#Perlacronaca
Gli Uomini d'oro è il secondo lungometraggio di Vincenzo Alfieri, regista salernitano di nascita e romano di adozione che ha esordito dietro la macchina da presa nel 2017 con I peggiori, film di cui era anche protagonista.
Il cineasta, che ha curato la sceneggiatura insieme con Renato Sannio, Giuseppe Stasi e Alessandro Aronadio, ha trasposto sul grande schermo un celebre fatto di cronaca che sconvolse la città di Torino e di cui parlerò in maniera approfondita successivamente.
Il suo, però, non è il primo film ispirato a quell'episodio di cronaca nera.
Nel 2000 fu Gianluca Maria Tavarelli a portare sul grande schermo la storia dell'improvvisata banda di rapinatori, tra cui compariva anche Fabrizio Gifuni, con Qui non è il paradiso.
[Una scena di Qui non è il paradiso di Gianluca Maria Tavarelli]
La narrazione scelta da Alfieri per Gli Uomini d'oro, film in sala dal 7 novembre, è quella a capitoli.
Il regista decide di raccontare la storia attraverso tre punti di vista: quello del "Playboy" (Giampaolo Morelli), del "Cacciatore" (Fabio De Luigi in un'inedita - e convincente - versione 'cattiva') e del "Lupo" (Edoardo Leo).
[Trailer de Gli Uomini d'oro]
Siamo a fine 1995, quando Luigi Meroni (il Playboy), stufo della vita da autista delle Poste, comincia a pensare ad un colpo che potrebbe cambiargli la vita consentendogli di trasferirsi definitivamente nell'angolo di paradiso sempre sognato, il Costarica.
Per farlo coinvolge il collega Alvise Zago (il Cacciatore), uomo scontroso e taciturno, padre di famiglia, attratto fatalmente dal dio denaro.
Uno è autista del blindato che ogni giorno raccoglie i sacchi delle Poste pieni di miliardi di lire, tra contanti e assegni, l'altro è lo "scambista", quello cioè che preleva fisicamente i sacchi dagli uffici postali e li trasferisce sul furgone.
[Fabio De Luigi "il Cacciatore" e Giampaolo Morelli "il Playboy"]
Per completare il colpo serve l'aiuto di un terzo complice, l'ex postino in pensione Luciano Bodini (Giuseppe Ragone).
Sarà lui a nascondersi nella cassaforte all'interno del furgone e a scambiare i sacchi postali con quelli finti precedentemente preparati con carta straccia e ritagli di riviste calcistiche.
A completare la banda c'è il Lupo, un ex pugile con conoscenze poco raccomandabili che consentono però agli autori del colpo del secolo di avere un passaporto tutto nuovo ed espatriare senza problemi.
A procurarglieli sarà Boutique (Gianmarco Tognazzi), sarto-strozzino con agganci con la criminalità organizzata.
[Edoardo Leo "il Lupo" e Gianmarco Tognazzi "Boutique"]
La vicenda a cui si ispira il film risale al 1996.
Siamo a Torino e Giuliano Guerzoni, 36enne dipendente delle Poste, è il classico sciupafemmine di provincia con la passione per la poesia.
Di giorno autista delle Poste, di notte viveur nei locali dell'hinterland torinese. Una passione per la bella vita che lo porterà ad organizzare quello che in molti definirono il "colpo del secolo".
Con il sogno del Costarica aveva messo a dura prova la pazienza di numerosi colleghi.
Uno di loro, addirittura, chiese di essere trasferito per non essere più in contatto con Guerzoni, che già da tempo stava cercando complici per il colpo.
Lo "scambista" con cui ogni giorno faceva il giro degli uffici postali si chiamava Domenico Cante, un uomo benestante, con un doppio lavoro (aveva anche una ditta di impianti elettrici), una famiglia e pochi grilli per la testa.
Guerzoni riuscì a convincerlo, assicurandogli un alibi che gli avrebbe consentito di continuare la sua vita senza fuggire da nessuna parte.
Il terzo membro della banda, quello addetto allo scambio dei sacchi all'interno della cassaforte del blindato, si chiamava Enrico Ughini.
Baby pensionato e collega di scorribande notturne di Guerzoni, non fu difficile da convincere.
L'ultima persona coinvolta nella rapina era Ivan Cella, il tramite con la malavita albanese che avrebbe procurato a Guerzoni e Ughini i passaporti per espatriare.
Cella era anche amico di lunga data e socio in affari di Cante (gestivano un pub).
Il colpo, provato diverse volte, viene messo a segno solo il 26 giugno, giorno vicino alla scadenza per il pagamento dell'Ici.
Guerzoni preleva il blindato da Corso Tazzoli per raggiungere via Nizza, dove comincia e finisce il giro.
Nel tragitto, lontano da occhi indiscreti, fa salire sul mezzo Ughini che si nasconde nella cassaforte. A via Nizza sale anche Cante e può cominciare il viaggio verso i dieci uffici postali in programma, scortati da una volante della polizia e un'altra auto civetta con agenti in borghese
Ad ogni ufficio la scena è sempre la stessa: Cante scende dal furgone, entra nell'ufficio, ritira i pacchi e li deposita nel blindato.
Tra una fermata e l'altra Ughini sostituisce i pacchi pieni di denaro con quelli già preparati (all'interno avevano messo ritagli di Topolino) senza che nessuno potesse accorgersi di nulla.
Rientrati a via Nizza, Cante scarica tutti i sacchi (quelli finti) e li deposita nell'ufficio dove saranno aperti soltanto il giorno successivo, come disposto in una recente circolare per evitare quelli che venivano considerati inutili pagamenti degli straordinari.
Guerzoni si rimette al volante in direzione del parcheggio.
Nel tragitto scarica Ughini e i sacchi pieni di soldi.
Un colpo apparentemente senza spargimento di sangue, senza vittime e, apparentemente, senza conseguenze.
Da questo momento scatta l'allarme spoiler: nel caso non abbiate visto il film andate avanti a vostro rischio e pericolo.
Apparentemente, infatti.
La sera stessa del colpo, i quattro - Guerzoni, Ughini, Cante e Cella - si ritrovano sul camper di proprietà di Cante, mangiano un piatto di fagioli e si mettono d'accordo sulla spartizione del malloppo che, per l'esattezza, era di 2 miliardi e 52 milioni di lire in contanti.
Gli altri (quasi 6 miliardi), in assegni, erano difficilmente esigibili.
Qui, però, le cose vanno diversamente.
Cante e Cella, probabilmente per bramosia, estraggono una pistola e fanno fuoco uccidendo Guerzoni e Ughini.
Coprono i due cadaveri con una coperta ed un plaid e li scaricano in una fossa che avevano precedentemente preparato.
Le indagini delle forze dell'ordine scattano il 27 giugno, quando gli uffici di via Nizza si rendono conto che all'interno dei sacchi non ci sono soldi ma solo carta straccia e resti della busta paga di uno dei dipendenti, proprio Giuliano Guerzoni.
E non era stata dimenticata lì, ma lasciata appositamente come firma del colpo.
Così come lo era la sveglia che Guerzoni aveva inchiodato al muro con un coltello nella sua abitazione a Strevi, in provincia di Alessandria.
Gli investigatori non sanno ancora però che dovranno indagare non solo sulla rapina ma anche su un duplice omicidio.
Cosa che si fa chiara il 13 luglio quando un passante avverte i carabinieri di una "fossa strana", dove i militari troveranno i cadaveri di Guerzoni e Ughini, di cui si erano perse le tracce e che tutti pensavano ormai fossero su una spiaggia bianca in Sudamerica a godersi i miliardi del bottino.
Le indagini si dirigono immediatamente su Cante.
Non solo aveva lavorato l'ultimo giorno al fianco di Guerzoni, ma era anche il proprietario della casa non molto distante da dove furono ritrovati i cadaveri dei due postini.
L'uomo negò le accuse in tutti gli interrogatori.
"Non so niente né del colpo né degli omicidi", ripetè più e più volte.
Sarà la moglie Gabriella Regis a incastrarlo, quando ammise che i plaid con cui erano avvolti i cadaveri si trovavano proprio sul camper.
Una delle tante prove che misero alle strette l'uomo, che - ormai in un angolo - ammise a sorpresa le sue responsabilità durante un'udienza del processo.
Ricoverato più volte per problemi cardiaci, morì a 48 anni nel carcere delle Vallette, dove stava scontando una condanna a 28 anni.
Ad Ivan Cella gli investigatori arrivano attraverso un numero di telefono trovato all'interno delle tasche dei cadaveri.
Guerzoni e Ughini, infatti, dovevano chiamarlo per farsi lasciare i passaporti falsi per l'espatrio.
Al termine di uno dei tanti intrrogatori, però, Cella decise di lasciare l'Italia insieme con la compagna, Cristina Quaglia.
I due furono arrestati in Albania, a dicembre 1996, ma riuscirono ad evadere in seguito alla guerra civile che devastò il Paese.
La loro latitanza finì il 22 agosto del 1997 a Cochabamba, in Bolivia.
Anche Ivan Cella, messo alle strette dalle prove, ammise le sue responsabilità durante il processo e fu condannato a 28 anni e 8 mesi di reclusione.
Nei primi mesi del 2018 è uscito dal carcere di Fossano dove ha goduto dello sconto della pena per buona condotta.
La compagna, invece, venne condannata a 2 anni (con la sospensione della pena e la non menzione della condanna nel certificato penale) per favoreggiamento.
Di seguito l'intervista al regista Vincenzo Alfieri