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Come forse accade in Rimini, può l'autorialità scemare in termini qualitativi parallelamente al mantenimento, paradossale, dei propri punti di forza?
Possedere una cifra estetica distintiva può indubbiamente tradursi in un'opportunità non da poco, se non in un pregio inalienabile, specie assecondando un'ottica autorialista, eppure quella dialettica norma/scarto - dialettica in cui il primo termine ingloba sfondo contestuale e filmografia particolare - da cui è inevitabile passare pare poter condurre, problematicamente, verso un punto di esaurimento.
Come suggerito dall'aggettivazione, il discorso investe versante formale e contenutistico, anzi: riguarda proprio quel loro interagire che, a prescindere da variazioni superficiali sconnesse dalla progettualità estetica, costituisce il nucleo di ogni possibile elaborazione à la "politique des auteurs".
È questa relazione a permettere l'individuazione (la prospettiva è dunque quella dell'analista) di trame intertestuali, a consentire di operare servendosi di quelle che Ludwig Wittgenstein ha chiamato "somiglianze di famiglia", strumenti concettuali in grado di armonizzare empirico e teorico senza cadere nella trappola delle ricorrenze obbligate.
In altre parole è inquadrare la relazione, quella relazione, nei termini di un sistema flessibile ma dotato di coerenza a guidare la riflessione su percorsi di tipo autoriale, con l'ampiezza delle maglie del sistema certamente scollegata, se presa di per sé, dagli eventuali criteri di valutazione.
[Il trailer di Rimini]
Ulrich Seidl è senza dubbio un autore, un autore la cui qualifica discende da un sistema a maglie parecchio strette, un autore la cui ultima opera è figlia di uno sguardo ben preciso, un autore che tuttavia pare giunto sulla soglia di un punto di parziale esaurimento.
Nel suo caso il lato stilistico è sicuramente riconoscibilissimo, caratterizzato com'è da tratti - fissità della cinepresa, rigidità prospettica e sfruttamento deviante della profondità di campo su tutti - la cui compresenza è tanto di facile decodifica quanto, soprattutto, capace di connotare la materia narrata in chiavi invero ambigue.
Il contenuto scaturito dalla forma ha spesso condotto a letture impegnate a evidenziare una componente cinica; nondimeno, le dichiarazioni del regista (che sul piano interpretativo non sono affatto vincolanti) hanno talvolta scansato o problematizzato proposte che, non di rado, trasformavano il cinismo in sadismo o cattiveria gratuita, con l'ovvio corollario concernente il rapporto (viziato) autore/pubblico.
Conviene soffermarsi sulla questione: optando per soluzioni marcate rispetto alle consuetudini fruitive, Seidl orienta la riflessione, propria e altrui, anche verso il campo della morale.
Sono marcate le scelte di stile e lo sono quelle di contenuto, col regista che aspira a uno slancio provocatorio di matrice pasoliniana, e non è un caso che la partita si giochi perlopiù sul sottile crinale che separa progettualità e programmaticità, intendendo quest'ultima nozione come soffocante attitudine alla dimostrazione.
Sono film, quelli di Seidl, che rischiano sovente di respirare a fatica - forse è proprio il superamento di un simile rischio ad averne determinato la fama - e di pagare la ripetizione di uno schema, con particolare riferimento alla costruzione del lettore (modello) sul piano dell'emotività.
Sorgono quindi spontanee almeno due domande.
Una generale: un cinema imperniato sul cinismo ha un ciclo vitale necessariamente ridotto rispetto a cammini altri?
Una particolare e conseguente: quanto la filmografia del cineasta austriaco è eventualmente sorretta da tale elemento?
[Un frame da Rimini] Rimini Rimini
Rimini non è una replica stanca, gli spunti sono diversi e si rivelano tentando di ricostruire le intenzioni del regista; tuttavia è una brillantezza in grado di (ri)illuminare davvero il pattern a scarseggiare.
Ennesima variazione sul tema, il film continua difatti il discorso che Seidl porta avanti esteticamente da tempo, un discorso il cui complesso concetto-cardine è "alterità".
Sono molteplici le alterità convocate, agiscono su binari differenti: in primo luogo, sul lato narrativo, la figura dell'estraneità è decisamente una costante, assieme al relato senso di spaesamento.
Sentirsi fuori posto, in maniere più o meno evidenti, è ad esempio un requisito base per poter essere protagonisti: lo dice la trilogia Paradise e lo dice Rimini, accostabile soprattutto al primo dei tre capitoli.
Come in Paradise: Love, lo scarto è innanzitutto linguistico-culturale, ma se nel 2012 Teresa, austriaca in Kenya, marcava una discrepanza (metonimica) anche sul piano socioeconomico e iconografico, ora il sistema di dissonanze e assonanze rispetto al contesto risulta più sfumato.
Il discorso è sempre (anche) simbolico e la ricerca, in quanto cinematografica, investe l'ambito dell'immaginario.
In ciò, e in un film di produzione straniera, il titolo è una dichiarazione programmatica, evoca una scheggia di un mondo ben preciso che, tuttavia, risulta trasfigurato rispetto alle aspettative, per esempio in relazione alle coordinate temporali: se idealmente la costiera romagnola pare confinata in una palla di vetro perennemente assolata, Rimini propone il paradossale recupero dei fiocchi di neve, fiocchi che, come quelli della snowball, non sono altro che un artificio artistico (a prescindere dalle mosse produttive).
In questa cittadina bianca e annebbiata, una Rimini che comunque si esprime visivamente tramite quei non-luoghi che sono gli hotel e le seconde case, si muove Ritchie Bravo, mediocre cantante austriaco di mezz'età.
Ritchie condensa in sé un'epoca, una visione del mondo sorpassata, la stessa idea di visione del mondo sorpassata: questa (meta)Weltanschauung, biforcandosi e ricomponendosi, genera delle tonalità grottesche che, a loro volta, allontanano un cinismo naïf.
Il giudizio, nello sguardo di Seidl, non passa affatto per lo scherno, ma la freddezza stilistica tradisce una "messa in fase" (con tale termine il semiotico Roger Odin descrive il processo attraverso cui l'estetica può intercettare emotivamente lo spettatore) che punta alla subdola creazione di una distanza, di una cornice.
Su questo versante Seidl riesce a muoversi in uno spazio interstiziale certamente produttivo: parzialmente discostandosi rispetto alla trilogia - specie al respingente Paradise: Faith - Rimini gioca, prescrivendoli, sui sentimenti empatici.
La parabola di Ritchie miscela difatti tutta una serie di ingredienti che evitano di renderlo un mero personaggio-funzione, un pretesto narrativo, un simbolo tout court: in modo estremamente controllato ci avviciniamo talora al suo mondo interiore, percepiamo una tridimensionalità che rimanda, di nuovo, a un'alterità.
[Un frame da Rimini] Rimini Rimini
Rimini, con degli interessanti risvolti anche metacinematografici, è un film sul passato, sul peso della storia e, perché no, della Storia, come suggerisce la figura del padre del protagonista, presumibilmente un ex-nazista, o come indica il topos del labirinto.
Sulle spalle di un credibilissimo Michael Thomas (novello Mickey Rourke in The Wrestler) gravano un passato familiare noto, un passato familiare rimosso e un passato individuale, con la scena dell'(auto)duetto - un duetto sfasato sul piano temporale - a sintetizzare lo spettro emozionale evocato.
Il "mondo cupo" che avvolge Ritchie - mondo in cui, in accordo con la filmografia dell'autore, fanno capolino la caccia e delle crepe razziste - sconfina (ma il movimento è speculare) nella scoperta di una frammentazione interna, appunto, di un'alterità; solo su questo terreno può aver luogo una presa di coscienza potenzialmente premessa di un percorso, nodale dal punto di vista drammaturgico, di emancipazione.
Lo stesso rapporto con il mondo cupo è tuttavia intricato e vive di un fruttuoso gioco di specchi.
Il frequente ricorso a inquadrature ampie, dalla figura intera ad allargare, rende lampante la centralità della dialettica habitat/individuo: le soluzioni prospettiche adottate e le connesse ricerche volumetriche restituiscono una sensazione straniante dal retrogusto vagamente kafkiano, mentre la collocazione spaziale del dato umano, in un film attentissimo all'impiego della profondità di campo e di fuoco, oscilla pur mantenendo fermo un nucleo significante.
Ingabbiato dai geometrismi, incastonato nei punti di fuga o relegato ai margini del quadro attraverso décadrage che ricordano Michelangelo Antonioni, Ritchie è contemporaneamente un corpo altro e un oggetto di scena; in questo senso il ritmo impresso dal montaggio, che si avvale di parecchi tempi morti lavorando in tandem con la narrazione, assolve il proprio compito in entrambe le direzioni.
In toto Rimini è allora un'opera che ha qualcosa da dire, che ha uno spessore estetico autonomo; nondimeno, nonostante un certo cinismo sia mitigato, lo scatto pare contenuto, il dialogo istituito col fruitore non così stimolante, soprattutto sul versante dei filtri formali e delle aperture interpretative suggerite.
Perché dunque, agli occhi del sottoscritto, il discorso vale per Seidl e non per Tsai Ming-liang, per Rimini e non per Days, ultime fatiche di autori assai coerenti, ciascuno a suo modo?
Forse la risposta giace in tare personali che, si spera, il lettore sarà capace di smorzare; o forse, invece, proprio in quella diversità di modi che implicherebbe una difformità nell'evolversi dei percorsi artistici, ponendo l'accento sullo scambio opera/spettatore.
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