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Qui rido io - Recensione: quando il teatro è vita, o la vita è teatro - Venezia 2021

Recensione dell'ultimo film di Mario Martone, da Venezia 78

Dopo due mezzi passi falsi, a undici anni dal capolavoro Noi credevamoMario Martone torna a splendere con Qui rido io, amalgamando gli ingredienti migliori del suo Cinema e sfruttando ancora un volta il passato, uno splendido passato, per riflettere sul presente.

 

Come nella pellicola del 2010 dedicata al Risorgimento, reinterpreta - qui in maniera minore - il rosselliniano concetto di televisione didattica, inserendolo però in quella sapiente commistione di linguaggi che ha attraversato gran parte della sua carriera.

 

In questo caso, nello specifico, sono Cinema, teatro e TV a interagire su diversi piani, con il secondo che essendo fondamentale perno contenutistico diviene anche, su tale versante, rappresentante di tutte le arti.

 

[Il trailer di Qui rido io]

 

 

Qui rido io si colloca in una (bella) epoca feconda - specie in relazione all'oggi - nella Napoli del primo Novecento immortalata anche dai Fratelli Lumière, per seguire le sorti di Eduardo Scarpetta, affermatissimo commediografo e attore in grado di scalzare Pulcinella dal trono del teatro partenopeo col suo Felice Sciosciammocca.

 

Posto che il teatro s'insinua per l'appunto in ogni piega della pellicola, anche (e soprattutto?) in senso lato, la fase iniziale di Qui rido io si avvicina più ai canoni di un'esposizione filmica da piccolo schermo, con Martone che apre alla grande con Miseria e nobiltà e prosegue descrivendo la "tribù" Scarpetta/De Filippo, quella famiglia allargata composta da moglie, prole legittima, amanti e prole illegittima.

 

Per qualche decina di minuti la grammatica visiva si avvicina - in alcune sequenze più di altre - al tradizionale modello televisivo, con la cinepresa che adotta una prospettiva naturalistica e il montaggio del fidato Jacopo Quadri che privilegia una sintassi convenzionale.

 

Così il regista ci immerge con facilità e rapidità nel vibrante mondo della scena teatrale di Napoli, nelle sfarzose abitazioni del "re del botteghino", nella complessa tela che unisce il clan e conduce sempre, volenti o nolenti, a Eduardo.

Concepisce l'opera, scritta con la moglie Ippolita di Majo e sostenuta da una documentazione approfondita, come un "testo teatrale", donando parecchia rilevanza all'intreccio, ai personaggi e ambientando la stragrande maggioranza delle scene in interni, tanto che concettualmente "le quinte non si distinguono dai tendaggi" di casa.

 

Martone, per quanto riguarda la messinscena, sembra poi anche tendere verso un leggero antinaturalismo, concretizzato non tanto sul piano recitativo - specie considerando come l'ontologia di Eduardo ne giustifichi la teatralità anche fuori dal palcoscenico - quanto più a livello di scenografie, costumi e fotografia.

 

Queste non puntano certo a squarciare la sospensione dell'incredulità, ma contribuiscono a creare una patina che spinge la dimensione privata del protagonista, sovente accompagnata da un profilmico opulento, verso quella pubblica e artistica, evitando di creare una partizione esagerata e consentendo a Toni Servillo di impersonare con esagerata - questa sì - bravura l'esuberante Eduardo.

 

Ad un certo punto alla dimensione pubblica del teatro si aggiunge quella del tribunale, visto che gran parte di Qui rido io si concentra sul (contorno del) processo intentato nel 1904 da Gabriele D'Annunzio nei confronti di Scarpetta, accusato di plagio: si tratta di una delle prime controversie legali italiane concernenti il tema della paternità artistica, il diritto d'autore, controversia inserita in una pellicola che preferisce sondare gli effetti da essa generati, e spesso legati alla paternità genitoriale.

 

A tal proposito Martone stupisce per la sua abilità nel conferire alla vicenda un respiro piuttosto corale, evitando uno one-man-show da parte di Servillo e contando su un supporting cast ricco di volti noti: non convince forse appieno la scrittura del personaggio del piccolo Eduardo De Filippo, ma nel complesso sono molte le figure dipinte con acume e funzionali non solo in quanto satelliti.

 

L'inizio del processo, con la prima apparizione del protagonista dinanzi al giudice, funge poi da turning point estetico, col regista che si allontana dai codici televisivi per gestire il filmico in chiave più cinematografica, per manifestare in misura maggiore la propria presenza autoriale.

 

Si complicano i movimenti di macchina, muta il ritmo narrativo, cambia tenore la composizione delle inquadrature: tutto concretizza all'unisono il lento sfilacciamento interiore di Eduardo, determinato dal profondo intrecciarsi - come detto segnalato anche dal profilmico - di sfera familiare e sfera artistica.

 

Nel film si riflette anche in chiave teorica, col coinvolgimento di intellettuali come Benedetto Croce, sui concetti e sui rapporti tra parodia e opera originale, e tra arte popolare e arte d'élite, con Martone che fissa inoltre - parlandoci - la comparsa di quei germi ideologico-morali che condurranno l'Italia verso il Ventennio, un'Italia rappresentata da una Napoli (quasi mai di sfondo) al contempo particolare e universale.

 

In definitiva, toccando un'ampia rosa di temi, Mario Martone confeziona pertanto un film di notevole spessore, candidandosi per un premio di livello e avvicinando Toni Servillo - straordinario nel far convivere comico e tragico - alla Coppa Volpi.           

 

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