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The Big One: dopo l'ispirata versione di Patric Chiha presentata a Berlino, Bertrand Bonello fa esplodere definitivamente, adattandolo in maniera estremamente libera, La bestia nella giungla di Henry James e si accomoda sempre più nel pantheon dei migliori autori contemporanei.
Il racconto inglese del 1903 perlustrava nodi antropologici di primissimo piano riflettendo sull'esperienza umana del tempo (e del senso) e sul ruolo delle passioni; La bête se ne fa carico lavorando sui due generi cinematografici - perché il discorso non può che essere tale - che più li hanno strutturati linguisticamente: la fantascienza e il melodramma.
[Una clip da The Beast]
Ecco la sinossi ufficiale:
"In un futuro prossimo in cui regna suprema l'intelligenza artificiale, le emozioni umane sono ormai considerate una minaccia.
Per liberarsene, Gabrielle deve purificare il suo DNA: si immerge quindi in vite precedenti, dove rincontra Louis, suo grande amore.
Ma la donna è vinta dalla paura, un presagio che la catastrofe è vicina".
Tanto il riferimento alla figura della catastrofe quanto quello al pathos rimandano al precedente Coma, da cui però Bonello si distacca - fatta eccezione per sovrapposizioni significative che considereremo in seguito - in relazione alla messa a punto della discorsività estetica.
Dell'indagine bonelliana sulle passioni, il desiderio e il sogno ho scritto approfonditamente nella recensione di Coma, rivolgendomi soprattutto alle radici concettuali del suo pensiero cinematografico: è questa la chiave di interpretazione primaria, arricchita da una biforcazione inconsueta che rende il film più tondo.
All'ibridazione di piano metacinematografico, piano sociopolitico e piano squisitamente filosofico, che trova un coagulo in un'impostazione estetica unitaria di rara profondità, si affianca infatti la specifica trattazione del "più straziante dei sentimenti, la paura dell'amore", già al centro di alcune letture critiche di James e ora fatto collidere con (le possibilità di ricezione di) un melodramma che trova in un'eccezionale Léa Seydoux la propria pietra angolare, al punto da spingere Bonello a definire l'opera come una sorta di "documentario su un'attrice".
Questo canale emotivo diretto è ciò che guida il percorso narrativo: saltando dal 1910 al 2014 al 2044, osserviamo le traiettorie sincopate di Gabrielle e Louis; ciononostante, è l'autoriflessività che informa ogni scelta a far brillare The Beast di luce propria.
In primo luogo, ogni coordinata temporale è contraddistinta da un approccio estetico - forma e contenuto - rilevante al di là del profilmico: il 1910 vive in sinuosi long take e in una scansione piuttosto classica del tempo e dello spazio, mentre il 2014 e il 2044 aprono a inquadrature segnate da scarti talvolta impercettibili, punti di intensità che potrebbero sembrare dei vuoti di senso ma che invero si caricano sulle spalle il compito più decisivo.
Parecchie crepe solcano le immagini di The Beast: non si tratta di esporre una nuova Weltanschauung, una macro-cosmologia; Bonello semmai opera sul micro, nell'immagine, per rendere visibili le forze che si celano dietro ogni possibilità di convenzionalità linguistica, richiamando alla mente il David Lynch della terza stagione di Twin Peaks.
[Un frame da The Beast]
In questo senso va letta la nuova messa in questione, dopo Coma, delle forme audiovisive odierne e della loro ubiquità: il segmento collocato nel 2014 convoca il linguaggio di YouTube, la videosorveglianza e la videotelefonia, con un'interpretazione dello spazio (mentale) che, associato alla descrizione del narcisismo come male contemporaneo, rinfocola l'ossessività urobora di Strade perdute.
Ciò che avvicina di più Bonello a Lynch, senza che ciò equivalga a negarne la straordinaria singolarità, è quell'equidistanza "tanto dalla pratica modernista del disvelamento della messa in scena quanto da quella postmoderna della citazione testuale ininterrotta" che Alberto Libera attribuisce opportunamente a Mulholland Drive.
Con anche una ripresa del sottotesto fantasmatico esplicitata da una dissolvenza inequivocabile, La bête parte da De la guerre e riafferma non la sovrapposizione ma l'identità di realtà fenomenica, immaginario e sogno, con un inconscio che assume sempre più i tratti definiti da Gilles Deleuze (citato in Coma): nonostante l'indubbio primato di Gabrielle, anche attrice, questo è intersoggettivo, non individuale, non collettivo.
Anarchico, senza (più) marito.
Onnipresente, indifferente alle barriere linguistiche e culturali: non è casuale il frequente rimando a Madama Butterfly.
Il Cinema non può che irrompere, frantumarsi e incepparsi; frantumando il tempo e lo spazio, inceppando il tempo e lo spazio.
Gioco di specchi senza originali all'orizzonte, traccia di una traccia che, come per il filosofo Jacques Derrida, altro non è se non "un passato che non è mai stato presente" (i traumi da rimuovere nel 2044), si accartoccia e si espande a un tempo in quel green screen che riporta il mondo fenomenico/immaginario/onirico alla sua unitarietà contraddittoria, che contempla necessariamente il conflitto.
La triplice valenza del terremoto è esplicativa: prima The Big One - il catastrofico sisma che dovrebbe colpire la California - squassa solo la bidimensionalità dell'inquadratura, lo spazio pittorico teorizzato da Éric Rohmer, come riaggiornando il disfarsi della pellicola in Persona; poi agisce realisticamente sul profilmico; infine, è associato all'orgasmo nelle parole di una truccatrice.
A tal proposito è bene fare una precisazione: secondo chi scrive, per comprendere pienamente The Beast (e Bonello in generale) conviene non confinare quell'identità di fenomenico, immaginario e sogno nel campo delle mere speculazioni; prendere sul serio una posizione teoretica simile, senza sfociare in un antirealismo ingenuo e dannoso, allontana infatti l'opera da ogni accusa di intellettualismo sterile.
[Un frame da The Beast]
Portare avanti queste istanze nella cornice di genere conduce Bonello all'apice quantomeno della propria carriera: il dramma infinito che scorre in Madama Butterfly agguanta Arnold Schönberg, citato nel film: per la pianista Gabrielle la sfida è trovare l'emozione nelle sue partiture, per Louis l'assenza di emozione restituisce una dimensione primitiva alla fruizione artistica.
Il miracolo del cineasta francese sta allora nell'identificare, non sovrapporre, il rigore teorico con l'immediatezza emotivo-sensoriale.
Si badi bene: questa breve recensione festivaliera si è limitata a lavorare su questa fondamentale premessa.
"Ma voglio che i tuoi occhi rimangano chiari / Come quando ti ho vista quel giorno / Che ci siamo incontrati per caso".
CineFacts segue tantissimi festival, dal più piccolo al più grande, dal più istituzionale al più strano, per parlarvi sempre di nuovi film da scoprire, perché amiamo il Cinema in ogni sua forma: non potevamo dunque mancare l'appuntamento con la Mostra di Venezia!