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Si apre con delle immagini d’archivio Ferrari di Michael Mann, il ritorno al lungometraggio per il regista di Heat - La sfida a distanza di otto anni dallo sfortunato Blackhat.
Immagini d’archivio che riflettono fin da subito uno dei principali tòpoi della poetica di Mann: lo sguardo - in questo caso di Enzo Ferrari - come conoscenza di sé e del mondo.
[Il teaser trailer di Ferrari]
Non è un caso che la narrazione vera e propria inizi quando Michael Mann decide di soffermarsi sugli occhi del giovane Enzo intento a gareggiare in una corsa automobilistica per poi, tramite un'ellisse temporale, arrivare a uno degli anni più difficili della Storia dell’imprenditore italiano: il 1957.
Lo stesso regista d’altronde nel 1997 dichiarò in un’intervista: “Le biografie mi annoiano.
Bisognerebbe trovare un anno nella vita e dire tutto di quell’anno”.
Scegliendo il 1957 Mann decide apertamente di voler tratteggiare il profilo privato e pubblico di un uomo irrimediabilmente complicato, spesso sfuggente a precise categorizzazioni.
La storia però non è adatta a essere il materiale per cercare il vero come appartenenza reale ai fatti, ma per esprimere il riflesso dello sguardo di chi l’ha vissuta: Enzo Ferrari, Laura Ferrari (moglie), Lina Lardi (amante) e Alfonso de Portago (pilota che morì durante la corsa delle Mille Miglia); vedere quindi come gesto soggettivo mediante il quale l'identità pubblica e privata prende forma e viene modulata.
Ogni azione compiuta in Ferrari è in funzione di ciò, perché vedere significa aprire gli occhi e comprendere il mondo.
Il personaggio di Enzo Ferrari, interpretato da un camaleontico Adam Driver, porta quasi sempre gli occhiali durante il film.
Nel momento decisivo dell’inizio della corsa delle Mille Miglia del 1957, in un ralenti tipicamente manniano, Ferrari si toglie gli occhiali capendo in quell’esatto istante la sua dimensione all’interno della Storia: vedere per comprendere il proprio ruolo pubblico e privato.
Il film di Michael Mann nel suo essere classico come impostazione drammaturgica, soprattutto per quanto riguarda i conflitti tra Enzo Ferrari e la moglie Laura, decide coraggiosamente di abbandonare il dinamismo digitale dei suoi ultimi film per abbracciare un rigore formale nei dialoghi per nulla scontato.
[Adam Driver in Ferrari]
La modernità passa attraverso l'evoluzione tecnologica delle automobili, ma si scontra con le stesse scelte registiche messe in scena da Mann.
La forma è spesso riflessiva, con bruschi momenti di accelerazione derivati dalle stesse macchine. Il crepuscolarismo con cui il film si evolve, che a tratti sfiora la via del kammerspiel popolato da fantasmi, fa piombare i sentimenti dei personaggi in un reale senza speranza, dopo un inizio che sembrava invece appartenere a un drama duro e puro.
Le dimensioni pubblica e privata, così facendo, diventano la cartina tornasole essenziale per l’evoluzione narrativa dei personaggi.
Se per Enzo Ferrari il privato è sempre una questione pubblica - la scena dove “vende” la sua vita domestica a un giornalista è rivelatoria - per la moglie e per l’amante è una questione identitaria.
Per questo lo scontro tra Laura e Lina riguarda il cognome del figlio non riconosciuto, perché l’essere o meno “Ferrari” è fondamentale sul come si verrà guardati dalla Storia.
Il conflitto nel film di Mann, che è un’opera personalistica, non è tra due opposti - come visto in Heat, Collateral, Manhunter - ma nell’aderenza tra i soggetti e il mondo che li circonda.
Il rosso in Ferrari di conseguenza non è un semplice colore, ma un carattere assorbente. L'immagine ingloba tutto ciò che è al suo interno rendendo il colore l'affetto, la congiunzione che accomuna tutti gli elementi del film. È rossa la Ferrari, simbolo dell'ambizione di Enzo, della sua potenza e fragilità. È rosso il sangue dei piloti che muoiono per sconfiggere il tempo che passa e trapassa la Storia. È rosso il vino che bagna le discussioni tra Laura e Enzo, dove il privato e il pubblico diventano la matrice di tutti gli scontri. Sono rosse le pareti delle case, specchi di una quotidianità familiare o passionale che Ferrari continua a cercare senza mai trovarla veramente. Un colore che non diventa mai pulsione, che non si contorce in un naturalismo da tanti reclamato in Ferrari.
Michael Mann se ne è sempre fregato di tutto ciò, cercando invece la percezione della visione di mondo dei suoi protagonisti, spesso sentimentali e quasi sempre fragili: "C'è tempo".
Ferrari è quindi un film antropocentrico, fatto di uomini e di donne e non di macchine.
Per questo il chiudere gli occhi significa scegliere di rinunciare alla vita (“Ogni volta che chiudo gli occhi lo vedo” in riferimento a Dino, il figlio morto), perché l’umanesimo che dà sfogo ai conflitti del film deriva proprio dalla visione di sé negli altri.
Altrimenti, come spesso accade nei lungometraggi di Michael Mann, i soggetti diventerebbero dei fantasmi, dove gli uomini decidono cosciensionamente di seguire il proprio ruolo a costo di rinunciare alla realtà.
La corsa della Mille Miglia finale è il conflitto per far emergere la propria idea di mondo: da una parte l’ambizione imprenditoriale, dall’altra l’espiazione di un privato attanagliato dai sensi di colpa.
Ferrari si colloca nella filmografia di Michael Mann come un’opera spiazzante nella sua ambigua classicità hollywoodiana, che guarda come mai prima d’ora a un futuro figlio dell’uomo: il finale in questo caso è rivelatorio.
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