#LineeD'Azione
Sebbene il compito della Storia sia volgere lo sguardo agli eventi dandone una descrizione oggettiva, l’Arte può dal canto suo gettare luce sugli stessi attraverso una prospettiva meno distaccata, più empatica e, soprattutto, personale.
Con Manodopera, il regista Alain Ughetto sceglie di raccontare delle realtà piccole e invisibili e le storie di chi è scappato dall’Italia disastrata e pessimisma del regime fascista.
[Il trailer di Manodopera]
Da dov’è meglio partire se non dalle proprie origini?
Grazie alla tecnica della stop-motion, Alain Ughetto parla tramite la sua nonna francese Cesira - qui sotto forma di pupazzo, come tutti gli altri personaggi - rielaborando conversazioni e nozioni che ha appreso facendo ricerca, riscoprendo così il villaggio piemontese di Ughettera, dove nei primi anni del ‘900 vivevano giovani italiani alla ricerca di lavoro verso e oltre il confine francese.
Cesira (doppiata da Ariane Ascaride) racconta tutta la sua vita: il primo incontro con Luigi (Stefano Pagani), il nonno italiano del regista, le difficoltà del vivere in Italia e il conseguente bisogno di andarsene, fino ad arrivare alla fine dei suoi giorni.
In Manodopera la storia d’amore di Luigi e Cesira fa da sfondo all’intera pellicola e, pian piano, altri temi del film si presentano in un crescendo, facendosi sempre più intensi mantenendo, però, la delicatezza del racconto: tra nefandezze e dolore, dove persino la morte reclama il suo spazio, i due protagonisti non si arrendono, restano solidi e positivi, nella speranza di un futuro migliore per i propri figli.
Dopo aver attraversato i dolori della guerra, Luigi decide di trasferirsi con la numerosa famiglia in Francia - dopo un vano tentativo di raggiungere gli Stati Uniti - ma lì gli italiani non sono apprezzati.
“Interdit aux chiens et aux Italiens” (tradotto letteralmente “Vietato ai cani e agli italiani”), oltre a essere il titolo originale della pellicola, è anche il cartello che veniva esposto durante la guerra, in particolar modo su bistrot francesi e svizzeri, per mettere in chiaro chi non fosse benvenuto.
L’emigrazione, prima come adesso, rappresentava dunque motivo di esclusione, di derisione, di giudizio.
Nonostante ciò gli italiani cercavano di crearsi un proprio spazio, fungendo da manodopera per i lavori più complessi; a loro, difatti, erano affidati alcuni compiti faticosi, pericolosi e strazianti, in condizioni non sicure.
[Una scena di Manodopera]
Nella narrazione che crea Alain Ughetto tutto sembra pressocché tangibile; da qui, il desiderio di “toccare con mano” il passato si fa letterale.
Il corpo, le mani, i piedi e l’intera sua figura si inseriscono a intermittenza tra scene al contempo immaginarie e realistiche, per sostenere e non abbandonare i pupazzi/persone e dare loro aiuto nel momento del bisogno, portando di conseguenza a una presa di coscienza (quasi fisica) delle sue origini e dell’amore spirituale che prova per esso, compresi quei famigliari che non ha mai conosciuto.
Questo senso di tangibilità, in realtà, è chiaro già nelle intenzioni iniziali di Manodopera, ovvero nella volontà di scegliere proprio la stop-motion per la realizzazione del film - che ha portato a ben sette anni di lavorazione! - quel mezzo attraverso cui l’unico modo per generare il movimento è effettivamente toccare concretamente i soggetti e la scenografia, formati dai più disparati materiali: non solo plastilina e stoffa ma anche terra, paglia, broccoli e… zollette di zucchero!
Accompagnato dalle musiche di Nicola Piovani, Manodopera mostra in poco più di un’ora un’incantevole storia che appartiene all’Italia e alla Francia, ma che può abbracciare poeticamente il mondo intero, ricordandoci che dovremmo essere più umani.
Perché, in realtà, siamo tutti lo straniero di qualcun altro.
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