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Quale enorme zavorra emozionale può essere un padre per un figlio, e un figlio per un padre? Che relazione esiste tra Natura e Uomo, e come è stata trasfigurata dallo sviluppo economico e sociale?
Cosa abbiamo perso insieme alla capacità di indicare le cose con il dito, nel dissennato tentativo di dominarle, possederle attraverso la concettualizzazione?
“Siete voi di città che la chiamate Natura.
È così astratta nella vostra testa che è astratto pure il nome. Noi qui diciamo bosco, pascolo, torrente, roccia, cose che uno può indicare con il dito. Cose che si possono usare.
Se non si possono usare, un nome non glielo diamo, perché non serve a niente.”
Sono in imbarazzo a iniziare queste righe con questi interrogativi.
La ragione - l’ho capita dopo un po’ - è che anche io sono di città.
Quest’elevazione della città a categoria esistenziale costituisce gran parte delle ragioni per cui Le otto montagne ha risuonato in me così tanto e così a fondo.
Forse troppo.
Troppo perché l’affresco narrativo e immaginifico che la regia sviluppa, quasi in punta di piedi, sottovoce o del tutto in silenzio, sembra lungi dall’intento di fornire una risposta ad alcuno dei quesiti di cui sopra.
Così lontano, appunto, dal farmi dubitare che in essi possa celarsi alcunché del significato del film - qualsiasi cosa esso sia, s’intende.
“Non devi pensare troppo in là in questo lavoro” - dice Bruno, riferendosi all’attività di muratore, mentre insieme al protagonista Pietro è intento a costruire una casa in alta quota, proprio sotto una delle cime del Monte Rosa.
Questo - mi pare - è anche un monito indiretto allo spettatore che si appresta a riflettere sul film; in fin dei conti costituisce una risposta soddisfacente ai grandi temi sollevati, quando li si guarda con gli occhi di chi vive di montagna e con la montagna.
[Il trailer de Le otto montagne] Le otto montagne
Adriano Meis ha già scritto eloquentemente di questo film tratto dall’omonimo romanzo di Paolo Cognetti e presentato al Festival di Cannes 2022, dove ha vinto il Premio della Giuria.
Scorrendo ora le sue parole trovo un’affinità di fondo che unisce le nostre visioni: una posatezza antica sembra rallentare la mia penna come la sua, quasi ad ammonire un innato e puerile desiderio di discutere, analizzare, esaminare.
Ho deciso di scriverne comunque per una serie di considerazioni che mi preme fare e che credo possano sottolineare la riuscita delle scelte adoperate dala coppia di regia Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, abili nell’allineare elementi visivi e sonori con le idee di cui il film doviziosamente dispone.
Le otto montagne narra della storia di Pietro (Luca Marinelli) e Bruno (Alessandro Borghi), incontratisi per la prima volta a 11 anni in un villaggio della Valle d’Aosta, nel quale i genitori del primo affittano una casa durante l’estate per fuggire dai fumi e dai trambusti della Torino metropolitana.
Bruno, "l’ultimo bambino del paese", vive con gli zii, piccoli casari di scarso successo che sembrano aver più interesse nel liberarsi del fardello del nipote piuttosto che nel suo futuro; il padre, assente nel film come nella vita del figlio, è un muratore che per lavorare valica i confini nazionali per periodi indeterminati, il cui ritorno non è mai garantito.
Pietro e Bruno esplorano insieme le edeniche vallate alpine, tra le cime ancora innevate e i gelidi laghi intiepiditi dal mite sole d’estate.
La sequenza di stagioni estive passate nella serenità fanciullesca si interrompe quando i genitori di Pietro propongono alla famiglia di Bruno di prendersi cura dell’ormai adolescente ragazzo per portarlo a Torino e farlo studiare al liceo.
Un’adozione di fatto, che scombussola la bilancia emotiva del loro rapporto e ne sancisce involontariamente la fine, per l’intervento del padre di Bruno che si oppone al trasferimento del figlio e lo porta con sé a lavorare.
[Un fotogramma da Le otto montagne] Le otto montagne
Non si ritroveranno fino a molti anni dopo, ancora una volta su quella stessa montagna, quando la notizia della morte del papà di Pietro porta quest’ultimo a ripercorrere i luoghi e le aspirazioni del defunto, per ricercare una comprensione e una connessione mai raggiunta in vita.
Scoprirà che a seguito della rottura definitiva che aveva segnato la sua intera vita adulta, Bruno era tornato a giocare un ruolo nella vita del padre, di fatto sostituendolo nelle vicissitudini familiari della gioventù e accompagnandolo nelle escursioni sulle cime alpine che lui aveva tanto ripudiato.
Le otto montagne è costituito dalla parabola narrativa che copre un’amicizia nata e dispersa dal caso nel corso di vent’anni, nei quali due ragazzi così diversi eppure così uniti vengono risucchiati nei rispettivi destini, da loro non scelti e da entrambi infine rifiutati.
L’intera opera si sviluppa sulla dicotomia che i due giovani rappresentano, decidendo di soffermarsi di più su Pietro, il cittadino, in una sorta di analogia sociale che sottolinea il protagonismo esclusivo del vivere urbano come unico modello possibile di vita.
Sulle differenze e le asimmetrie delle loro esistenze si fonda l’abile espediente espositivo del mostrare senza spiegare, procedendo con misura e passo cauto, senza colpi di scena o capovolgimenti inattesi.
In un certo senso il ritmo e lo stile narrativo de Le otto montagne rispecchiano l’andare moderato ma deciso dell’arrampicata montana, in cui l’avanzata costante e silenziosa si erge quasi a virtù morale.
Come se il parlare (o lo spiegare, appunto) svilisse la genuinità del momento o ne contaminasse l’essenza enigmaticamente autentica, in quella che sembra una liturgia espiatoria del rumore e del fermento da cui le cime di montagna sono lontane, fisicamente e metafisicamente.
[Luca Marinelli ne Le otto montagne] Le otto montagne
La prima più evidente contrapposizione è quella tra la Città e la Montagna.
Sebbene - coerentemente con quanto detto sopra - non vi sia mai una presa di posizione esplicita e ragionata, ne Le otto montagne traspare da subito il punto di vista degli autori e da che parte penda il “giudizio” della regia.
Torino è presentata come un mondo ostile, caotico, contraddistinto da pericoli costanti e da cieli opachi, intorbiditi dai fumi industriali. La caratterizzazione simbolica trova corrispondenza nel linguaggio filmico utilizzato dal direttore della fotografia Ruben Impens, che propende per l’utilizzo di focali lunghe e claustrofobiche, che tagliano le figure e lo spazio circostante, amplificando la sensazione di confusione e precarietà.
Non è un caso che quelle urbane siano le uniche scene de Le otto montagne caratterizzate da un montaggio (sia visivo che sonoro) frenetico, stordente, che riduce le figure umane ad anonime silhouette nella marmaglia cittadina.
Analogamente in esse il rumore domina incontrastato, rendendo difficile la comunicazione e perfino sentire al telefono la voce di un amico diventa un’impresa.
Diametralmente opposta, ma ugualmente potente, è la resa degli ambienti montani che predilige lenti grandangolari, soggettive stabilizzate, campi lunghi e lunghissimi.
Coraggiosa in tal senso è la scelta del formato, un 1.33:1 televisivo a fronte delle ambientazioni grandiosamente panoramiche, che riesce ad enfatizzare nella sua verticalità l'umanità e il patetismo di alcune scene.
Un’interpretazione tradizionale di questa prima antitesi, tra Montagna e Città, ricorre nella biblica ascesa e caduta di Babilonia - l’eterno simbolo di corruzione e superbia umana - che strappa l’Uomo alla sua condizione naturale, rappresentata qui dalla Montagna, dal lavoro di sussistenza e fondata sulle risorse offerte dalla natura e dalle stagioni.
Da questo punto di vista, però, sembra che il generale pessimismo lasci trapelare una speranza, rappresentata dal mondo naturale come oasi di redenzione e riscatto.
[Ne Le otto montagne Alessandro Borghi e Luca Marinelli si ritrovano 7 anni dopo Non essere cattivo]
Le otto montagne
In sottotraccia lungo tutto il film percorre un tema linguistico, intimamente legato a quest’ultima interpretazione.
Come con la costruzione della Torre di Babele vi fu la confusione delle lingue, sancendo l’incomunicabilità tra gli uomini, così ne Le otto montagne assistiamo a quella che appare come un’esasperazione cinematografica di questa idea, dove anche la stessa lingua assume un senso diverso tra gli abitanti della città e quelli della montagna.
L’idea raggiunge il suo acme nel dialogo tra Bruno e gli amici torinesi di Pietro che lo visitano in baita, di cui ho riportato un estratto nell’incipit di questo articolo.
Perché nella stessa lingua, negli stessi fonemi, questi due popoli hanno individuato significati così diversi?
Gli autori suggeriscono una risposta semplice, ma di grande levatura intellettuale e dall'eco wittgensteiniana: un bosco è un bosco, un pascolo è un pascolo, un torrente è un torrente.
Si può indicare ognuno di essi con il dito e corrispondono in maniera disambigua a delle cose, che gli abitanti della montagna conoscono e su cui non s’interrogano ulteriormente. È dunque la problematizzazione di ciò che non si conosce - da parte degli abitanti della città - che porta il linguaggio a recidersi, a perdere unità tra significante e significati, e infine all’empietà della concettualizzazione, contro cui Bruno si scaglia nel frammento riportato.
Paradossalmente questo disallineamento innaturale avviene nei cittadini, ovvero coloro che sono scolarizzati, istruiti, persino dotti: sono loro che cercano di racchiudere goffamente le cose del reale sotto categorie astratte, affinché detengano qualche vaga pretesa di generalità.
[Bruno e Pietro de Le otto montagne] Le otto montagne
Per superare questo handicap Pietro faticherà non poco, e solo viaggiando ed entrando in comunicazione con l’altro riuscirà a “trovare le sue parole”; non è un caso che sia proprio Bruno - che non ha neanche finito le scuole dell’obbligo - a rivolgergli quest’espressione.
La città assume così un’ulteriore innaturale trasfigurazione: il regno della vacua concettualizzazione, della teoria sconnessa col reale, dell’istinto imperialista della ragione sull’esperienza.
La similarità con la contrapposizione nietzschiana tra spirito apollineo e dionisiaco trova qui una nuova efficace rappresentazione.
"La «ragione» è la causa per cui falsifichiamo la testimonianza dei sensi. In quanto mostrano il divenire, il trapassare, il mutamento, i sensi non mentono...
Ma Eraclito avrà eternamente ragione di affermare che l'essere è una vuota finzione.
Il mondo «apparente» è l'unico mondo; il «mondo vero» è solo un'aggiunta menzognera."
[Il crepuscolo degli idoli (1889), F.W. Nietzsche]
Un secondo frangente della dicotomia rappresentata dai due personaggi centrali de Le otto montagne emerge dalla rispettiva situazione familiare.
Pietro è figlio di una famiglia borghese di città: il padre è un ingegnere in una grande fabbrica e la madre lavora in un consultorio.
Le estati passate in Valle d’Aosta sembrano costituire uno dei pochi tentativi di contatto tra padre e figlio, il primo consumato dal lavoro e il secondo incapace di condividere la gioia della fuga alpina, delle escursioni, "la cosa più simile a un'educazione che abbia ricevuto da lui".
Bruno è figlio di generazioni di montanari, emarginati della modernità e disinteressati al mondo a valle.
Abbandonato a sé stesso, non ha nessuna prospettiva per il futuro né nessuno ad interessarsene per lui e accetta in maniera disincantata un destino già segnato.
Emerge in questo senso un pessimismo leopardiano diverso e più profondo da quello storico prima accennato, fondato su una concezione di natura benigna e salvifica che si contrappone alla hybris della città.
Qui osserviamo due ragazzi che sprofondano in una condizione di equivalente infelicità, nonostante provengano da universi così apparentemente distanti e contrari.
Pietro fugge da quelli che percepisce come dogmi e doveri borghesi, perciò si aliena dalla famiglia che tanto ha voluto la sua formazione e realizzazione professionale.
Bruno - nella totale noncuranza dei familiari - prima anela ad un’ineffabile serenità domestica lì dov’è nato e cresciuto, ma poi paga il duro prezzo della modernità, dell’anacronismo della tradizione e vede il suo fragile progetto di vita spazzato via.
Proseguendo nell’analogia leopardiana assistiamo quindi a quella che appare come un’evoluzione di matrice cosmica del pessimismo de Le otto montagne. Ciò che inizialmente sembrava recuperabile tramite un pio ritorno alle origini e alla natura, assume un carattere più definitivo e perentorio.
Bruno - suo malgrado - è rimasto sui binari di vita assegnatigli in tenera età: è rimasto sulla sua montagna, ci si è rintanato e ciò gli ha impedito di attrezzarsi per fare fronte alla realtà.
Pietro, al contrario, ha cercato altrove la sua strada, rigettando il destino disegnato per lui da altri e vagando per le otto montagne della leggenda del Nepal, ma allo stesso modo ha visto la sua vita deragliare, deludendo le aspettative di chi lo circondava e di sé stesso.
“Avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?”
[Un frame da Le otto montagne] Le otto montagne
La crepuscolare risposta, in questa interpretazione cinematografica del romanzo di Paolo Cognetti, sembra essere: nessuno dei due.
Cosa ci resta, dunque, dinanzi alla desolazione di un destino così arbitrario, alla crudeltà di una condizione incerta, volubile, come quella che ci presentano Van Groeningen e Vandermeersch ne Le otto montagne?
La risposta, io credo, assume ancora una volta una sfumatura più o meno consapevolmente leopardiana: è nella social catena, nel condividere un mondo pieno di insidie e di spietata casualità, che c’è speranza.
Il miracolo dell’amicizia tra Pietro e Bruno costituisce un gesto di resistenza nei confronti delle avversità, una fratellanza che rimane intatta nel tempo e nello spazio, che resiste alle intemperie della vita e della morte.
Un buon inizio, dunque, potrebbe essere iniziare a indicare le cose con il dito.
Essere in grado di godere delle risorse della natura, condividerle in solidarietà, esserne appagati. Essere devoti all’austera bellezza della Terra, ma senza mai soffermarcisi troppo.
Senza indugiare nel mettersi al lavoro quando la prima luce dell’alba lo permette.
"Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza.
E chissà a quale scopo per il tuo corpo è necessaria proprio la tua migliore saggezza?"
[Così parlò Zarathustra (1885), F.W. Nietzsche] Le otto montagne
Vi rispettiamo: crediamo che amare il Cinema significhi anche amare la giusta diffusione del Cinema.