Sono in sala.
Guardo scendere un uomo da una vettura, inconsapevole di cosa (o per essere più precisi, di “chi”) si nasconda nel suo portabagagli.
Tantissime pellicole potrebbero...
Sono in sala.
Guardo scendere un uomo da una vettura, inconsapevole di cosa (o per essere più precisi, di “chi”) si nasconda nel suo portabagagli.
Tantissime pellicole potrebbero iniziare la narrativa da questo input, perché sarebbero svariati gli sbocchi narrativi che ne scaturirebbero. Ed invece…
Si chiude la scena, partono i titoli di coda.
E la mia mente comincia a chiedersi cosa esattamente abbia appena visto.
Kynodontas per me è stato questo: un viaggio interpretativo, la conferma del personale stile di un regista scoperto grazie a “La Favorita”, una storia tanto enigmatica quanto, per certi aspetti, plausibile.
Ed è proprio dal finale che per me bisogna partire, per comprendere ciò che Lanthimos intende trasmettere con il suo film: nel momento culmine della narrazione, in cui chiunque si aspetta di vedere le tragiche conseguenze dovute alla fuga da una vita vissuta in una prigione fisica e psicologica, si chiude il sipario.
Perché la pellicola non intende dimostrare come “scappare” dalla villa in cui è incentrata la maggior parte della narrazione, ma si prefigge piuttosto il compito di manifestare la forza di volontà e di curiosità di cui è preda l’uomo, succube di un desiderio di conoscenza e di libertà che talvolta può portare anche all’autolesionismo.
E se si cerca di dare questa chiave interpretativa, diventa chiaro perché ciascun protagonista dell’opera non possiede nome, dato che diventa irrilevante sapere il nome di quel padre o di quella madre, dimostrando come una simile situazione sarebbe potuta accadere allo stesso identico modo (o quasi) in qualsiasi altra parte del mondo, con qualsiasi altro personaggio coinvolto.
Diverso invece il discorso per i tre figli, cresciuti dentro le mura di questa villa isolata come animali domestici. La loro assenza di nome è voluta più dai genitori stessi che dallo sceneggiatore, per dimostrare la mancanza della loro identità come persone: i figli non sono visti come individui, quanto piuttosto come “oggetti da possedere”. Che questa possessione sia puramente egoistica o con un fine ingenuo di proteggerli dai mali esterni non è detto con esattezza, ma è anche questa caratteristica “enigmatica” e puramente interpretativa che rende il film tanto particolare, e che me l’ha fatto tanto amare.
Ma il desiderio di avere una propria identità è qualcosa di imprescindibile, e si manifesta quando la figlia maggiore comincia a mostrare il bisogno di avere un nome a cui rispondere, distinguibile da qualsiasi altro termine conosciuto; qualcosa di “suo” e suo soltanto. Inoltre la necessità di un contatto con il mondo esterno, per quanto rischioso esso possa essere, porta la stessa ragazza ad usare qualsiasi mezzo, anche la manipolazione e l’inganno, pur di soddisfare la propria sete di sapere.
Riguardo la regia, facendo un paragone con il suo ultimo film (La Favorita), ho trovato un Lanthimos emergente ma già peculiare: inquadrature tagliate, movimenti di camera ridotti al minimo, personaggi collocati in fuori campo come “presenze minacciose”, obiettivo puntato soprattutto sui tre figli, dove si concretizzano i tormenti di un’adolescenza anormale, congelata in un infantilismo perenne.
Si può crescere inconsapevoli, perennemente “bendati” ed alla ricerca di un punto di riferimento? O la natura umana è quella di fuggire ad ogni costo dalle proprie barriere, pur consapevoli dei pericoli che si corrono al di fuori di esse?
Kynodontas potrebbe non essere un film che narra una storia, ma è senza dubbio un film che trasmette un messaggio.
Nonostante l’asprezza di certe scene, consiglio questa pellicola a tutti coloro che cercano di avvicinarsi ad un cinema più d’autore, ed a chi cerca qualche regista che “si distigue”.
Contiene spoiler