Dei film finora visti di Wes Anderson, per me “The Darjeeling Limited” è stato quello più ostico da comprendere. E lo è perché lascia perplessi a fine visione, senza avermi chiarito sin da...
Dei film finora visti di Wes Anderson, per me “The Darjeeling Limited” è stato quello più ostico da comprendere. E lo è perché lascia perplessi a fine visione, senza avermi chiarito sin da subito se avessi apprezzato o meno la pellicola.
Valutando la cronologia filmografica del regista, identifico in questo film “un punto di passaggio”: il film stesso diventa simbolo di un viaggio, non solo meramente fisico, che si rispecchia tanto nei protagonisti quanto in Anderson stesso.
Il fine di questo viaggio è quello di ritrovarsi, di riscoprirsi, e di accettarsi.
È questo che mi ha permesso di apprezzare al meglio la pellicola: da “The Darjeeling Limited” esce fuori un regista che si evolverà, si trasformerà, per certi versi si “perfezionerà” nel suo stile peculiare che l’ha già abbondantemente contraddistinto.
Ancora una volta la trama trova il perno della narrazione nella famiglia, nei legami di sangue tanto cari alla filmografia di Anderson, mandando avanti una sceneggiatura che si racconta più per gesti e simboli che per dialoghi.
I tre attori protagonisti (di cui Adrien Brody è l’unico “nuovo azzardo”), mostrano un chiaro affiatamento ed una sintonia che si ripercuote armonicamente nel loro rapporto di fratelli; il regista inoltre li mostra già dai primi minuti come personaggi ben caratterizzati, il cui fine diviene non tanto quello di evolversi, quanto piuttosto quello di sapersi accettare l’un l’altro.
Io personalmente amo le storie che narrano di fratelli e del loro percorso di evoluzione-formazione, fattore che mi ha spinto ad empatizzare fin dai primi minuti con i fratelli Withman.
Ci si ritrova dunque di fronte a tre personaggi caratterialmente forti, che lottano per predominare sullo schermo e tra di loro; nessuno però è esente da difetti (anzi, oserei dire tutto l’opposto): c’è chi trova nel viaggio l’occasione per fuggire dalle responsabilità; chi confonde l’istinto sessuale con una necessità di essere amato; ed infine chi contrasta la propria vulnerabilità fisica atteggiandosi a “capo”, ad “ideatore” di ogni scelta intrapresa. La bellezza della pellicola si nasconde nella piega degli eventi, che porteranno i fratelli ad affrontare questi problemi da cui sono tanto attanagliati.
La regia di Anderson condisce la storia con quel tocco unico: scenografie in movimento, colori vivi (la scelta dell’ambientazione indiana, piena di simbolismi e cromatismi, sposa perfettamente i gusti del regista), brani evocativi (i Rolling Stones ed i Kinks spiccano tra tutti, per la precisione con cui si calano nel contesto narrativo), e la novità si trova nella scelta di introdurre delle storie parallele, dei personaggi che magari potrebbero essere altrettanto rilevanti, ma che non ci vengono mai narrati.
Questa nuova trovata è tanto amabile quanto odiosa: odiosa perché può facilmente essere male interpretata in “un’occasione sprecata” (la comparsa di certi attori diventa l’opportunità mancata di calarli in un contesto), ma amabile perché, pensandoci, sono le storie non raccontate quelle più speciali, dedicate alla libera interpretazione dello spettatore, e sicuramente non ritenute meno importanti soltanto perché non mostrate adeguatamente sullo schermo.
Ne scaturisce un finale ad effetto, mostrando come, allegoricamente, la vita di ciascuno di noi è assimilabile ad un treno in corsa, in cui ciascuno possiede un proprio scompartimento. Il treno è l’occasione per trovare il coraggio di fuoriuscire dalla carrozza, di esplorarne nuove, e di saperne riconoscere ed accettare l’importanza.
Contiene spoiler