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Non è semplice parlare di America Latina, terzo lungometraggio dei fratelli D'Innocenzo presentato alla Mostra del Cinema di Venezia.
Non è semplice sia perché i fratelli hanno voluto mantenere il massimo riserbo sul progetto, non rilasciando interviste né trailer, sia perché il film si fonda su pochi, cruciali elementi.
Lo step successivo a Favolacce era parecchio atteso, a ragione, ma purtroppo le alte aspettative non risultano soddisfatte davvero in pieno: come dichiara il protagonista Elio Germano "non si pensa al risultato, ma si fa una ricerca", difatti la coppia si discosta con una certa apprezzabile decisione dalle due pellicole precedenti.
Si sperimenta perlopiù sul versante formale mentre la scrittura si rapprende, indebolendosi un poco, con un intreccio che diventa esilissimo visto il ridimensionamento della successione fattuale - che cede il passo all'astrazione - e vista la drastica riduzione del numero di personaggi.
Permangono alcuni punti fermi, come il contesto di provincia o la tendenza alla deformazione stilistica, ma muta in maniera radicale la prospettiva di fondo degli autori, e dunque quella dello spettatore.
Se in Favolacce i registi optavano per una coralità di stampo quasi sociologico, guardando alla piccola borghesia, ora è la suprema (e creatrice) individualità del solo personaggio protagonista, Massimo Sisti, a svettare.
Protagonista che diventa un vero borghese, un abbiente dentista di Latina che vive in una sorta di "primavera imperturbabile e calma", circondato com'è da una famiglia da Mulino Bianco - una moglie e due figlie angeliche - e cullato dalla sua imponente (e architettonicamente interessante) villa di campagna.
Come prevedibile, quest'esistenza in apparenza cristallina giunge presto a un punto di svolta, venendo turbata dall'imprevedibile, un imprevedibile celato nel luogo-simbolo della cantina e in grado di innescare il dipanarsi della vicenda.
La quasi totalità dei 90 minuti di film è difatti dedicata al documentare - mai termine fu più inappropriato - il progressivo e dilatatissimo delirio paranoico di Massimo, presentato allo spettatore sotto la forma di un "thriller psicologico" che però "ha in sé tanti generi".
Nel farlo, i D'Innocenzo in America Latina ricorrono a scelte stilistiche piuttosto ardite, coniugando suggestioni di genere e una sensibilità invece più affine al panorama autoriale contemporaneo, e incoronano Elio Germano come fulcro imprescindibile di ogni inquadratura: egli è (s)oggetto cardine dei molti primi e primissimi piani e, in definitiva, l'esito dell'opera dipende parecchio dalla sua credibilità e dallo stravolgimento estetico da lui generato.
In quest'ultimo senso agiscono la maggior parte dei reparti, dalla spesso invasiva fotografia di Paolo Carnera - che pare guardare al Luciano Tovoli di Suspiria - all'intrigante commento sonoro dei Verdena, passando ovviamente per la regia, con la coppia romana che sfrutta un ampio spettro di soluzioni visive, tra assonanze e dissonanze.
Sono numerosi gli interventi così marcati da risultare stranianti: spiccano in particolar modo alcune oggettive irreali (secondo la classificazione di Francesco Casetti e Federico Di Chio), mentre nel complesso si alternano con nettezza - ma senza schematicità - camera a mano, steady e cinepresa fissa.
In ogni momento, colpisce poi un ideale geometrismo sottostante, concretizzato anche sul versante dei contenuti alla luce di quella quasi paradossale condensazione narrativa capace di strappare la vicenda dal terreno del verosimile.
In tal senso il nodo fruitivo parrebbe allora risiedere (così sta accadendo in diversi casi) proprio nella spinta al categorizzare le immagini (!), al ricondurre questo o quell'altro frame nel dominio del reale o dell'irreale, secondo un meccanismo affine ad un certo Cinema di genere.
Per chi scrive ciò è sicuramente degno di un qualche interesse, e pure potenzialmente proficuo nel suo incentivare la dissezione dell'opera; tuttavia, un simile gioco rischia al contempo di limitare l'estensione del focus esegetico, specie considerando come nei casi summenzionati l'autentico tema-cardine di America Latina sia sovente ignorato.
Sono l'oscuro e antinomico titolo (per Germano "America è come noi vogliamo apparire, forti e vincenti, mentre Latina è […] la nostra palude") e la semplicissima locandina (che recita "È amore") a fornire dei vaghi indizi interpretativi, da non approfondire in questa sede.
In conclusione, la pellicola risulta essere - a mio avviso - tutto sommato riuscita, nonostante si possano muovere critiche sia alla concezione estetica complessiva (con un rapporto forma-contenuto da analizzare con maggior cura) sia alla sceneggiatura, tendente sì verso un polo astratto, ma al contempo segnata da alcune ingenuità (si veda la sfera extra-familiare) e segmenti quantomeno opinabili.
In ogni caso, non resta che fare un plauso a Damiano e Fabio D'Innocenzo, al loro coraggio e al loro lavoro di ricerca, nella speranza che sappiano preservare questo spirito, coltivandolo con maggior profitto.
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