#articoli
Close, il secondo lungometraggio diretto da Lukas Dhont, è stato presentato in concorso alla 75ª edizione del Festival di Cannes e arriverà nei nostri cinema a partire dal 4 gennaio grazie alla distribuzione di Lucky Red.
Vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria, il secondo lungometraggio del regista belga rappresenta la conferma del suo talento dietro la macchina da presa, che sulla croisette aveva già conquistato pubblico e critica grazie a Girl, esordio che fu insignito dei premi Caméra d’or, FIPRESCI nella sezione Un Certain Regard, Queer Palm, nonché Migliore Interpretazione Maschile per Victor Polser.
[Il trailer di Close]
Entrambi i film si inseriscono in un percorso poetico che pone al centro l’identità di genere nell’adolescenza, rielaborando perciò il coming of age attraverso uno sguardo legato al contemporaneo.
Se in Girl la protagonista era una ballerina transgender, in Close il focus si sposta su una storia d’amicizia tra due ragazzi di tredici anni, legame che sarà condizionato da un evento inaspettato che cambierà per sempre le loro vite.
Il racconto alla base del film è di stampo autobiografico, come dichiarato dallo stesso regista:
“Un giorno sono andato a visitare la mia vecchia scuola elementare e i ricordi sono tornati alla mente, facendo riemergere quel tempo in cui era davvero difficile essere me stesso, senza filtri. I ragazzi si comportavano in un modo, le ragazze in un altro, mi sono sempre sentito come se non appartenessi a nessun gruppo.
Essere intimo con un altro ragazzo sembrava solo confermare le supposizioni che altri avevano sulla mia identità sessuale.
Ho cercato di fare ordine tra questi sentimenti, mettendo qualche parola nero su bianco: amicizia, intimità, paura, mascolinità... e ne è emerso Close”.
Close è lo specchio della sensibilità sia tematica sia autoriale che il Cinema in questi ultimi anni sta portando avanti rispetto al mondo queer, aspetto che ha visto Xavier Dolan - anche lui “figlio” artistico del Festival di Cannes al pari di Dhont - tra i primi a far tesoro del proprio vissuto personale per parlare a cuore aperto dell’identità di genere.
Lo smascheramento del proprio inconscio e perciò la messa a nudo dei sentimenti sono due temi cardine di J’ai tué ma mère (Ho ucciso mia madre), l’esordio di Dolan a soli diciannove anni al lungometraggio.
Non è un caso come, al pari di Close, questo film contenga al suo interno elementi di stampo autobiografico, forse imprescindibili per attuare una narrazione libera da ogni filtro esterno e, di conseguenza, fallata.
Hubert è un ragazzo canadese che vive con la propria madre nella periferia di Montréal: il rapporto tra i due è burrascoso, pieno di litigi e gesti d’affetto, che sarà condizionato ulteriormente quando l’omossesualità del figlio verrà scoperta.
Al pari della pittura di Jackson Pollock - artista che riveste un ruolo chiave in J’ai tué ma mère - Xavier Dolan scrive e dirige un film libero da ogni costrizione registica, facendo dell’istinto una cifra stilistica e del gusto per l’immagine un’idea di Cinema.
Avvalorandosi di un riferimento autoriale come Wong Kar-wai - e di riflesso perciò la Nouvelle Vague - il cineasta canadese (scrive, dirige, monta i propri film) dipinge un’opera che nei dialoghi nervosi tra la madre e il figlio trova un’eleganza formale tale da raffigurare i propri personaggi in quadri estetici che potrebbero essere utilizzati come fotografie istantanee.
[Xavier Dolan interpreta Hubert]
Close
J’ai tué ma mère diventa quindi un film che permette a Dolan un duplice percorso identitario: il primo, ovvero parlare della scoperta e del rapporto con la propria sessualità nell’adolescenza, aspetto appunto che condiziona anche il legame con la madre; mentre il secondo riguarda l’identità artistica e cinematografica del regista.
J’ai tué ma mère può essere considerato per regioni festivaliere e d’ispirazioni cinefile un film europeo, perciò collocabile nel fil rouge di questo articolo.
Tomboy di Céline Sciamma rappresenta un altro candido esempio di Cinema queer che affronta l’identità di genere nelle prime fasi dell'adolescenza.
I due protagonisti del secondo lungometraggio della regista francese hanno appena dieci anni e uno dei due (Laure) si sente diverso dagli altri suoi coetanei.
Per “Tomboy” si intende la locuzione con cui vengono chiamate le ragazze che rifiutano la maschera sociale del vestirsi “da donna” e perciò scelgono di parlare, indossare abiti, come meglio credono.
Ovviamente “Tomboy” è un appellativo sessista che però è ancora accettato nel nostro linguaggio, figlio di un pensiero legato inevitabilmente a una struttura societaria fallocentrica.
Perciò l’unico modo per Laure di sentirsi integrata nel nuovo gruppo di amici è quello di mascherarsi a sua volta, facendosi chiamare Michael.
[I protagonisti di Tomboy per età si avvicinano a quelli di Close]
Un film, quello diretto da Céline Sciamma, sulla ricerca della propria identità che guarda molto ai romanzi di formazione, tracciando una parabola dolorosa sulla diversità, che esamina e allo stesso tempo demolisce l’annosa questione biologica del sesso.
Tomboy e Close, sebbene affrontino due periodi della vita leggermente differenti, sono accomunati dal disagio che i gruppi sociali provocano a chi non è perfettamente integrato con loro.
Non è un caso dunque se entrambi gli stili registici si soffermano molto sull’uso del primo piano, volto al disvelamento dei volti - perciò lo specchio dell’anima - e delle maschere che indossano i protagonisti per farsi accettare.
Restando in Francia, la cinematografia d’oltralpe ci ha consegnato altri due emblematici esempi di Cinema queer.
Estate ‘85 di François Ozon ne è un interessante esempio.
Il cineasta francese è stato fin dal suo esordio un regista militante per la causa LGBTQ+, come si può notare dal suo pungente esordio Sitcom, film che mediante una caustica ironia sezionava l’ipocrisia sessuale di una famiglia borghese.
Estate ‘85 sembra partire seguendo le orme di Chiamami col tuo nome, salvo poi virare verso tutt’altro svolgimento.
Come di consueto per il suo Cinema Ozon perciò inganna lo spettatore con una prima parte che strizza l’occhio a una storia d’amore fra due adolescenti, raccontando tutte le fasi dell’innamoramento.
L’estate effimera ed erotica fa perfettamente da sfondo all’incontro e scontro tra i due protagonisti, di cui il primo - il più giovane - ancora incerto su quale siano i suoi impulsi sessuali.
[Il trailer di Estate '85, forse l'ultimo interessante film queer prima di Close]
Sebbene il film sia tratto da un romanzo, come in Close anche in Estate ‘85 sono presenti elementi autobiografici: il periodo storico, la passione per la scrittura, la scelta dei brani musicali.
La prima metà di Estate ‘85 fa pensare quindi a un coming of age, ma Ozon sceglie di mescolare le carte in tavola creando successivamente una sorta di noir, dove la ricerca della verità si trasforma in una caccia a un ipotetico amore idealizzato, forse mai esistito e frutto solo della fantasia della voce narrante.
Ci si sente ingannati a fine visione, questo perché il meccanismo a orologeria con cui il regista francese ha costruito il suo film riesce benissimo a trascinare lo spettatore in un viaggio di pochi notti d’estate all’interno della mente di un ragazzo che vive i primi tumulti sessuali.
Sempre di estati francesi e di innamoramenti parla anche Lo sconosciuto del lago di Alain Guiraudie, film che vinse la Queer Palm al Festival di Cannes nel 2013.
Nonostante uno dei protagonisti non sia propriamente un adolescente, Henri è da poco stato lasciato dalla moglie, la ricerca di sé stessi mediante il supporto/apporto di un’altra figura maschile accomuna Lo sconosciuto del lago con i film che abbiamo citato poco sopra e quindi con Close.
Guiraudie abbraccia le regole del thriller usandole a proprio piacimento per spostare la discussione più in là, sul senso tout court dell'attrazione, degli impulsi vitali, della ricerca ossessiva dell’amore.
Quello “sconosciuto” che dà il titolo al film si può riferire appunto alla volatilità dei personaggi messi in scena, bisognosi di un rapporto amoroso/sessuale figli di un vuoto interiore che li rende per l’appunto sconosciuti fra di loro e a noi spettatori.
[Lo sconosciuto del lago e Close sono due vitali esempi di Cinema queer]
Close
Le coppie di uomini che si incontrano sulle spiagge del lago hanno perciò il sapore di una fugace fuga dal proprio quotidiano, una ricerca della normalità in un contesto alieno alla borghesia nella quale sguazzano i personaggi.
Il contesto naturalistico, che non eccede mai in un compiacimento bucolico, funge perfettamente da sfondo per manifestare la fluidità di genere, dove l’unica cosa che conta è il desiderio, al di sopra di ogni cosa, anche della morte stessa.
Lasciando da parte le estati francesi, l’esordio di Lukas Dhont Girl rappresenta un film fondamentale per capire lo sguardo del regista belga che ha influenzato inevitabilmente Close.
Victor è un adolescente che sta affrontando il cambio di genere per sentirsi veramente se stesso; si fa chiamare Lara e già il nome, e di conseguenza anche il linguaggio con cui viene chiamata, la fa sentire appartenente veramente a un’identità.
Nonostante il contesto sociale che la mette a suo agio, il conflitto interiore la porterà sempre sulla linea del limite, quella dell’incertezza.
È con questa scelta narrativa che Lukas Dhont spiazza in un certo senso lo spettatore, proprio perché solitamente il dramma generato da questo tipo di racconti è causato da un contesto esterno, come possiamo vedere in Close.
In Girl invece tutto ciò è sovvertito, e il supporto è a suo modo rifiutato, detestato. Il film diventa quindi un dramma psicologico che non trova una via d’uscita, perché è la stessa condizione psicologica di Lara a essere claustrofobica.
Così facendo il regista utilizza la danza di cui è innamorata la protagonista non come mezzo per manifestare la libertà e la serenità della mente, ma come valvola di sfogo per liberarsi da un tumulto interiore lacerante.
[Girl e Close confermano il talento di Lukas Dhont nel dirigere i propri interpreti]
Se quindi Girl è stato a suo modo un esordio grandioso e registicamente tormentato, Close fa della dolcezza un’idea di Cinema e di sguardo sul mondo, sebbene le ombre di una mancata accettazione di sé stessi siano sempre presenti.
Ciò che colpisce maggiormente nel film di Dhont è la sensibilità con cui riprende i rapporti umani, in particolare quello tra i due protagonisti, talmente innocenti nella loro pre-adolescenza che quando l’occhio che giudica si posa su di loro finirà inevitabilmente per schiacciarli.
Il contesto queer in Close non viene mai urlato, ma solo sotteso in alcuni piccoli gesti innocenti nella loro inconsapevolezza, resi però pesanti come macigni da un contesto sociale - in questo caso scolastico - che fa della cattiveria gratuita uno stile di comunicazione.
Come un fiore che dovrebbe sbocciare in primavera, anche l’intimità nel film di Dhont segue questo percorso, con la stessa fragilità però di un gambo, talmente facile da cogliere da potersi spezzare alla prima pioggia.
Narrativamente semplice e per questo ancora più efficace, Close conferma il talento di Lukas Dhont, un regista che a mio avviso diventerà una delle voci più interessanti del Cinema europeo.
Vi rispettiamo: crediamo che amare il Cinema significhi anche amare la giusta diffusione del Cinema.