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Finale a sorpresa - Official Competition diretto da Mariano Cohn e Gastón Duprat è stato presentato in concorso alla 78ª Mostra del Cinema di Venezia e arriverà nei nostri cinema a partire dal 21 aprile grazie alla distribuzione di Lucky Red.
Accolto con recensioni entusiaste e risate fragorose, la commedia Finale a sorpresa rappresenta il ritorno dei due registi argentini alla Mostra di Venezia dopo aver partecipato nel 2016 con Il cittadino illustre.
Entrambi i film si inseriscono in un percorso poetico che mette al centro i meccanismi di costruzione di un’opera artistica, del suo autore e di come essa rielabori la realtà che rappresenta.
[Il trailer italiano di Finale a sorpresa - Official Competition]
Se ne Il cittadino illustre ad esser presa di mira era la letteratura, in Finale a sorpresa l’oggetto della satira si sposta verso il Cinema.
D’altronde qual è il miglior modo per riflettere sull’arte se non quello di mettere in discussione il proprio lavoro sottoponendolo a una spietata e irriverente critica?
La protagonista di Finale a sorpresa è infatti Lola Cuevas (Penélope Cruz), regista che ha il compito di realizzare un film per soddisfare le manie di grandezza di un noto imprenditore miliardario.
Partendo da questa facile premessa, Cohn e Duprat realizzano un’opera che espone e mette a nudo i tanti retroscena che si celano dietro la produzione di un film, passando dai contrasti tra gli attori sul set fino alle trovate registiche al limite del ridicolo pensate dalla folle Lola Cuevas, per un lavoro con un’alta componente metacinematografica che non ha paura di mettersi a nudo davanti allo spettatore.
Finale a sorpresa - Official Competition è però solo l’ultimo film con il focus della narrazione centrato sulla figura del regista, un’idea che ha permesso a Federico Fellini di realizzare uno dei capolavori della storia della Settima Arte: 8½.
Il cineasta riminese dopo aver diretto La dolce vita si trovava in una situazione soffocante, schiacciato tra le feroci accuse della chiesa cattolica e le critiche di un certo ambiente accademico italiano.
Allo stesso tempo i produttori incalzavano Fellini per la produzione di un nuovo film, La dolce vita fu un successo di pubblico strabordante, quasi minando la serenità creativa che un regista necessita per ideare un’opera filmica: da questo momento di crisi è nato 8½.
[8½ vinse il Premio Oscar come Miglior Film in Lingua Straniera nel 1964]
Già il titolo è una dichiarazione d’intenti, dato che 8½ è un rimando extratestuale ai film diretti da Fellini stesso e che nulla hanno a che vedere con il protagonista dell’opera, ovvero il regista Guido Anselmi (Marcello Mastroianni).
Ne consegue un’operazione dal potere catartico dove la pellicola che sta cercando di realizzare Guido è un rimando alla condizione di Fellini, in una sorta di “chiodo schiaccia chiodo” atto a esorcizzare sia la crisi del regista del film, sia quella del regista nella vita reale, come ci suggerisce Christian Metz nel saggio Semiologia del Cinema:
“Non abbiamo soltanto un film sul Cinema, ma un film su un film che a sua volta verte sul Cinema; non soltanto un film su un cineasta, ma un film su un cineasta che riflette egli stesso sul proprio film”.
Un’analisi che scavalca la forma narrativa tradizionale per diventare un’opera testuale che studia a più livelli tutti i meccanismi che gravitano attorno alla Settima Arte: quello artistico, quello produttivo e quello della ricezione da parte degli spettatori.
Esattamente dieci anni dopo l’uscita di 8½ François Truffaut realizzò Effetto notte, forse il film che insieme a quello di Fellini costituisce un’ideale dittico relativo a questo particolare filone.
La pellicola del regista francese nasce da un’esigenza artistica precisa, non perciò dominata dal caos felliniano, quella di mostrare l’ordinarietà di un mondo che è a tutti gli effetti straordinario.
Tramite una delle dichiarazioni d’amore più sincere che un regista abbia mai fatto nei confronti del Cinema, Truffaut inscena la lavorazione di un finto film, Vi presento Pamela, rendendo naturale e terribilmente umano l’ambiente del set.
[Anche Effetto notte vinse il Premio Oscar come Miglior Film in Lingua Straniera]
Talmente umano che in Effetto notte aleggia costantemente lo spettro della morte, sia fisica sia cinematografica, una condizione con cui la Settima Arte ha dovuto rapportarsi da sempre, dato che le innovazioni artistiche e tecnologiche suggellano inevitabilmente il passare degli anni e del periodo storico che ne consegue.
Lo stesso titolo del film rimanda a una tecnica di ripresa che all’epoca del film di Truffaut era già in disuso.
Questa precisa scelta rende Effetto notte una pellicola in grado di rapportarsi con lo spettatore in modo semplice - Finale a sorpresa segue questo percorso adottando però una politica più spietata nei confronti degli artisti o presunti tali - dimostrando come anche lo stesso Cinema nel Cinema possa essere vita vera, rendendo limpido il concetto che l’arte nella sua follia e innegabile magia passa sempre dalle persone.
8½ ed Effetto notte hanno segnato a loro modo due strade differenti per mettere in scena un film con al centro del racconto la figura del regista: la prima è specchio di un’esigenza artistica e/o emotiva del regista stesso, mentre la seconda inquadra un’epoca storica, omaggiando e studiando il progresso del Cinema.
Nel primo percorso citato si inserisce indiscutibilmente Woody Allen, che attraverso vari film ha cercato di riflettere, a volte ironicamente altre meno, sulla sua persona e sul senso del suo lavoro.
Stardust Memories in questo caso è la pellicola più rappresentativa del regista newyorkese nonché la più discussa e divisiva.
Condensato di tutti i leitmotive del Cinema di Allen, Stardust Memories analizza con un pessimismo spiazzante i tumulti interiori di un artista, guardando esplicitamente a 8½.
[Charlotte Rampling e Woody Allen in Stardust Memories]
La scena iniziale è già un omaggio al capolavoro di Fellini, seguita poi da una componente onirica tipica della poetica del regista riminese, atta a percorrere la tortuosa strada di domande che Woody Allen si pone durante il film e che non troveranno mai risposta, suggerendoci come è propria la mancanza di certezze a rendere vivo un’artista.
Il controcampo di Stardust Memories è rappresentato invece da Hollywood Ending, film di Allen del 2002 che si sbarazza completamente del pessimismo del lungometraggio del 1980 per abbracciare invece i toni della commedia. Il protagonista del film è un regista dal passato glorioso, ormai dimenticato e costretto a dirigere spot pubblicitari.
Una serie di circostanze gli permetteranno di girare una nuova pellicola, ma dopo una crisi nevrotica il regista diventa temporaneamente cieco.
Questa idea narrativa vincente permette ad Allen di mostrare con un’ironia irresistibile il mondo dietro la realizzazione di un film, passando perciò dalla produzione fino alla vita sul set, prendendo infine di mira anche la critica cinematografica, spesso ottusa nell’inseguire pedissequamente la politica degli autori ideata dai padri della Nouvelle Vague.
Woody Allen non è stato però il solo a voler omaggiare 8½, dato che Rob Marshall nel 2009 ha tentato pressoché un’impresa impossibile: rifare il film diretto da Fellini in salsa musical.
Grazie a un cast eccezionale formato da Daniel Day-Lewis, Nicole Kidman, Penélope Cruz, Marion Cotillard, Judi Dench e Sophia Loren in Nine assistiamo alla storia del regista Guido Contini alla ricerca dell’ispirazione perfetta per realizzare il suo prossimo progetto.
Il risultato finale di Nine però affossa completamente le buone prove degli attori, mostrando una bulimia di idee che finiscono inevitabilmente in un vicolo cieco.
[Il trailer di Nine]
Il caos felliniano dominato da tutti i problemi che attanagliavano il regista di Rimini in Nine è solo un pretesto per mettere in scena un musical il cui senso artistico esiste solo in funzione alla messa in scena precisa di Rob Marshall, non quindi per una vera e propria esigenza creativa.
Nine rappresenta perciò l’esempio perfetto di come i film di questo tipo siano frutto di un percorso autoriale intimo, quasi necessario, e non semplici opere di finzione.
Fortunatamente nel 2019 Pedro Almodóvar con Dolor y gloria si mette a nudo, tirando le somme del proprio vissuto per accettare il tempo presente e di conseguenza anche se stesso. Il protagonista è Salvador Mallo (Antonio Banderas), un regista ormai anziano e disilluso, acciaccato da vari problemi fisici che lo hanno portato ad abbracciare l’eroina.
Il paragone vien da sé - pure l’anagramma del nome ce lo dice - e la storia infatti è personale, sussurrata e funzionale per ritrovare la propria identità, sbiadita come una Polaroid con tanti anni alle spalle.
Il Cinema nel Cinema questa volta ha un potere salvifico per il regista, liberando lo stesso Almodóvar da un dolore che lo soffocava da troppo tempo, facendo suo il sentimento della sofferenza per mutarlo in una creazione artistica e cinematografica inevitabilmente commovente.
[Il trailer di Dolor y Gloria, film presentato al Festival di Cannes del 2019]
A differenza dei film che abbiamo citato, Ed Wood di Tim Burton prende la strada tracciata da Effetto Notte per inquadrare un preciso periodo storico attraverso la mente di un regista folle, per l’appunto Ed Wood.
Conosciuto come “Il peggior regista della Storia del Cinema”, il film di Tim Burton tratteggia con passione la figura del personaggio interpretato da Johnny Depp, donando al film un taglio realistico sia nel fotografare il folle cineasta sia l’altra faccia di Hollywood, quella dei sogni infranti.
Ed Wood è infatti un’opera che mediante il dietro le quinte della produzione dei film di Serie Z mostra l’amore viscerale che un regista ha nei confronti del Cinema, nonostante quest'ultima macchina d’immagini non lo abbia mai accolto tra le sue grazie.
Il sogno americano in Ed Wood si scontra contro un mondo spietato, dove i freak possono ottenere la propria gloria solo rivivendo nel meraviglioso bianco e nero del film di Tim Burton.
[Johnny Depp nei panni di Ed Wood]
Un’operazione simile a quella del regista di Edward mani di forbice è stata realizzata da James Franco nel 2017 con The Disaster Artist.
Protagonista del film è Tommy Wiseau (James Franco), aspirante cineasta con il sogno di diventare una star di Hollywood.
Complici una serie di rifiuti da parte dell'industria e la nascita dell'amicizia con l’attore Greg Sestero, Tommy Wiseau sceglie di produrre, scrivere e dirigere un proprio film: The Room.
The Disaster Artist è essenzialmente il dietro le quinte del “Quarto potere dei film brutti”, ma l’atmosfera da commedia che caratterizza il lungometraggio diretto da James Franco viene spesso pervasa da una profonda amarezza relativa alla rappresentazione spietata del mondo del Cinema hollywoodiano.
Sempre seguendo questo fil rouge Craig Brewer ha diretto Dolemite is my name, omaggio a Rudy Ray Moore e al Cinema blaxploitation.
Rudy Moore (Eddie Murphy) è un cantante e stand-up comedian che, dopo una serie di fallimenti personali, decide di autoprodurre una propria pellicola: Dolemite.
Attraverso la storia di uno dei personaggi chiave del Cinema blaxploitation, il film racconta un periodo fondamentale per la cultura black, che proprio attraverso l’ambizione folle di persone come Rudy Moore è riuscita a ritagliarsi uno spazio all’interno di un’industria che voleva solo storie afroamericane filtrate con lo sguardo degli uomini bianchi.
[Il trailer di Dolemite is my name]
Rudy Moore dirige perciò un film che cavalca l’onda degli stereotipi sulla popolazione afroamericana, utilizzando il Cinema di genere per realizzare pellicole in grado di parlare soprattutto al pubblico che viveva nelle periferie, che grazie al Cinema blaxploitation ha potuto vedere come protagonisti dei polizieschi o dei film d’azione anche attori neri.
Ed Wood, The Disaster Artist e Dolemite is my name sono film che rappresentano tre facce della stessa medaglia: quella degli outsider, di registi che nonostante i continui rifiuti hanno continuato ostinatamente a credere nel Cinema e al suo potere universale.
I tre esempi perciò non sono operazioni a scopo denigratorio nei confronti di queste figure, ma servono a mostrare un mondo diverso da quello a cui siamo abituati ad assistere, quello dei set costruiti con pochi fondi, con attori non professionisti e con delle maestranze incredule in merito alla pazzia dei registi con cui hanno a che fare.
Tre film che sovvertono il concetto classico di biopic e che mettono in discussione il Cinema come industria per esaltare invece il Cinema come forma d’arte libera da ogni costrutto sociale.
Finale a sorpresa - Official Competition da questo punto di vista sembra prendere una via di mezzo tra le due strade sopracitate, fondendo la critica nei confronti di certi tipi di artisti alla voglia di mostrare un ipotetico dietro le quinte, che nella sua follia sembra essere estremamente realistico.
[Oscar Martínez, Penélope Cruz e Antonio Banderas sono i protagonisti di Finale a sorpresa]
I contrasti tra i due attori (Antonio Banderas e Oscar Martínez) sono chiaramente modellati sulla figura degli stessi interpreti, così come Lola Cuevas è figlia di un modo di dirigere un film che appartiene - seppur attraverso una iperbole - a una determinata scuola di registi europei.
Quello che colpisce in Finale a sorpresa - Official Competition è come questo lungometraggio non risparmi nessuno, una sorta di matrioska metacinematografica che dissacra attraverso la commedia un mondo egocentrico come quello del Cinema, andando però oltre e colpendo anche noi spettatori, che forse nel mare di risate durante la visione un po' ci rispecchiamo nel comportamento di quel mondo così distante.
Sarà questo il finale a sopresa?
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