#Cinerama
La connessione, nel segno del metacinema, tra La palla n°13 e La rosa purpurea del Cairo non è certo cosa inedita, come non lo è il legame tra questi due film e Luigi Pirandello.
Focus di questo articolo sarà dunque cercare di rendere più sistematica possibile l'analisi di queste correlazioni, sovente menzionate di sfuggita e mai affrontate con la giusta dovizia di particolari.
Per tenere fede alla vocazione prioritaria del sito, procederò analizzando le opere di Buster Keaton e Woody Allen, commentando solo a latere (senza che ciò infici il grado di approfondimento) la riflessione metateatrale, temporalmente precedente, dell'autore agrigentino.
Cominciamo dal capolavoro di Joseph Frank Keaton.
Il solo rievocare le circostanze della nascita del suo pseudonimo ci aiuta a comprendere meglio le origini di uno dei più grandi attori-registi della storia del Cinema.
Il soprannome Buster fu, difatti, coniato da Harry Houdini - un nome che non ha certo bisogno di presentazioni - habitué di casa Keaton per via della professione dei genitori di Joseph, attori di vaudeville.
Un simile contesto e una forte inclinazione personale determinano dunque la formazione del giovane comico, che esordisce davanti alla macchina da presa nel 1917 e passa anche alla regia quattro anni più tardi.
Proprio nel 1921, firma un cortometraggio fondamentale, diretto e sceneggiato assieme al fidato Eddie Cline.
Si tratta de Il teatro, nel quale, per l'appunto, riflette su un modo che ben conosce, sfruttando però un diverso linguaggio che ormai piega liberamente al proprio volere.
Come scrive Giorgio Cremonini, profondo conoscitore del comico, "Keaton dimostra [...] una grande padronanza del mezzo" cinematografico, e "il ruolo dominante dell'immagine rimbalza dall'esibizione tecnica alla struttura".
Certamente il nucleo della pellicola è composto da gag slapstick, da una trama esile e dall'impiego di "trucchi fotografici che non erano mai stati provati prima", come dichiarato dallo stesso autore, ma già s'insinua, sottotraccia, una chiara volontà di indagine nei confronti tanto del teatro quanto del Cinema.
[Un frame da Il teatro] palla n° 13 palla n° 13 palla n° 13
Occorreranno due anni purché tale tratto emerga nella sua piena maturità, giungendo senza equivoci nel campo del metacinema.
La palla n°13 (titolo originale Sherlock Jr.) è un film che riflette sui film, sui loro meccanismi - non solo tecnici - e sulle loro specificità.
È Cinema nel Cinema allo stato puro, purissimo, in una delle sue possibili modalità di formalizzazione (per approfondire, segnalo l'Enciclopedia del Cinema della Treccani).
Il canovaccio narrativo è di una semplicità disarmante: un proiezionista cinematografico (Keaton) viene accusato di furto da un uomo che mira a conquistare la donna corteggiata da entrambi.
Il primo, aspirante detective, non riesce a provare la sua innocenza, ma sarà scagionato dall'amata.
Tutto apparentemente lineare e scontato, se non fosse che a mancare all'appello è oltre la metà del minutaggio, per nulla rilevante ai fini della progressione concreta delle vicende.
Considerando la versione più corretta, da 18 fotogrammi al secondo, parliamo di ciò che è compreso all'incirca tra il ventunesimo e il cinquantasettesimo minuto.
Keaton ricorre infatti a una formula classica come quella del sogno, ma decide di dilatarla all'inverosimile e di non sfruttarla come molla per un improbabile plot twist conclusivo.
Il primo punto di svolta arriva al minuto 21, e dà il La a "una delle più lunghe spaccatura narrative del Cinema hollywoodiano", come l'ha definita Robert Knopf.
Il protagonista, deluso dopo essere stato ingiustamente incolpato, si trova nella sua cabina di proiezione, pronto a far partire Hearts & Pearls, un melodramma fittizio dal titolo che ricorda D.W. Griffith.
A film iniziato, però, si addormenta e inizia a sognare: il passaggio alla sfera onirica è segnalato incontrovertibilmente dalla doppia esposizione.
Il doppione immaginario esce dalla cabina e si dirige in sala, notando come gli attori della pellicola proiettata abbiano assunto fattezze familiari, come quella della donna amata o del perfido rivale.
Egli decide così, nell'indifferenza del pubblico (!), di entrare letteralmente nella vicenda oltrepassando quella quarta parete che, in una sala cinematografica, è un ostacolo anche fisico.
Sfruttando il montaggio (curato dallo stesso Keaton), lo schermo di proiezione lascia il posto a una riproduzione concreta degli interni delle inquadrature sullo schermo, con grande sforzo scenografico, fotografico e registico.
Grazie a misurazioni millimetriche, giocando con la prospettiva e col posizionamento della cinepresa, il Buster proiezionista penetra nel mondo della finzione.
[L'inizio del sogno] palla n° 13 palla n° 13 palla n° 13
Si apre così quella che, concettualmente, è la prima parte del lunghissimo sogno.
Keaton infatti orchestra una macro-sequenza surreale dalla portata rivoluzionaria, che si oppone diametralmente al tipo di comicità mostrata nel frangente iniziale.
Se in apertura venivano mostrati numeri slapstick triti e ritriti - paradigmatica è la scivolata sulla buccia di banana - ora rimane sì il prevalere di una comicità fisica, ma questa viene declinata in chiave assai singolare.
Nell'universo dello (pseudo) Hearts & Pearls, il proiezionista diviene difatti vittima del montaggio, letteralmente.
Egli si muove con continuità ma il contesto, specie dietro e sotto di lui, muta a intermittenza: tutti questi cambi d'ambientazione non sono diegeticamente giustificati, ma fungono solo da pretesti per inanellare una serie di scenette buffe.
Un effetto simile, come nel caso del travalicamento dello schermo, è stato realizzando servendosi di "diversi strumenti di misura" per far coincidere esattamente la posizione di Buster nei momenti dei vari stacchi, con un gusto che rimanda alle innovazioni di un altro padrone della tecnica, Georges Méliès.
Cremonini ha rimarcato il fatto che "la tecnica per Keaton non è solo la precisione millimetrica applicata a un gioco di imitazione", ma è anche "portatrice di un inganno, […] ovvero dell'essenza stessa del Cinema: lo spettacolo - come il sogno - è ingresso propriamente fisico [o meglio, psicofisico, n.d.r.] in un mondo costruito a imitazione del nostro, ingannevole...".
Intorno alla mezz'ora riprende il film fittizio, il film nel film, e ciò è facilmente decodificabile dal fatto che i personaggi/attori della cornice (la vita del proiezionista) sono ora tirati a lucido, agghindati a mo' di borghesucci da kammerspiel.
Assistiamo così a una sorta di parziale riproposizione delle vicende occorse in prima battuta: il cattivo - così chiameremo l'avversario del protagonista per distinguere i due livelli narrativi - ruba una collana di perle alla famiglia della donna (colei che, nel piano esterno, è l'oggetto della contesa amorosa).
Decidono pertanto di rivolgersi al miglior investigatore del mondo, Sherlock Jr., che corrisponde chiaramente a ciò che il proiezionista vorrebbe diventare.
Nemmeno nella navigazione onirica, però, riescono a concretizzarsi le speranze più audaci.
Una sequela di peripezie - tra cui quella che ha originato il titolo italiano - conferma infatti il cambiamento del solo contesto, da (pseudo)reale a smaccatamente irreale, non della personalità del protagonista.
Sherlock Jr. non è un abile detective, nemmeno in questa sua visione idealizzata e, nonostante alcuni buoni spunti, risolve la faccenda per puro caso.
Solo al termine della lunghissima sequenza della moto finisce per salvare inavvertitamente la donna, conducendo la vicenda fittizia alla sua lieta conclusione.
[Il superamento della quarta parete] palla n° 13
Più che per caso, però, è forse meglio dire che ad emergere è la sola estrinsecazione - nei nostri confronti - della strenua volontà dell'uomo che, nel mondo del sogno, genera una serie di incastri perfetti.
Incastri concretizzati, sul versante sia narrativo che visivo, da una capacità efficacemente riconosciuta dal critico Walter Kerr:
"…nel suo vertiginoso film-dentro-un-film [Keaton, n.d.r.] illustra i principi della continuità e del montaggio in maniera più […] precisa" dei "teorici del Cinema".
Il tutto è quindi gestito sfruttando non certo delle soluzioni stilisticamente d'avanguardia, ma un linguaggio ormai ben decifrabile dal grande pubblico, quello che Noël Burch avrebbe chiamato "Modo di Rappresentazione Istituzionale".
Si spiega così il pensiero di Robert Aron, che ha evidenziato la maggiore efficacia dello stile (filo)surrealista di Keaton - che approfondiremo brevemente in seguito - rispetto a surrealisti "ufficiali" come Man Ray e Luis Buñuel, proprio in virtù dell'adesione (formale) ai canoni del découpage classico.
Tale adesione appare però alterata, almeno in parte, da uno spiccato gusto per il geometrismo, per la precisione, tanto dal punto di vista diegetico quanto visuale.
Nel primo caso il riferimento è ad esempio alla suddetta concatenazione inesorabile degli eventi onirici, ma il discorso si può estendere anche a piccolezze come il corrispondere delle cifre in danaro utili a originare il fraintendimento iniziale.
Nel secondo caso, invece, è da sottolineare soprattutto la sinergia tra scelte scenografiche e composizione delle inquadrature, specie nelle scene d'interni.
Stazionando per la maggiore fra totali e figure intere, sfruttando non di rado la profondità di campo, optando per ambienti scarni e architettonicamente semplici (il che aumenta un certo tipo di resa prospettica), Keaton e collaboratori creano frame caratterizzati - per l'appunto - da un limpido geometrismo e da un velato senso di oppressione.
Il critico Goffredo Fofi ha colto lucidamente il senso, e gli esiti, di queste scelte, segnalando come alla "irrazionalità del mondo Keaton reagisce con la razionalità dello stile".
[Dettaglio scenografico] palla n° 13 palla n° 13
Arrivati al minuto 57, infine, ritorniamo nella cornice: il proiezionista finalmente si sveglia e vede arrivare in cabina di proiezione la donna, pronta a scusarsi per il malinteso.
Impacciato come ogni personaggio di Keaton che si rispetti, egli trova aiuto sbirciando verso lo schermo, verso quell'Hearts & Pearls ormai ripristinatosi.
Imitando movenze e atteggiamenti del protagonista del film riesce a comportarsi finalmente in maniera romantica e - si badi bene - nel segno di un romanticismo scolpito da migliaia e migliaia di metri di pellicole hollywoodiane.
Questo valore sentimentale è però assottigliato proprio dal meccanismo speculare, che sì sortisce effetti comici, ma che rende possibile che un osservatore tendenzialmente ipercritico come Buñuel - si veda il suo commento su Metropolis - arrivi a lodare Keaton come "grande specialista contro ogni genere di infezioni sentimentali".
In merito all'ultima sequenza, è poi doveroso citare una scelta formale davvero peculiare, il ricorso al surcadrage (o frame nel frame), una delle intuizioni sicuramente più "meta" dal punto di vista concettuale.
Il continuo sbirciare e imitare del proiezionista è risolto dall'alternanza di campi e controcampi: prima si mostra ciò che accade a schermo, poi la reazione di Keaton che agisce di conseguenza.
Tale reazione è letteralmente incorniciata dalla sagoma della finestrella della cabina di proiezione che, inquadrata in modo rigidamente frontale, rende esplicito il legame tra realtà (del protagonista) e finzione (di Hearts & Pearls), che per noi sono però pur sempre finzione e finzione, al massimo di primo e secondo livello.
Questi istanti conclusivi sono, infatti, anche quelli che forse mostrano di più un legame tematico diretto con Pirandello.
[Il surcadrage, che nel film non è parziale] palla n° 13
Già René Clair, a ridosso dell'uscita (contemporanea a quella del suo dadaista Entr'acte), aveva paragonato l'opera "a ciò che furono per il teatro i Sei personaggi in cerca d'autore", ma Giorgio Cremonini rileva una differenza fondamentale, probabilmente nota anche al cineasta e critico francese.
Ne La palla n°13 "non ci sono sottolineature o compiacimenti metalinguistici", perché "Keaton non è un intellettuale; la sua non è mai una poetica dichiarata, […] è piuttosto una pragmatica, che si giustifica […] attraverso il semplice, evidente intreccio narrativo fra storia e gag".
E "il racconto è perfettamente simmetrico […] e narrativamente inesorabile", smorzando così le suggestioni relative a un eventuale accostamento di Keaton al Surrealismo, o almeno a una sua corrente interna più portata a esprimere l'inconscio in maniera poco mediata.
Penso, ad esempio, in campo pittorico, ad alcune tele di Max Ernst - e non di René Magritte o Salvador Dalì, come ha riconosciuto anche Robert Benayoun - tenendo pure presente come Keaton sia sempre rimasto lontano dall'estremismo delle (primissime) esperienze cinematografiche del movimento.
Tornando a Pirandello, diversi sono i collegamenti tracciabili, e potrebbero potenzialmente riguardare tanto la produzione letteraria quanto quella drammaturgica.
Se i temi principali affrontati negli scritti sono però tutto sommato noti, meno celebre è l'effettivo contenuto delle pièce scritte e messe in scena dal premio Nobel.
Rivolgeremo dunque il nostro sguardo alla terza delle sue cinque fasi teatrali, anche considerando come un romanzo specificatamente interessato alla Settima Arte - tanto da divenir centrale per gli studi di Walter Benjamin sulla riproducibilità tecnica - come il Si gira… del 1916 (poi ripubblicato nel 1925 come Quaderni di Serafino Gubbio operatore) si leghi indissolubilmente a Il cameraman, del 1928.
Dopo le fasi del teatro dialettale (in siciliano) e del teatro borghese (in italiano), Pirandello decide di scrivere un "dramma da farsi", Sei personaggi in cerca d'autore, per indagare su una serie di punti critici: tra gli altri, il rapporto autore-personaggio, quello testo-messinscena e quello attore-personaggio.
Questi, ovviamente, non sono analizzati in maniera così sistematica e teorica da Keaton, ma giacciono quatti dietro molte delle soluzioni permesse dal pretesto onirico, anche considerando il diverso intento delle opere.
[Un frame da Il cameraman] palla n° 13 palla n° 13
La prima rappresentazione del 1921 è un fiasco sia di pubblico che di critica e, anche grazie alle intuizioni del regista Georges Pitoëff, si arriverà alla versione definitiva solo quattro anni più tardi, nella quale è introdotta ad esempio la rottura della quarta parete.
Il discorso metateatrale prosegue poi in Ciascuno a suo modo, definita dai contemporanei la "più indiavolata commedia di Pirandello", che affronta di petto questioni più eminentemente filosofiche, servendosi di uno sperimentalismo (non solo tecnico) vicino al Futurismo, che puntava al superamento sia della fruizione passiva che degli stessi limiti concreti dell'edificio teatrale.
Fondamentale, per il nostro discorso, è il secondo intermezzo.
Qui degli spettatori fittizi (quindi interpretati da attori) riflettono sul complesso schema narrativo della rappresentazione, organizzata su tre livelli.
Un primo spettatore, "ingenuo", dice che - banalmente - l'arte imita la vita.
Considerando il mondo cinematografico, e tenendo sempre presente quanto detto su La palla n°13, si potrebbe dire che ad ispirarsi alla vita, ripulendola, idealizzandola e rendendola facilmente leggibile, sia il Cinema hollywoodiano classico, sintetizzato in Hearts & Pearls.
Un secondo spettatore, stavolta "intelligente", sostiene il contrario, come l'arte riesca a prevedere la vita, o, riformulando, come sia la vita a imitare l'arte.
La veridicità di tale affermazione, in riferimento al film di Keaton, specie ai suoi minuti conclusivi, è evidente, e Franco La Polla ne ha intuito le sfumature più profonde.
Per lui, infatti:
"Il Cinema è la follia dove tutto è attuabile, […] laddove la realtà diventa di necessità squallidamente univoca.
Nessuna meraviglia, allora, che, parafrasando Wilde, la realtà imiti il Cinema".
[Luigi Pirandello] palla n° 13 palla n° 13 palla n° 13
Pirandello nella pièce rilancia ulteriormente, parlando per bocca di uno pseudo-alter-ego - il raisonneur - che sancisce il culmine dell'accartocciamento della sua riflessione filosofica.
Per lui, che riesce a carpire la connessione tra i livelli della commedia, è semplicemente (?) l'arte a imitare l'arte.
Ritrovare il significato profondo di un'affermazione di tale portata ne La palla n°13 è complesso, anche perché Keaton non è (e non si pone come) un intellettuale.
Può però, nelle pieghe di quella che rimane una pellicola comica, celarsi un potenziale indizio.
Potrebbe essere indicativo il fatto che nessuno dei personaggi principali sia identificato da un nome, a eccezione di quel fintissimo Sherlock Jr. preso in prestito da Arthur Conan Doyle.
Si tratta dunque di figure nominalmente (e non solo) archetipiche, che potremmo definire il Protagonista (il proiezionista), il Cattivo (il rivale in amore) e l'Amata, oltre a personaggi di contorno come il padre della donna o l'Aiutante del Cattivo.
Tali figure permangono in entrambi i livelli diegetici: chiaramente quello fittizio palesa più volte la propria irrealtà, ma l'ontologia dei personaggi non cambia di molto, nemmeno nel caso del miglior investigatore del mondo.
Non si percepisce una frattura netta in tal senso, anzi, e ciò potrebbe essere interpretato come il segno di una continuità che cambia i connotati più della parte "reale" che di quella "fittizia".
All'insegna dell'idealizzazione del Cinema, non dissimile dall'idealizzazione del sogno, si istituirebbe così - nell'ottica di questa interpretazione fantasiosa (e/o errata) - un nesso speculare tra arte e arte, non più vita.
[Luigi Pirandello a teatro] palla n° 13 palla n° 13
Come scrive Morando Morandini il film "anticipa di 60 anni La rosa purpurea del Cairo".
Già, perché nel 1985 Woody Allen scrive e dirige una pellicola dal concept di fondo piuttosto simile, che però declina nel segno di uno humor diverso, sia per tecnica che per intenti.
La fisicità di Buster Keaton, mai particolarmente amato dal cineasta newyorkese, lascia spazio alla comicità verbosa e pungente successiva alla fase iniziale proprio slapstick (in cui, per la cronaca, guardava ai fratelli Marx e a Charlie Chaplin).
Siamo negli anni '30, negli Stati Uniti disastrati dalla Grande Depressione, più precisamente nel New Jersey di provincia: è un periodo storico in cui, come in pochi altri casi, il Cinema ha assunto, anche per motivazioni geografiche, una funzione sociale di primissimo piano.
Come Cecilia, interpretata da una delicatissima Mia Farrow, migliaia e migliaia di americani trovano conforto nelle sale, al riparo dai problemi terreni, immergendosi nella celluloide.
Il Cinema di Hollywood, tipicamente consolatorio e lineare, è il narcotico più efficace e a buon mercato, e riesce a generare vere e proprie dipendenze, come accade alla protagonista, che vede gli stessi film a ripetizione.
Allen è abile nella costruzione del contesto, cala lo spettatore in una realtà difficile sfruttando sia il comparto tecnico che la scrittura, evitando tediosi didascalismi e dosando alla perfezione la stilizzazione di personaggi (come il marito di Cecilia) e situazioni narrative di contorno.
Sul lato del profilmico, scenografie e costumi corrispondono talmente tanto a un'ideale iconografia della Grande Depressione da risultare quasi posticci, e in maniera simile, per il filmico, lavora Gordon Willis, la cui fotografia predilige toni smorti e tendenti al beige.
La regia, poi, è dimessa, invisibile, e pare voler ricalcare gli stilemi di quel découpage classico che la fa da padrone anche ne La rosa purpurea del Cairo, il titolo della pellicola a cui Cecilia assiste incessantemente.
Nota a margine: per non creare confusione tra il titolo del film di Allen e il titolo del film nel film di Allen, userò nel secondo caso il termine La rosa purpurea del Cairo II.
[La sala frequentata da Cecilia] palla n° 13 palla n° 13
Proseguendo, il nodo diegetico principale concettualmente opposto a quello de La palla n°13 riguarda proprio questo La rosa purpurea del Cairo II (che possiamo considerare una sorta di Hearts & Pearls II).
A un certo punto, infatti, l'impavido archeologo Tom Baxter esce dallo schermo: si tratta di un personaggio impersonato, nel livello della realtà di Cecilia, dall'astro nascente della recitazione Gil Shepherd, e in entrambi i casi il volto è quello di Jeff Daniels.
Baxter squarcia, non letteralmente, la quarta parete proprio poiché colpito dalla costanza di Cecilia, giunta alla quinta visione del film e infatuata di lui.
Questo bizzarro avvenimento dà poi il via a tre diverse linee evolutive, che coesistono in due binari narrativi e talvolta si sfiorano.
Il primo binario narrativo riguarda il rapporto tra la protagonista e Tom Baxter, il secondo quello tra la donna e Gil Sheperd, fiondatosi in New Jersey per cercare di risolvere la questione.
Le tre linee evolutive sono invece le seguenti, e sono qui presentate in un preciso ordine: sentimentale, satirica, metacinematografica.
Quella meno interessante è senza dubbio la prima, che funge da livello basico di fruizione, e che va letta anche alla luce dell'interesse di Allen nel creare una sorta di calibrata variazione sul tema rispetto ai modelli del Cinema classico (rappresentati da La rosa purpurea del Cairo II).
La seconda linea, poi, si avvicina spesso a quella amorosa proprio in quanto, in alcuni momenti, le variazioni sul tema sono concretizzate grazie a soluzioni chiaramente comico-satiriche.
Lo sguardo tagliente dell'autore - non a caso candidato all'Oscar per la Migliore Sceneggiatura Originale e vincitore di Golden Globe e BAFTA - investe infatti, principalmente, il mondo dello spettacolo (hollywoodiano).
A situazioni innocue come quella in cui Tom aspetta una dissolvenza dopo aver baciato Cecilia, se ne aggiungono altre più intelligenti e/o caustiche, espresse ora per bocca di qualche spettatore ("la mia signora ci vuole la trama!"), ora dall'archeologo-avventuriero, ora dal comportamento superbo di Gil.
Si attaccano così, più o meno amichevolmente, diversi meccanismi tipici della finzione cinematografica: un altro simpatico esempio sono le parole di Baxter che, dopo una colluttazione, rivela come ferirsi, sanguinare e spettinarsi siano tratti estranei alla sua essenza fittizia.
Il sarcasmo di Allen lambisce però anche argomenti più profondi, a partire da quel Tom che, interrogato in merito al concetto di Dio (Ingmar, sei tu?), risponde che i suoi creatori sono letteralmente gli sceneggiatori de La rosa purpurea del Cairo II.
[Tom evade dallo schermo] palla n° 13
Ma passiamo ora alla terza linea evolutiva, quella metacinematografica, quella che più ci interessa, in virtù del suo legame con Keaton e Pirandello.
Anche adesso, nel caso del drammaturgo, i riferimenti diretti sono Sei personaggi in cerca d'autore e Ciascuno a suo modo.
Per il primo dramma le connessioni riguardano soprattutto i rapporti autore-personaggio e attore-personaggio, mentre dal secondo sono riprese una maggiore attenzione per lo spettatore e la dialettica vita-arte (declinabile nelle tre maniere dette).
Vediamo di mostrare qualche esempio concreto e di approfondire.
La tematica meno approfondita è certamente quella attore-personaggio e, in una certa misura, anche quella autore-personaggio, anche se è bene rilevare come Tom sia perfettamente consapevole sia dei meccanismi del Cinema sia della sua natura finzionale ("è scritto nel mio personaggio") e che quindi, oltrepassando la soglia dello schermo, compia un'azione cosciente.
Così facendo, egli rivendica la propria autonomia, rifiutando il volere dei propri creatori ma non potendo comunque rinnegare l'ontologia da loro attribuitagli.
In tal senso, il pensiero corre dritto ai Sei personaggi in cerca d'autore, alle profetiche parole del Padre: "…si nasce anche personaggi".
Personaggi "più vivi di quelli che respirano e vestono panni. Meno reali, forse, ma più veri!".
Ben più sviscerata è invece la relazione vita-arte, o realtà-finzione, che coinvolge direttamente anche la figura dello spettatore, incarnata da Cecilia.
Come ha sottolineato Francesca Scaccabarozzi, autrice di un acuto saggio sul film, "il rapporto privilegiato che si instaura tra Tom e la donna simboleggia il processo di osmosi e di reciproca contaminazione" e, aggiungerei, di reciproca tensione "tra vita e Cinema".
Il discorso è esplicitato direttamente nella pellicola, in cui si dice come "la gente vera vuol vivere nella fantasia, e quella inventata vuol vivere nella realtà".
Se è facile intuire perché per la protagonista la sala sia un porto sicuro, lo stesso non si può dire per Tom Baxter, che pensa a "come quasi magico appaia il modo reale se contrapposto al mondo di celluloide e delle ombre parlanti".
Molti altri personaggi, nel dipanarsi della trama, fanno intuire l'assoluta centralità di tale riflessione, che però non sposa un punto di vista banale (almeno in sé e per sé) come potrebbe essere l'opposizione binaria tra realtà e finzione.
Scaccabarozzi insiste su questo avvicinamento speculare, notando, ad esempio, che "i personaggi veri […] danno mostra di sentimenti falsi, mentre i personaggi di fantasia […] provano dei sentimenti veri".
[Tom e Cecilia] palla n° 13 palla n° 13 palla n° 13
Si potrebbe però riflettere, di nuovo, sul trittico di opzioni presentate nel secondo intermezzo di Ciascuno a suo modo.
Come nel caso di Keaton potrebbe sembrare adatta (oppure onnicomprensiva) la seconda interpretazione, quella secondo cui sarebbe la vita a imitare l'arte.
Ma, ancora, possiamo provare ad indagare ottenendo - spoiler - lo stesso risultato ipotetico.
In primo luogo può fungere da spia la semplice equivalenza tra titolo del film e titolo del film fittizio, ma è pur vero che si tratta di un fatto probabilmente motivato in altra maniera.
Riprendiamo allora due delle prime osservazioni che ho scritto sul film, quando evidenziavo sia una certa stilizzazione nella scrittura (anche dialogica) sia una resa visiva abbastanza posticcia.
Il tutto senza dimenticare la natura fantastica, a differenza de La palla n°13, del principale turning point.
In tal senso il livello della realtà non sembra pertanto così reale, e traspare una leggera volontà di svelamento della finzione, che avvicina film e film nel film.
E quindi arte e arte, almeno fino alla conclusione, che sembra risolvere il dilemma.
A un certo punto, infatti, Cecilia si ritrova a dover scegliere tra Tom e Gil, e opta per il secondo proprio in virtù della natura finzionale del primo, visto che nel suo mondo "le cose sono fatte in modo che vanno sempre a finir bene".
In cuor suo, però, anche la protagonista si mostra ottimista in merito al proprio futuro, convinta com'è di partire alla volta di Hollywood insieme all'attore.
L'effettiva realizzazione di tali speranze sarebbe stata un punto di grande interesse, che avrebbe potuto sembrare apparentemente scontato e consolatorio, ma che avrebbe capitalmente rinsaldato la specularità tra livello cornice e livello interno.
Allen decide però di rifiutare nettamente il lieto fine, facendo sparire Gil e lasciando frustrate le rosee aspettative della donna, sbattendoci in faccia la non-corrispondenza tra vita e arte.
Così, nelle battute terminali, Cecilia - segnata da queste intemperie sentimentali - torna a rifugiarsi nel suo porto sicuro, pronta per vedere Fred Astaire e Ginger Rogers in Cappello a cilindro, e pronta, magari, ad accogliere un altro personaggio in fuga.
[Cecilia nel suo habitat] palla n° 13 palla n° 13
Per i ringraziamenti della rubrica, stavolta la questione è più complessa del solito: l'opzione che ha vinto il sondaggio è stata proposta da Andrea Mauri, ed era relativa alla presenza della sala cinematografica nel Cinema.
Ho selezionato dunque due film in cui la sala è fulcro sia narrativo che visivo, ma la mia analisi non ha approfondito quell'aspetto - difficilmente considerabile di per sé, a meno di procedere in modo elencatorio - virando piuttosto verso lo studio delle implicazioni scaturite da eventi accaduti nei cinema.
Pertanto il vero focus dell'articolo si è avvicinato (in modo inizialmente non previsto) alle idee di Alessandro Collina e midori.jpg, entrambe concernenti il metacinema, con la seconda specificatamente rivolta al genere comico.
Chiedo quindi venia per non aver rispettato appieno le indicazioni stabilite e mi impegnerò affinché ciò non si ripeta nel prossimo numero, il cui argomento è scelto da voi nel sondaggio che si svolge mensilmente sul gruppo Facebook Cinefactsers!.
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Cinerama Out.