato che nemmeno in una vita intera può essere espresso a parole.
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