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Men - Recensione: #NotAllMen, ma la tossicità del patriarcato

Recensione di Men, terzo film diretto e scritto da Alex Garland

A distanza di quattro anni dal suo ultimo lavoro per il grande schermo, Alex Garland torna nelle sale con Men, terza pellicola della sua - ad oggi - breve ma intensa filmografia.

 

Dopo i prodigiosi Ex Machina e Annientamento, il regista, sceneggiatore e scrittore londinese si discosta momentaneamente dalla fantascienza per approdare al sottogenere del folk horror.

 

[Il trailer internazionale di Men]

 

 

Nelle sue opere precedenti, entrambe anche sceneggiate, Alex Garland aveva già dimostrato di non essere un purista del genere e con la scrittura e regia di Men sembra confermarlo.

 

Per l’artista, infatti, le categorie cinematografiche risultano essere solo veicoli di un’espressione autoriale pura e i loro stilemi estetici e strutturali assi portanti di un concetto particolarmente sviluppato ed elaborato. 

A prescindere da questo approccio, il minimo comun denominatore di ciascuna sua produzione è la superba capacità di lavorare sulla centralità di una figura femminile immergendola in una particolare tematica.

 

In Men questo si traduce in uno sfaccettato e articolato discorso sul genere (questa volta non filmico).

 

Tutto si evince dalla sinossi: Harper (Jessie Buckley) assiste alla brutale morte del marito James (Paapa Essiedu), il quale, poco prima del consumarsi della tragedia, aveva reagito in maniera violenta alla richiesta di divorzio di lei arrivando a minacciare di togliersi la vita. 

Per rielaborare il lutto e il trauma derivatole dalla visione della scena, la donna decide di ritirarsi per alcuni giorni in un cottage isolato, situato in un piccolo villaggio del pacifico entroterra inglese.

 

La tranquillità del luogo, però, è solo apparente: una serie di incontri -  tutti con individui di sesso maschile - la condurrà verso una permanenza infernale.  

 

 

[Jessie Buckley]

 

 

L’aspetto che rafforza in maggior misura il messaggio del regista - e allo stesso tempo rappresenta l’elemento inquietante tipico della sua poetica - è la scelta simbolica di fare interpretare tutti i personaggi maschili, ad eccezione del marito, da un unico attore: Rory Kinnear (No Time to Die).

 

Si tratta di individui di diversa età, aspetto e carattere, ma che in un modo o in un altro sminuiscono, manipolano, indispongono, offendono e molestano la protagonista con disarmante disinvoltura.

Da chi si impone verbalmente su di lei a chi diventa fisicamente intimidatorio, passando per chi si esprime con toni passivo-aggressivi, tutti gli uomini che Harper incontra nel villaggio non fanno che sovrastarla e opprimerla.

 

Così facendo, Garland non si esime dal mostrare l’angosciante fardello psicologico che molte donne sono costrette a trasportare quotidianamente: la prevaricazione tutta maschile nei loro confronti, che spesso si manifesta attraverso un’ottusa prepotenza psicologica e/o fisica.

 

Da qui la significativa idea di moltiplicare il corpo e la fisionomia - e i corrispettivi talenti espressivi - di Kinnear in una caratterizzazione ideale dei principali tratti tipici della misoginia, nonché di quei modelli di mascolinità tossica che ancora perdurano e si tramandano senza soluzione di continuità nella nostra società.

 

 

[Geoffrey, uno dei diversi volti di Rory Kinnear]

 

Il risvolto realmente interessante, tuttavia, è che si tratta di un accorgimento a cui fa caso solamente lo spettatore e non Harper.

 

Forse una metafora, quindi, volta non tanto a universalizzare il genere maschile, bensì a segnalare che chi subisce in prima persona simili abusi, per quanto essi possano presentarsi sotto forme diverse, può non rendersi conto che condividono tutti la stessa matrice culturale. 

La presenza di un ragazzo adolescente tra i personaggi interpretati da Kinnear indica infatti in maniera lampante quanto sia trasversalmente strutturale questa problematica.

 

Quello della protagonista di Men, tuttavia, è un doppio e intricato percorso: assieme alla guarigione dagli abusi e alla liberazione dalle manipolazioni psicologiche perpetrate dal marito, la giovane deve anche elaborare un lutto e allo stesso tempo far fronte a un senso di colpa che in realtà non dovrebbe avere.

 

Il film diventa quindi un’immersione allegorica nella prospettiva femminile della società contemporanea, nella quale una donna è costretta a fare quotidianamente i conti con la tossicità che caratterizza gran parte delle interazioni maschili - dirette e indirette, consce e non - sia all’interno di relazioni sentimentali sia al di fuori di esse. 

 

Un contesto nel quale è costretta a ereditare tutte le scorie millenarie religiose e sociali del sistema patriarcale, prima fra tutte la colpa e la vergogna proprio dell’essere donna.

 

 

[Harper (Jessie Buckley) con il marito James (Paapa Essiedu)]


Cruciali, in tal senso, gli scambi fra Harper e il personaggio del sacerdote, nei quali si può notare tutta la pervasività della misoginia.

 

A tal proposito ho trovato particolarmente significativo da un punto di vista simbolico il momento in cui lui recita Leda e il cigno di William B. Yeats, poesia incentrata sullo stupro commesso da Zeus in forma di cigno nei confronti della regina di Sparta, e su come il risultato di tale abuso, Elena, sia stata la causa della Guerra di Troia e della morte di Agamennone.

 

La fonte di tutti i mali è ancora una volta una donna, quasi per definizione. 

 

Correlato a questo concetto risulta chiaro il richiamo al processo di colpevolizzazione della vittima a seguito della violenza carnale, due lucide forme di manifestazione di, rispettivamente, manipolazione e abuso di potere ai danni del genere femminile.

Una prassi, quella appena descritta, che non fa che alimentare una consolidata cultura dello stupro, resa possibile solo in un sistema patriarcale. 

Del resto, secondo la prospettiva di questo retrogrado ordinamento sociale, sia il corpo femminile sia i rapporti sessuali che esso intrattiene sono sempre stati legati a triplo filo al concetto di proprietà privata maschile.

 

Solo una visione totalmente fallocentrica dell’universo poteva portare, ad esempio, alla creazione del mito della verginità femminile, il quale ha alla base la credenza che da questa prima penetrazione vaginale possa dipendere l’intera moralità e integrità della donna.

 

 

[Un'altra maschera di Kinnear: l'inquietante sacerdote]

 


Questa rappresentazione contrapposta di ruoli è possibile in Men soprattutto grazie alle intepretazioni principali dei due protagonisti, entrambi diretti magistralmente da Garland.

 

Da un lato Jessie Buckley (Sto pensando di finirla qui, La figlia oscura) regala un’altra prova della sua immensa bravura nel ritrarre magnificamente tutte le espressioni e le reazioni del suo personaggio di fronte ai traumi psicologici e fisici subiti, mantenendo una perenne ombra di persecuzione e tormento sul suo volto; dall’altro Rory Kinnear - forse l’attore britannico teatrale, televisivo e cinematografico più talentuoso in circolazione - riesce perfettamente a modellare diverse tendenze dannose maschili e i loro corrispettivi pigli e atteggiamenti su otto personaggi differenti, alcuni di essi senza battute o con una presenza sullo schermo molto limitata.

 

Per trasmettere la propria visione Garland propone una riflessione tematica arricchendo la narrazione di riferimenti biblici e pagani, ponendo entrambi in relazione con l’ambiente circostante.

I primi sono lapalissiani anche se necessari, mentre i secondi risultano essere più ricercati.  

 

L’Uomo verde, raffigurato da un volto maschile coperto di foglie, si lega all’atto ciclico della rinascita della natura ogni primavera, mentre Sheela-na-Gig, una donna dalla vulva esageratamente ingrandita, rimanda al concetto di fertilità: a lei venivano attribuiti poteri apotropaici.

 

 

[Un'altra grande interpretazione di Jessie Buckley]

 

 

Questo doppio rimando simbolico sarà il fulcro di una lunga e allegorica sequenza che sicuramente polarizzerà il giudizio di critica e pubblico.

 

Si tratta di una scelta artistica atta a interrogarsi su quanto sia paradossale che, per per quanto la società sia patriarcale e misogina da millenni, gli uomini abbiano sempre fatto affidamento sulla fertilità delle donne per continuare a rendere prospero un sistema malato che finisce inevitabilmente per danneggiarle. 

Un’ulteriore prova dell’audacia di una delle menti più visionarie del Cinema contempraneo.

 

A supporto di questa interpretazione il regista rende - anche attraverso una messa in scena elegante e avvolgente - la collocazione spaziale della trama parte integrante del suo messaggio.

Ancora una volta la vicenda delle sue pellicole è isolata dai centri urbani e immersa nella natura, la quale conferisce al paesaggio un potere misterioso (forse maligno?) e simbolico.


La scelta scenografica che passa da inquadrare vasti spazi e prati in fiore ad animali morti in decomposizione (la scelta della cerva non è casuale) è esaltata dalla precisa e funzionale fotografia del fidato collaboratore Rob Hardy, che sovraccarica i colori accesi ed esalta i neri delle ombre e dei bui.

 

L’effetto visivo della composizione di tutte queste immagini non avrebbe però la stessa efficacia senza il sound design e la colonna sonora inquietante, straniante e dissonante di Ben Salisbury e Geoff Barrow.

 

Tutte queste carattersitiche a mio avviso fanno entrare di diritto Men nella schiera dei migliori prestige horror mai prodotti recentemente.

 

 

 

 

Con Men, Alex Garland non solo omaggia l’horror più controverso (i riferimenti ad Antichrist di Lars von TrierPossession di Andrzej Zulawski sono evidenti), ma inverte il tradizionale arco narrativo di questo genere cinematografico: più il villain si fa minaccioso per dare il colpo finale alla final girl, più in realtà si rivela triste e patetico.

 

Il regista utilizza al meglio gli stilemi del genere horror per mostrare un terrore reale: l’egemonia della mentalità misogina e tossica del patriarcato che domina tutte le sfere della nostra comunità, diventando una vera e propria istituzione sociale.

Men mostra quindi molto lucidamente quanto tutto ciò si traduca in repressione, disequilibrio e ingiustizia, ma indica anche che attraverso un audace linguaggio figurato possano scaturire profonde considerazioni sul tema.  

 

Del resto, cos’è il Cinema se non il migliore strumento di riflessione e intervento sulla realtà volto anche a contestare le strutture sociali precostituite?

 

Men di Alex Garland lo dimostra nuovamente e ci esorta a realizzare che forse il peggiore degli incubi è vivere in un sistema che devasta psicologicamente e fisicamente le donne, ma che finisce per danneggiare indirettamente anche gli uomini.

 

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