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Con il peso dell’eredità lasciatagli da una produzione che ha fatto letteralmente scuola, impartendo lezioni di messa in scena e costruzione drammatica delle vicende, nel 2015 Better Call Saul ha mosso i primi passi tra le aspettative incerte di un pubblico in fremito.
Il primo impatto - lo ricorderanno in molti - fu di immediata sorpresa: Better Call Saul permetteva allo spettatore di ritrovare vecchie conoscenze, come Gus Fring (Giancarlo Esposito) e Mike Ehrmantraut (Jonathan Banks), con diverse consapevolezze e all’interno di un arco temporale mai esplorato.
[Il primo incontro tra Mike e Jimmy nella prima stagione di Better Call Saul]
Con la fine di Better Call Saul il cerchio si è ormai tristemente chiuso, ma le diatribe volte a scoprire quale, tra la suddetta e la serie madre, sia la migliore serie TV sono ancora in corso.
C’è chi sostiene che nulla sarà mai come Breaking Bad, considerato il capolavoro televisivo più influente di tutti i tempi; chi invece ritiene che lo spin-off sia riuscito miracolosamente a superare l’originale in termini di innovazione e impatto visivo.
L'ultima stagione di Better Call Saul ha confermato un punto di vista che raramente viene preso in considerazione nelle operazioni di paragone e confronto tra le due serie televisive.
Ora più che mai siamo in grado di stabilire la squisita specularità di Breaking Bad e Better Call Saul, potendo tranquillamente immaginarle come due rette parallele che, incontrandosi con moderazione, danno vita a una spirale infinitamente perfetta: il DNA dell’universo Albuquerque.
In loro pulsa lo stesso sangue, quello di Peter Gould e Vince Gilligan, due menti brillanti che hanno consegnato al mondo un manuale dettagliato di scrittura e sceneggiatura in ambito televisivo.
L’obiettivo di Better Call Saul è stato anzitutto quello di umanizzare un personaggio macchietta, l’avvocato strampalato di Breaking Bad interpretato da Bob Odenkirk.
Lungo le sue sei stagioni la serie TV ha costruito il ritratto di un Buono in eterno conflitto con la propria natura meschina, gettando nel vuoto ogni certezza che avevamo su Saul Goodman.
Ciò che è emersa è stata invece la psicologia di Jimmy McGill, costantemente messa alla prova da quell’insopportabile bisogno di raggirare il prossimo per scopi personali, per denaro e per divertimento.
Così come in Breaking Bad, anche in Better Call Saul c’è stata quindi un’eterna lotta alla sconfitta, una fuga dalle proprie responsabilità e un ammontare inquietante di bugie che, sommandosi l’una sull’altra, hanno finito per essere credute reali dagli stessi protagonisti.
[Lo spregevole stratagemma di Jimmy nei confronti del fratello Chuck, nell'episodio 5 della stagione 3 di Better Call Saul]
In questa sesta e ultima stagione i percorsi di ciascun personaggio volgono alla loro naturale conclusione.
Lalo (Tony Dalton) è determinato a fare giustizia e vaga nel paesaggio come un fantasma, elaborando un piano che dovrebbe finalmente vendicare le atrocità compiute alla sua famiglia.
Nacho (Michael Mando) si abbandona a un’irrequieta fuga dal Cartello, da una vita che probabilmente non gli è mai appartenuta, muovendosi lentamente all’interno di alcune delle scene di tensione più impressionanti di stagione e assicurandosi un epilogo meraviglioso, suggellato da un monologo di sorprendente riluttanza e disprezzo.
A cambiare è anche la situazione legale di Albuquerque: Saul Goodman entra in una fase della sua carriera senza possibilità di voltarsi indietro, Kim Wexler (Rhea Seehorn) può decidere finalmente che tipo di persona essere e Howard Hamlin (Patrick Fabian) è costretto a lottare per la propria reputazione.
[Un particolare di Nacho tratto dalla scena del carro-cisterna all'interno del quale il personaggio tenta di nascondersi]
A qualche anno di distanza dalla tragica morte del collega e amico Chuck (Michael McKean), Howard si trova a dirigere un grande studio legale da solo, sopportando il peso di una direzione che non lo aveva mai coinvolto singolarmente.
La sua trasformazione in vittima degli eventi è forse l’espediente più delicato di Better Call Saul, oltre a coronare metaforicamente il legame romantico tra Jimmy e Kim che trovano una nuova sfida da compiere insieme nell’elaborazione di un piano scorretto a scapito di Howard.
Si tratta di un improvviso ribaltamento di ruolo che trasforma l’antipatico avvocato biondo platino, sempre ben vestito e curato, in un martire spettinato con gli occhi gonfi di disperazione, all’interno di un colpo di scena unico nel suo genere, costruito su dettagli, su deformanti primi piani e sul silenzio terrificante caratteristico dell’assenza di vita.
[Howard e Lalo nella scena più traumatica dell'ultima stagione di Better Call Saul]
Allo stesso modo l’inversione di marcia di Kim diventa il simbolo di un grande cambiamento.
Con i suoi clienti pro bono, la brillante avvocatessa ha ora modo di realizzarsi indipendentemente: un desiderio che sembra andare di pari passo con la voglia di seguire più da vicino le affascinanti strategie del marito e il suo improbabile stile di vita.
L’effettiva metamorfosi di Jimmy in Saul Goodman, avvocato del Cartello, permette a Kim di cedere finalmente alla trasgressione, concetto che le è appartenuto fin da bambina e che ora appare inaspettatamente gestibile.
Gli ultimi episodi dell'ultima stagione di Better Call Saul fanno definitivamente spazio al periodo Breaking Bad e post-Breaking Bad.
Il passato remoto si ricongiunge dunque al passato prossimo - quello di Breaking Bad - e sfocia nel presente, nel paradosso del bianco e nero, in cui Jimmy McGill divenuto Saul Goodman si è tramutato ormai in Gene Takavic.
Il bianco e nero esiste anche per Kim che, divorata dai sensi di colpa e dalla consapevolezza di aver creduto in un rapporto destinato all’autodistruzione, abbandona la carriera da avvocato e si trasferisce in Florida per condurre una vita mediocre fatta di insalata di pollo, grigliate in giardino e chiacchierate tra mogli.
Rhea Seehorn, in questo senso, conferma il suo sostanziale contributo alla costruzione di un personaggio femminile che non ha eguali nel mondo della serialità televisiva.
Una figura che ha saputo raccontare, senza scadere nel luogo comune di una rappresentazione sessista, la forza e la tenacia anzitutto di un essere umano.
L’attrice regala allo spettatore una performance sopraffina che raggiunge il suo apice in una simbolica crisi di pianto, un momento di totale liberazione in grado di sprigionare tutta la tensione accumulata dal primo episodio.
Alla sua mirabile prova si aggiunge quella di un Bob Odenkirk sempre al massimo delle sue potenzialità, il cui volto è in grado di esprimere una disorientante tristezza nella quale vive l’intero senso drammatico della serie TV.
[In questa ultima stagione comprendiamo bene quanto Kim, come suggerito da Mike nella scena di un loro incontro, abbia "la pelle più dura" del marito, cioè quanto potenziale possa avere la sua fredda reticenza nel contesto della criminalità]
Raggiunta la linea temporale di Breaking Bad, Better Call Saul cambia improvvisamente sigla per prepararsi all’epilogo del suo adorabile e detestabile protagonista.
Il presente di Gene Takavic, discreto e dilatato in giornate monotone tra un cinnamon roll e un bicchiere di cognac, si ricongiunge con quello di Saul e Jimmy articolandosi su un interrogativo inatteso dal sapore vagamente agrodolce: "se avessi a disposizione una macchina del tempo, dove andresti e cosa cambieresti del tuo passato?"
Better Call Saul proietta il suo magistrale finale all’interno di un’aula processuale, ma stavolta l’imputato è chi non avremmo mai immaginato.
Lo spettatore viene delicatamente accompagnato verso un commovente epilogo che rasenta la perfezione, nel quale vincono i sentimenti e l’amore, senza alcuna forma di pietismo.
[Un attimo prima della meravigliosa arringa finale di Jimmy]
Gli ultimi confortanti e malinconici 10 minuti di Better Call Saul hanno un valore incommensurabile, perché riflettono un profondo rispetto per lo spettatore, per colui che per 14 anni si è innamorato di splendide immagini, si è commosso con i protagonisti ed è rimasto sconvolto da improvvisi colpi di scena.
Nell’overdose produttiva che colpisce l’intrattenimento nell’ultimo periodo, Better Call Saul rimane un esempio autentico di come una serie televisiva possa ambire al linguaggio cinematografico più elegante senza la necessità di sottostare all’abominevole logica dell’hype.
Questa stagione è stata in effetti tra le più attese, perché avrebbe probabilmente mostrato il ritorno di Walt (Bryan Cranston) e Jesse (Aaron Paul) all’interno di alcuni flashback relativi al periodo Breaking Bad.
Probabilmente un’altra serie TV avrebbe posto l’attenzione sulle aspettative legate a quella novità, allo scopo di gonfiare gli ascolti assicurandosi una maggiore ricezione.
Better Call Saul invece inserisce gli elementi della serie madre con grande intelligenza, seguendo coerentemente il principio alla base di un ottimo racconto: ogni cosa deve avere uno scopo.
Contro ogni tipo di trovata commerciale, attorno ai protagonisti totemici di Breaking Bad non viene costruita alcuna mitologia fine a sé stessa e la loro presenza è sempre giustificata in senso narrativo.
Walt e Jesse appaiono sempre per un determinato motivo, per spiegarci qualcosa in più di Saul o per favorire incontri inaspettati dal chiaro valore simbolico.
[Walt e Jesse, al di là dell’inevitabile invecchiamento camuffato comunque con astuzia, sono esattamente come apparivano a quel punto della storia in Breaking Bad; impacciati, buffi, improbabili: gli Stanlio e Ollio della metanfetamina]
Ecco come Peter Gould e Vince Gilligan sono riusciti a partorire un incredibile miracolo televisivo, permettendo al pubblico un percorso di esplorazione totale in cui ogni scelta compiuta ha avuto un preciso significato.
In 63 episodi gli showrunner, i collaboratori e i registi della serie televisiva si sono mostrati pazienti nel costruire una storia, dalla fotografia alla regia fino alla scrittura, aiutati da un cast eccezionale fatto di sole prove memorabili.
La genialità di Better Call Saul è stata proprio nella costruzione di un intreccio in cui nulla è concesso gratuitamente a chi guarda, in modo da rendere l’atto del disvelamento un momento sbalorditivo che riesce a radicarsi profondamente nella memoria collettiva.
La nostra sincera speranza è che il lavoro di Gould e Gilligan, basato su una commovente fiducia nei confronti dello spettatore, possa essere di ispirazione per tutti quegli autori, sceneggiatori e registi che abbiano realmente un motivo per realizzare una serie TV.
Nel frattempo è proprio il caso di esprimere totale riconoscenza verso un’era ormai giunta al termine che ci ha regalato, in modi diversi e del tutto personali, momenti preziosi di arricchimento e condivisione.
Addio Better Call Saul… ci vediamo al prossimo rewatch!
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2 commenti
Matilde Biagioni
2 anni fa
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Matilde Biagioni
2 anni fa
Rhea e Bob sono stati due interpreti incredibili. Sento ancora la loro mancanza 😢
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